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Il Sud Africa di Elisabeth

Recensione a The Syringa TreeRita Maffei e Larry Moss

Foto di Nicola Boccacini

Uno spezzato sul Sud Africa degli anni Sessanta, la storia di una vita e l’intreccio di altre venti: The Syringa Tree parla dell’Apartheid visto da Elisabeth Grace, una bambina di sei anni che guarda il mondo intorno a sé e cresce  raccontandolo. L’autrice del testo è Pamela Gien, attrice e drammaturga sudafricana che da vent’anni lavora negli Stati Uniti. The Syringa Tree è il suo primo testo teatrale, un intreccio complesso di storie e personaggi. La voce di Elisabeth, che con candida innocenza racconta i peggiori risvolti della segregazione razziale, dopo dieci anni, arriva in Italia grazie alla traduzione di Maria Adele Palmeri e all’interpretazione di Rita Maffei.

Un testo complesso, che vede l’attrice nei panni di Elisabeth raccontare la storia della sua famiglia: una famiglia di bianchi, in un’Africa nera, una famiglia fuori dal comune che ama la sua terra e la gente a cui appartiene. Scritto per una sola interprete il testo si presenta come una vera e propria sfida – a metà tra il teatro sociale e quello di narrazionemettendo in mano a chi lo rappresenta ventiquattro storie vere per altrettanti personaggi, ognuno alla ricerca di un’interpretazione fedele. È nei continui dialoghi e canti che si snoda il racconto, è sempre Elisabeth a tenere le fila della storia, attraversata via-via da tutti i componenti del suo piccolo mondo: quello stretto tra le mura di casa e lo steccato bianco del cortile.

foto Nicola Boccaccini

Apartheid in africans significa “separazione”. Un’unica parola che ne nasconde un’infinità di altre: sono queste – parole e storie – che ha svelato Rita Maffei e prima di lei Pamela Gien. Non è facile per una bambina raccontare qualcosa che non capisce, come non deve essere facile per un’attrice impersonare tanti personaggi di etnie e lingue diverse. Eppure la chiave sembra essere proprio l’unicità dell’interpretazione, quasi che a voler dare veramente un volto diverso a tutti, questa storia non avesse più senso. Quasi che la drammaturgia prima della regia, dando voce ad un unico personaggio, uno per tutti, restasse fedele al proprio punto di vista etico e politico sulla verità che racconta.

Non stupisce la scelta della Maffei ricaduta su un testo così importante, stupisce piuttosto il coraggio nell’affrontare un’interpretazione difficile per un’artista che non avremmo mai definito trasformista. Ad aiutarla nell’impresa sicuramente la regia e lo studio attoriale fatti con Larry Moss, lo stesso regista che ha curato la messa in scena americana. L’attrice canta, gioca, balla; è una bambina, un’anziana, è una donna depressa, un medico, un’inglese, una levatrice incinta, una ragazza ribelle; è bianca, è nera.
Un testo leggero non troppo impegnato che lascia però un prurito dentro, la voglia di sapere una fetta di storia, di scoprire un Paese e nel nostro piccolo di rimarginare ferite.

Visto a Teatro San Giorgio, Udine

Camilla Toso

Cecità occidentale

Recensione a Canto per Falluja – regia di Rita Maffei

Foto di Luca d'Agostino/Phocus Agency © 2008

L’ininterrotta dimensione di morte e terrore, da cui l’Iraq non ha ancora potuto svegliarsi, è una buia notte che dura da trent’anni. Anni di guerra, dittatura, torture, embargo, ancora guerre e occupazione. Territorio che non conosce – nè ricorda – tregue, i cui pochi abitanti rimasti sono i sopravvissuti che non sono riusciti ad emigrare altrove. Solo tra chi se ne è andato si può rintracciare una testimonianza di cos’era e cos’è l’Iraq. Sono, infatti, i racconti di alcuni iracheni profughi in Giordania che hanno fornito le basi per il dettagliato e forte lavoro di Francesco Niccolini. Il drammaturgo italiano scrive Canto per Falluja spinto dalla volontà di Simona Torretta: l’operatrice umanitaria dell’organizzazione “Un ponte per…” che, dopo aver subito il drammatico sequestro a Baghdad nel 2004, continua tenace la sua missione. Nel 2006 decide di coinvolgere Niccolini e l’attrice e autrice Roberta Biagiarelli in un altro viaggio: li porta con sé in Giordania, alla ricerca di un Iraq concreto fatto di ricordi, emozioni e testimonianze, per riuscire finamente a raccontare verità storiche riguardo alle vicende irachene.

Grazie, poi, all’incontro con Rita Maffei e il CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, Canto per Falluja prende forma scenica e vince il Premio Enriquez 2009. La “città delle cento moschee” è scelta come prova della devastazione irachena, testimone – per il famoso attacco con le bombe al fosforo – delle violazioni e della cieca violenza dell’esercito statunitense. La vicenda del dramma è ambientata a Falluja nel novembre 2004: un sopralluogo di marines finisce in strage e un soldato rimane bloccato in casa di un’irachena bendata. Lei è un’antropologa, donna colta, madre di quattro figli (ora morti o dispersi), lui un immaturo e inconsistente trentenne arruolatosi per noia e andato a Falluja controvoglia. Da qui comincia il confronto, dialogo sincero e sofferto tra individui che – anche parlando la stessa lingua – non si capiscono, si attacano, feriscono fisicamente, ma si raccontano. Incontro tragico e surreale in cui punti di vista inconciliabili si pongono vicendevolmente domande dirette: fatte di curiosità, d’ira e di provocazioni. Ma le tremende regole della guerra sono sorde a tutto ciò che è scomodo e lontano dagli obiettivi prefissati, che si tratti di arte e cultura, umanità o vita, non c’è mai differenza. Arduo trovare un lieto fine nella morte causata dalla guerra.

Lo spettacolo di Rita Maffei è intenso, curato e semplice; la scena, scarna ed essenziale, è efficace (con qualche riserva su titolo di testa e proiezioni finali) e, nonostante palco e sala del Teatro dei Filodrammatici siano poco adeguati alle esigenze della scenografia e di una piena fruizione, la magia del teatro riesce: un angolo di Falluja è davanti agli occhi del pubblico. “Magia” fin dal primo ingresso del soldato (Paolo Fagiolo) che imbraccia il mitra. Tra gli attori sicuri e d’esperienza presenti sul palco, spicca Roberta Biagiarelli, che con la sua forza fa vivere una donna irachena concreta, ma allo stesso tempo eroica e tragica, dall’impeccabile intensità. Sottile e poetico il fascino casto e tutto arabo che emana da semplici gesti e portamento.

Peccato la scarsa affluenza di pubblico.

Visto al Teatro dei Filodrammatici, Milano

Agnese Bellato