spettacoli teatro padova

Galileo, Goldoni e l’editto bulgaro

Veneti Fair - Marta Dalla Via

Padova: 16, 17 e 18 settembre. In scena l’edizione zero della vetrina Sguardi: festival del teatro contemporaneo veneto. Un’occasione di incontro e di visibilità prima di tutto; ma una volta giunti al traguardo della maratona (21 eventi in tre giorni), impeccabilmente organizzata da Labros Mangheras e prodotta da PPTV (Produttori Professionali Teatrali Veneti), sotto il coordinamento del comitato artistico capitanato da Andrea Porcheddu, restano quei piccoli dolori muscolari, l’acido lattico si fa sentire anche per i giorni successivi, costringendo a ripensare alla corsa. Un vero e proprio tour de force, infatti, che, seppur dagli esiti qualitativi altalenanti, ha offerto una finestra sul teatro prodotto in Veneto che può e deve far riflettere. A partire da una constatazione: molti spettacoli presentati avevano come tema la “veniticità”, in numerose sue declinazioni, uno stringere il proprio campo d’azione e di riflessione ad un territorio specifico, sintomatico di movimenti localistici sempre più forti in Italia.

Il Paese dei cento campanili lo chiamano: con un’unità relativamente recente rispetto alla media europea e raggiunta attraverso un’autodeterminazione popolare un po’ pilotata, l’Italia ha da sempre rivendicato con forza le sue differenze interne piuttosto che gli elementi di coesione nazionale. Dalla gastronomia ai dialetti, dal tifo calcistico alle abitudini quotidiane: l’impegno per sottolineare le differenze tra nord e sud, ma anche tra singole regioni fino a paesini limitrofi, occupa da sempre le più accese conversazioni degli italiani. Convenendo che il periodo – un ventennio tristemente noto – di maggiore patriottismo e nazionalismo in Italia non sia stato decisamente un momento di cui andare orgogliosi, va però riscontrato che la progressiva e dilagante crescita di localismi e rivendicazioni di identità legate a limitati territori registrata negli ultimi anni sia un fenomeno perlomenopreoccupante. Preoccupante non solo perché probabilmente anacronistico rispetto alle tendenze globalizzanti e multietniche della modernità, ma ancor più perché prende forza da premesse fuorvianti: l’identità, quando si chiude nei limiti del localismo, glorifica se stessa restando sulla superficie delle sue espressioni meramente folkloristiche, rifugiandosi in un passato edulcorato ed innalzando fortificazioni in sua difesa che agevolmente si tingono di xenofobia. Come se l’identità di un popolo fosse qualcosa che quello stesso popolo abbia perso da qualche parte, o peggio ancora un qualcosa da fissare; come se l’oggi fosse il momento in cui mettere un punto fermo, immobilizzando e rendendo stantia e stagna un’identità fatta di secoli di storia, cambiamenti, immigrazioni ed emigrazioni e soggettività. Ben venga un impegno nel cercare di non perdere canti popolari o feste tradizionali, ma l’identità, come la cultura, assorbono linfa vitale proprio dalle novità, dai cambiamenti, dal loro essere nella contemporaneità: il folklore e le tradizioni ne sono elementi fondanti, ma solo in parte;se si confondono fino a una totale sovrapposizione, il revisionismo reazionario è dietro la porta. Specie se questa confusione è non solo autorizzata dalle istituzioni, ma legittimata e, in molti casi, fomentata e caldamente indirizzata dall’alto. Lungo tutto lo stivale, infatti, è un continuo proliferare di assessorati ed enti locali che inneggiano all’identità: dalla Direzione Generale Culture, Identità e Autonomie della Lombardia, per esempio, ci si imbatte nell’Assessorato identità e futuro del Comune di Caltanissetta o in quello all’identità Veneta della Regione che ha sostenuto l’iniziativa di Sguardi, nell’ambito di un bando regionale che, proponendo di agevolare iniziative su «materie strettamente legate al tema dell’identità (usi e costumi, armi, musiche, arti, conquiste ed esplorazioni, conoscenza delle specificità dei mestieri e della vita quotidiana del Veneto, ecc.)», palesa il disguido di fondo su cosa vada a comporre l’identità. Sorvolando – non per carenza di indignazione ma perché la questione meriterebbe una trattazione dedicata – sul discutibile concetto che le armi possano in qualche modo essere un elemento costituente di un’identità, ci si limiterà a rilevare i sintomi di una più generale “crisi di identità”, che in Veneto sembra ancor più sentita che in altre parti d’Italia, come dimostrato anche da alcuni lavori nel cartellone della vetrina padovana.

Quella stessa crisi che ha colorato sempre più di verde questa Regione, infatti, invade il palco in una sorta di ossimorica denuncia-difesa: come a dire che esiste anche un altro Veneto, che non ama e non condivide quello ufficialmente noto nel resto d’Italia. Non solo capannoni e lavoratori clandestini sfruttati, non solo muri ed espressioni vernacolari, non solo ronde e spritz: ma la critica, la denuncia, la riflessione riguarda proprio (solo) questi elementi. Come nel divertente Veneti Fair della brava e giovane Marta Dalla Via, la satiranon affonda mai davvero il dito nella piaga: si deridono, insieme a un pubblico connivente, quegli altri, ma come si prende in giro un parente buffo, un compagno di scuola un po’ sempliciotto. Niente va mai davvero a sradicare le basi, le radici di questa chiusura che ha come motto la riscoperta e la difesa della propria (presunta) identità regionale: sono sguardi che non allargano il loro orizzonte.

