spettacoli gruppo nanou

Incontrando Marco Valerio Amico di gruppo nanou a Ipercorpo 2011

foto di Laura Arlotti

I nostri redattori, Roberta Ferraresi e Carlotta Tringali, assieme a Simone Nebbia di Teatro e Critica sono a Ipercorpo 2011, rassegna organizzata da Città di Ebla a Forlì.

Incontriamo Marco Valerio Amico, per un’intervista, nel secondo giorno di Ipercorpo. Gruppo nanou è qui da ieri con Sport, la loro ultima creazione. Ma la conversazione, in verità, prende questa forma pubblica da un incontro nato già il giorno prima e che è destinato a procedere anche oltre l’intervista. In uno dei “salottini” allestiti nel corpo centrale del Deposito ATR di Forlì, fra le luci di un aperitivo e il rumore bianco di una tv, si parla di corpo e di spazio, di politica culturale e di umanità, di invenzione di una forma di resistenza capace di rigenerare gesti e cultura.

La prima questione è sull’incontro fra il vostro lavoro e questo spazio “speciale”: cosa accade quando il “corpo nello spazio” di Sport viene trasferito in un luogo altro, che, per inciso, non è propriamente uno spazio teatrale?

Noi siamo qui con Sport, un progetto che ha un margine di adattabilità e riscrittura, a seconda dello spazio, molto particolare. È stato ragionato fin dall’inizio come una scrittura mobile, che possa anzi sfruttare il più possibile il luogo in cui si ritrova – a partire da una galleria di 800 metri, un palcoscenico di 10 x 10 o una situazione come questa di Ipercorpo, con delle caratteristiche particolari. Non si tratta di una struttura teatrale chiusa che, per eseguirsi, deve ricostruire un habitat predestinato e predeterminato. In questa dimensione, occorre calcolare delle variabili di intenti e una serie di incognite che implicano una gran mole di lavoro nello studio del luogo, dalle fotografie ai sopralluoghi che occorrono per capire come ricreare l’habitat aderente al progetto.

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Questo contenuto fa parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Teatro e Critica

Rivelazioni e nascondimenti nelle Stanze di Motel

Recensione a Motel. Prima e Seconda Stanzagruppo nanou

Progetto Motel. Prima Stanza (foto di Laura Arlotti)

Un interno post-borghese vibrante tutto in bianco e nero − o, meglio, impregnato dai tanti toni di grigio− un tavolo e due sedie, un’ambientazione traslucida fondata su una prospettiva centrale unica, diretta. Poi uno spazio articolato in più zone, divani e poltrone bordeaux. Qui e là, una grande attenzione alla texture, alla trama che rende tattile la visione. Queste la Prima e la Seconda Stanza del progetto Motel del gruppo nanou, entrambe attraversate dalla magnetica coreografia di micro-azioni − fra assoli minuti e qualche enigmatico passo a due, che sembrano pose di differenti stati emozionali − di un uomo e una donna (Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci). Non è la prima volta che la ricerca della compagnia si concentra sulla dimensione relazionale, anzi si potrebbe dire che essa ne va a costituire, sia a livello tematico che linguistico, uno dei tratti distintivi. Ma in questo lavoro, composto da tre differenti episodi, le figure in scena che ritornano − venendo declinate, riprese o tradite dalle diverse Stanze di Motel − vanno a fondare delle specie di macro-personaggi, la cui identità sembra decisamente più ampia rispetto al singolo spettacolo. È così possibile per lo spettatore, nei grandi “spazi bianchi” lasciati all’immaginazione, andarne a rintracciare i caratteri e le funzioni, le emozioni e i comportamenti, in un processo di comparazione che è oggetto di un continuo riassetto di prospettiva.

Entrambi gli episodi di Motel − il terzo e ultimo è ancora in lavorazione − sono costituiti attraverso una struttura che riflette sulla narrazione e sulla sua assenza; beninteso, non che proprio non ci sia la dimensione del racconto, ma la sua accessibilità è continuamente rimandata e messa in discussione, per essere poi squarciata e rimasticata dall’azione stessa. La composizione drammaturgica è ben presente − anzi la sua consistenza è evocata, richiamata e calcata persino fino ad inchiodare alcuni guizzi che trascinerebbero le azioni verso l’evaporazione − ma è come se si potesse intercettarne i nodi solo nei momenti “sbagliati” (meno pregnanti o determinanti). Come se la storia che si sprigiona dalle macerie dell’Occidente si concedesse allo spettatore per tratti, solo parzialmente significativi: al centro della Prima Stanza sembra collocarsi un’attesa cronica, seppure più prossima alla sospensione di tanti quadri di Hopper, che avvicinabile al teatralmente tradizionale riferimento beckettiano; nella Seconda l’accento è posto su un criminemai rivelato, tracce di catastrofi che nessuno ha visto. Le (presunte) azioni-chiave sono negate soprattutto attraverso un montaggio sottolineato da un continuo andirvieni di bui − e quando la luce ritorna, è come se si fosse perso qualcosa di cruciale, uno snodo o una rivelazione fondamentale per la comprensione dello sviluppo della scena, fino a far sembrare Motel più una sequenza di polaroid accostate che un flusso di accadimenti.

