spettacoli contemporanea prato

Dieci anni di teatro presente a Contemporanea. E poi?

Giuseppe Chico – Barbara Matjevic “Forecasting”

Il festival Contemporanea di Prato in questa edizione compie dieci anni: un lungo periodo in cui ha svolto un ruolo di rilievo tanto per il racconto dell’esistente – è il direttore stesso, Edoardo Donatini, nell’intervista curata da Massimo Marino con cui introduce il festival, a evidenziare come l’assenza di una linea tematica vada proprio incardinata in questo tipo di tentativo – quanto, di conseguenza, per l’individuazione delle direzioni di ricerca ancora in nuce e destinate, in tempi successivi, a segnare profondamente la scena. È il caso dell’ormai leggendario Alveare, in cui in questi anni si sono avvicendati tanti di quelli che poi si sono rivelati i gruppi del nuovo teatro dei nostri giorni; ma un simile ruolo, Contemporanea l’ha svolto anche rispetto a tanta performatività internazionale, che spesso ha trovato in quello di Prato il suo primo – a volte unico – palcoscenico italiano. E questa politica dell’ascolto, dell’attenzione, dell’affiancamento in questi dieci anni ha dato i propri frutti. Basta andare a scorrere i programmi delle edizioni precedenti per farsi un’idea. Così, sviluppando in pieno una linea in bilico fra racconto del presente e individuazione del futuro che ne ha decisamente distinto il lavoro, il festival 2012, può diventare occasione per fare i conti con quanto sia stato realizzato finora; e, naturalmente, per provare a indovinare quali saranno i prossimi nodi, pensieri, strategie. Riflette con lucidità sul “nuovo”, dalla necessità di accompagnamento alle sue più malsane degenerazioni che (tanto in teatro che fuori) sfiorano le follie del doping, e sull’organicità rispetto alla scena – «oggi c’è bisogno di guardare con occhio disincantato al processo artistico» – la bella intervista di Donatini. Oggi, in un’epoca in cui sembrano risolversi, in termini di ambizioni ricompositive, alcune dicotomie che hanno caratterizzato la cultura e la società del secondo Novecento – su tutte, quella che vede opporsi processo e prodotto – prova a fare i conti tanto con il grido del cigno di questo tardo capitalismo che, faticando a morire, continua a imporre l’innovazione come stile di vita e di consumo; quanto con gli esiti, tutti ancora da interrogare, di un’avanguardia che ormai si è fatta tradizione. «In un momento di crisi come questo proviamo l’esigenza di fermarci, di guardarci indietro per prendere un passo diverso, più riflessivo – continua il direttore artistico – ora è necessario osservare quello che è rimasto davvero. La crisi del sistema, evidente, può servirci per ripartire». Così, sviluppando in pieno una linea in bilico fra racconto del presente e individuazione del futuro che ne ha decisamente distinto il lavoro, il festival 2012, può diventare occasione per fare i conti con quanto sia stato realizzato finora; e, naturalmente, per provare a indovinare quali saranno i prossimi nodi e pensieri che andranno a scuotere la scena.

Estremamente legati alle croci e delizie della contemporaneità, fra vocazione alla partecipazione e seduzione della tecnologia, sembra che anche alcuni spettacoli di questa edizione osservino una simile collocazione temporale, in un presente che si riverbera fra passato e futuro, fra memoria e veggenza. È il caso del fortunato duo composto da Giuseppe Chico e Barbara Matjević, ospite sui palcoscenici dei più importanti festival internazionali: in Forecasting, ultimo capitolo di una trilogia che si concentra sulla perdita di senso della storia in epoca contemporanea, la performer interagisce con una sequenza di video estratti da YouTube, oggetto – ma forse soggetto, più ancora che strumento – capace forse oggi di aprire interrogazioni non banali sul modo tutto attuale di trattare le tradizionali categorie storiche.

Massimo Furlan “You can speak you are an animal”

E se la dimensione co-autoriale emerge con forza decisiva in quei progetti che privilegiano l’interazione con il pubblico – ben salda in Terra nova di Crew, spettacolo immersivo e virtuale posto a inaugurazione del festival – sembra invece trovare una collocazione più persistente in quei lavori, numerosi, che si interrogano profondamente sul linguaggio e, in particolare, sul legame tra segno e significato, a volte recidendolo o, più spesso, reinventandone i termini. È il caso dell’olandese Yan Duyvendak, ma anche del nuovo progetto di Kinkaleri, All!, qui a Prato con l’ulteriore capitolo di una ricerca legata all’invenzione di una vera e propria grammatica capace di far interferire fra loro dimensioni tradizionalmente separate come il linguaggio del corpo e quello della parola. Così come con You can speak you are an animal dello svizzero Massimo Furlan, in cui l’indagine fra natura e cultura, fra uomo e animale si sviluppa tramite l’esposizione di immagini tanto schiaccianti quanto criptiche. Frammenti, esplosioni, resti – gli elementi di una struttura narrativa allo stato residuale che vengono ricuciti e rimpastati, qui come altrove, secondo percorsi la cui creazione è quasi interamente delegata ai processi di fruizione individuali.