Progetto Motel. Seconda Stanza (foto di Laura Arlotti)

Ma non si tratta soltanto di un dispositivo drammaturgico, e la sottrazione della narrazione si concretizza anche a livello performativo. In entrambe le Stanze il ruolo emblematico della negazione è dichiaratamente delegato ad un oggetto − nella prima un tavolo, nella seconda un divano − che inghiotte ripetutamente le azioni dei performer, anche quelle (ipotizzabili) più importanti. Qualcosa è mostrato, suggerito, svelato e rivelato, attraverso alcune soluzioni sceniche davvero affascinanti, come il recupero degli accadimenti celati dal divano attraverso un triplice specchio mobile a fondo scena, che certo in parte mostra, ma soprattutto nasconde ulteriormente, l’identità dell’azione come in un dipinto di Bacon.
Con queste intuizioni compositive e performative, assieme a quelli che la compagnia stessa definisce “residui narrativi”, si può approfondire una prospettiva sulla scena contemporanea: superati la rappresentazione e il post-drammatico, gli artisti sembrano dover fare i conti con quella rinascita della testualità che da qualche anno coinvolge i palcoscenici italiani; ma non si tratta di un recupero della dimensione drammaturgica tout court, né di un affondo nei dispositivi di assemblaggio postmoderni, quanto forse piuttosto di un confluire del processo compositivo nella sua resa spettacolare, di una fusione fra dispositivo ed esito, di un movimento acrobatico e sinuoso che sembra avvicinare dimensione rappresentativa e realtà della scena.

Sarebbe semplicistico ricondurre gli slanci di questo lavoro alle categorie del teatro-immagine − di cui pure conserva notevoli elementi, dall’intreccio linguistico alla potenza della visione, fino a qualche momento in cui il rischio che il fascino iconico possa essere compreso più come esercizio di stile che come tentativo di messa in relazione con il reale. In entrambi gli episodi, infatti, non è proposto un montaggio puramente visivo, ma si pone l’accento sulla dimensione partecipativa dello spettatore, anche attraverso momenti di dichiarata riflessione sulla sostanza della performance: la Prima Stanza è inaugurata da un “gobbo” su cui scorrono frasi come «Benvenuto questo è il posto che cercavi»,  interrogando il pubblico sulle ragioni per cui attori e spettatori si trovino lì; la Seconda, invece, è introdotta da una voce modificata, comprensibile solo a brandelli: «Non voglio svegliarti, ma c’è qualcosa che devi vedere». E proprio in questi rigurgiti metateatrali, posti ad inaugurare ognuno degli episodi, si può trovare uno slancio che supera i limiti di quello che è riconosciuto come teatro-immagine: a fianco alla  finzione scenica nanou colloca la realtà della messinscena e l’ermetismo di certe immagini, o dei riferimenti o degli inneschi, si scioglie nell’enormità di un mistero costitutivamente inaccessibile, della cui comunicabilità parziale sono complici tanto gli artisti quanto gli spettatori.
Tale crinale di sovversione dei canoni rappresentativi − che riesce a fare di un dispositivo drammaturgico una linea performativa e poi una strategia di relazione con il pubblico − si trova forse all’origine dell’impostazione tematica del progetto Motel: la violazione dell’intimità, nell’affacciarsi sui quotidiani segreti nascosti nei meandri dello spazio domestico, è dedicata innanzitutto allo spettatore, che è richiamato con evidenza a un protagonismo partecipativo, attraverso una partitura drammaturgica che ne mette continuamente in crisi lo sguardo “esterno”, fra testimonianza e voyeurismo.

Visto al Teatro al Parco, Parma

Roberta Ferraresi

Oniriche visioni

Foto di Laura Arlotti

Foto di Laura Arlotti

Recensione a Sulla conoscenza irrazionale dell’oggettogruppo nanou

L’atmosfera di Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto, di e con Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, è precisa dal primo istante: come in una visione delirante – o meglio -, in un incubo, appaiono creature inquietanti, deformate, non umane. Sono due figure che, diverse tra loro, condividono lo stesso ambiente: vivendolo, esplorandolo, soffrendo e giocando. I due corpi distorti nella postura o in espressioni atroci compongono quadri che evocano gli esseri mostruosi dei dipinti di Bosch, le spalancate bocche di Bacon; sono corpi che avanzano rovesciati quasi a ricordare possessioni diaboliche, scattanti nel buio, barcollanti, striscianti nella penombra che avvolge il palco.

Le due creature, prive di un linguaggio verbale articolato a tratti, scrivono su una lavagnetta frasi sensate alternate a composizioni deliranti. Si esprimono attraverso gesti, con propri caratteristici passi e andature, con salti e cadute; oppure versi strillati, quasi rapaci, parole sussurrate e grida.  Sono creature isolate nelle proprie rispettive esistenze, vivono esprimendosi nelle loro mostruosità senza soffrire la mancanza di parola, prive di frustrazione o senso di impotenza, sono corpi pieni di energia. Ma i due esseri sembrano non rivolgersi mai l’un l’altro: qualche volta si avvicinano, forse si studiano quando sono in prossimità dello stesso luogo, ma non giungono mai ad un contatto. L’ambiente sonoro curato da Roberto Rettura scivola dolcemente in un cambiamento totale d’atmosfera con l’entrata di un caldo e umano suono di sax che irrompe nella scena. Ecco che avviene la trasformazione: lui e lei, ora uomo e donna, sono l’una davanti all’altro, pronti a ballare una danza già fredda e morta. Pochi secondi, basta uno sguardo e l’urlo straziante di lei che lo fugge sembra voler strillare la mostruosità della condizione umana e la straziante consapevolezza afferrata nell’immediatezza di un attimo.

Una nota di merito va a Rhuena Bracci che incanta e inquieta con l’espressività del suo corpo, testimone di grande studio e preparazione tecnica.  Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto è il frutto appena maturo dello studio Tracce verso il nulla iniziato nel 2007. In un linguaggio visivo e sensoriale Il GRUPPO NANOU cerca empaticamente il suo fruitore senza necessità di una narrazione razionale e propone un lavoro suggestivo, frammentario e imprevedibile come lo sono i sogni, in cui il filo conduttore non può emergere dalla superficie.

Visto al PIM Spazio ScenicoMilano

Agnese Bellato