Uomo-macchina, uomo-animale, reale-virtuale, civiltà-cultura, senso-non senso sono alcune delle coppie concettuali che si ritrovano negli spettacoli di Contemporanea 2012, fra tentativi di riappropriazione della storia e utilizzo creativo delle tecnologie, vocazione partecipativa e invenzione di nuovi linguaggi. È forse significativo notare, in un’epoca di ancora non pacificata ottica ricompositiva, come le potenzialità legate alla dimensione co-autoriale restino piuttosto latenti nel momento in cui i termini di tali coppie vengono trattati secondo la propria tradizionale dinamica oppositiva. Le potenzialità legate alla partecipazione del pubblico vengono a volte marginalizzate da un presente che più che progettare nuove strade o ripercorrere i fili delle precedenti, più che di ideazione o ricostruzione, si avvolge di una dimensione sognante e nostalgica: come se, guardando se stesso, il presente si trattasse come quel futuro visto dal passato di Philip Dick, Matrix o Odissea nello spazio.
Diverso è quando i due poli solitamente opposti si incontrano, si confondono, cortocircuitano, in modo che il contributo dello spettatore diventi sostanziale, si attivi ed esploda: è il caso dei passaggi quasi comici – il potere sovversivo di tale dimensione, non a caso, è noto – di Forecasting in cui l’interazione fra performer e computer riesce a evocare una prospettiva ulteriore, “mista”, del rapporto fra uomo e macchina, quando l’uno diventa vicendevolmente la protesi dell’altro; o di alcune immagini particolarmente fosche e perturbanti dello spettacolo di Furlan, in cui viene coltivata un’ambiguità concreta, inquietante, fra uomo e animale. Si tratta di cortocircuiti che consentono l’apertura di varchi concreti fra scena e platea e, con essa, lasciano intravvedere in alcuni momenti una possibilità di ricomposizione fra i termini della coppia forse più discussa, quella composta da processo e prodotto – un pensiero che è quasi un augurio, nel caso l’ipotesi fosse fondata, per la scena a venire.

Roberta Ferraresi

Contenuto originariamente pubblicato su Doppiozero

Il nuovo linguaggio di Kinkaleri

Recensione a Gun No Fake For You / All! – di Kinkaleri

Simona Rossi – foto di Kinkaleri

Una danza fatta di consonanti, di vocali, di punteggiature. Lettere restituite da un codice corporeo e da sfumature sonore che si intrecciano con passi, gesti, scivolamenti. Da un movimento all’altro le intersezioni, gli spazi necessari che servono a comporre una parola, a darle senso e a proferirla: svuotano il significato ma regalano un nuovo significante.

La performance che Kinkaleri ha presentato al Festival Contemporanea di Prato dal titolo Gun No Fake For You, inserita nel progetto più ampio All!, interroga il linguaggio e ne sviluppa uno ex novo, con tanto di alfabeto creato per l’occasione. Simona Rossi – che insieme a Jacopo Jenna è l’interprete di questo lavoro – illustra le singole lettere che lo compongono: sono date da una gestualità precisa, che può essere un braccio teso, una rotazione delle spalle, un ginocchio alzato, un giro su se stessi e così via per arrivare fino a 26 diversi movimenti, tanti quante sono le consonanti e vocali del nostro alfabeto. Ogni gesto coreutico si accompagna a una produzione di suoni, a sforzi gutturali quasi animaleschi che tentano di restituire una comprensione verbale parziale della lettera a cui si dà vita con il proprio corpo. Sembra di tornare a una babele incomprensibile, a un calderone in cui le parole cercano di prender vita per formare una nuova comunicazione che rimane in ogni caso, per gran parte dello spettacolo, quasi afona.

Kinkaleri crea un meccanismo complesso dove i due danzatori in scena, attraversoun codice corporeo che diventa ipnotico, interpretano un testo di William Burroughs in cui il gesto si fa interpunzione, lettera, parola.

Jacopo Jenna – foto di Kinkaleri

La componente di immediatezza, che fa del corpo l’unico comunicatore in un linguaggio universale, qui scompare perché il movimento del fisico cerca di replicare un idioma verbale che non gli appartiene: il risultato è che la comprensione è separata da un abisso, il gesto deve essere decodificato per essere colto nella sua totalità, diventando un attraente “fake” sostitutivo della parola. Rossi e Jenna catturano con i loro puntuali “nuovi significanti”, si fanno perfetti interpreti di una lingua astratta ma che attira e che da spettatori si tenta continuamente di afferrare; interessante come da questo codice i due fuoriescano – e allo stesso tempo il pubblico con loro – entrando nel quotidiano, prendendo una tazza di caffè o sistemando un faldone su una scaffalatura: un gesto immediatamente compreso da tutti.
E curioso come per interrompere del tutto questo nuovo linguaggio sul nascere sembra sia possibile un solo modo: la violenza. Inaspettati colpi di pistola, che loro stessi sparano, bloccano qualsiasi forma di espressione ulteriore, i loro corpi non danno vita più a nessun linguaggio, si guardano e si aggirano per lo spazio come se avessero dimenticato ogni forma di espressione precedente. L’alfabeto inventato è ormai diventato sterile e sembra che non ci si possa più tornare.

Visto allo Spazio K, Festival Contemporanea di Prato

Carlotta Tringali