Peccato perché proprio personaggi illustri della tradizione e da sempre motivo di orgoglio per questa regione avevano professato il contrario. Primo tra tutti Goldoni, grandioso riformatore del teatro del suo tempo, fine rivoluzionario e cittadino del mondo, ha usato la sua cultura e la sua tradizione per andare oltre, per scardinarle ed ampliarle. Troppo spesso, invece, gli si fa il torto di ridurlo alla dimensione di simbolo regionale, surgelando la sua opera alla data di edizione – ma, talvolta, fortunatamente il suo lavoro viene rivisto e riletto più in coerenza con il suo messaggio che in rispetto pedissequo della figura ormai divenuta istituzionale: come nell’irriverente e raffinata riscrittura del goldoniano La Bancarotta o sia Mercante fallito presentata in forma di lettura scenica da Vitaliano Trevisan. Operazione riuscitissima che amplia e potenzia il punto di vista, con un uso del dialetto spontaneo, vitale, che conferisce verità ai personaggi senza limitarne i confini di azione. Qui lo sguardo spazia giungendo ad una dimensione universale: come ha insegnato un altro illustre personaggio – “foresto” – che il Veneto ha in passato ospitato: Galileo. Il grande astrofisico ha diretto il cannocchiale verso la volta celeste, andando a confutare con veemenza le certezze catto-aristoteliche che sembravano indiscutibili. Ha guardato oltre, aldilà, aprendo i confini della mente e della conoscenza, rivoluzionando e ribaltando un sistema che sembrava fissato per sempre. Mentre il cannocchiale di molti artisti resta a corto raggio, francamente impiantato nel terreno e mosso a 360°, ma sempre ad altezza d’uomo, veneto. Quello che si genera è un circolo vizioso – anche se si riconoscono gli intenti assolutamente virtuosi. Si crea la paradossale situazione per la quale l’altro Veneto sembra esistere solo di riflesso a quello ufficiale: non rivendica una sua indipendenza, e non riesce ad intaccarne minimamente le dinamiche, non c’è alcun pericolo. E, ironia della sorte, è finanziato, in parte, proprio da quell’area politica che critica così apertamente. Insomma, «butemo le burle da banda e parlemo sul sodo»: è come quando uno dei tanti comici televisivi deride Berlusconi proprio nelle reti di proprietà del Premier. Il potenziale sovversivo dell’operazione è presto scampato: le battute sono principalmente degli sfottò più che dei veri e propri affondi che possano in qualche modo incrinare l’immagine del Presidente, che può però farsi vanto di liberalismo e democrazia proprio in quanto permette libertà di espressione agli oppositori senza esercitare alcuna censura, pur avendone in realtà pieno potere. Detto in altre parole, se si risponde alle spinte conservatrici e retrograde con lo stesso attaccamento al passato e al folklore, senza mettere in crisi il concetto stesso di identità, non si rischia alcun editto bulgaro.

Silvia Gatto

Confini da abbattere

Recensione a Annibale non l’ha mai fatto – TAM Teatromusica

Durante la stagione 2009/2010, diversi appuntamenti hanno trasformato il palcoscenico del Teatro delle Maddalene in un luogo dove la diversità potesse cercare un contatto con l’Altro, con ciò che le è estraneo. Partendo da In cammino (TAM Teatromusica) e passando per Kish Kush (Teatrodistinto) si è giunti ad Annibale non l’ha mai fatto, nato dal progetto TAM Teatrocarcere, condotto da Andrea Pennacchi e M.Cinzia Zanellato. Il progetto, che quest’anno festeggia il 15^ anno di attività, parte dal presupposto che “il teatro in carcere sia necessario a chi è dentro, ma anche a chi sta fuori” (Michele Sambin, direttore del TAM). Protagonisti, due performer: Andrea Pennacchi e Kessaci Farid, attualmente detenuto presso il carcere Due Palazzi di Padova.
Essere consapevoli della reclusione che Farid sta scontando permette allo spettatore di esplorare nuovi schemi interpretativi e accedere a chiavi di lettura inedite. La scena si carica di significati che, nella nostra quotidianità, nella nostra normalità, ha perso molto tempo fa. Il palco improvvisamente si ritrasforma in un luogo di libertà: Farid e Andrea ci ricordano con la loro presenza come le quinte, il pavimento, il soffitto rappresentino uno spazio mentale che, nonostante la concretezza dei confini, è in grado di espandersi raggiungendo luoghi, punti di vista e prospettive lontani. Uno spazio in cui il tempo può essere percorso come un labirinto, per salti e sospensioni, in ogni direzione: partendo dal percorso di Annibale e della sua storica traversata delle Alpi, Andrea e Farid, nel ruolo l’uno di Arba, elefantessa matriarca, e l’altro del proprio nonno, 37 nonni fa, ricostruiscono le vicende di un’affinità, di un’unione che sa di integrazione e comprensione. Due diversi mondi sono chiamati non solo a comunicare, ma anche a cooperare per poter superare difficoltà apparentemente insormontabili: l’attraversamento del fiume, la discesa delle Alpi innevate e la battaglia rappresentano quindi momenti chiave per la comprensione di un processo di integrazione che investe la società in cui viviamo e che si concretizzano sulla scena attraverso il rapporto tra l’animale e l’essere umano.

Dal palco trasuda un bisogno di osservare la nostra realtà quotidiana da un punto sopraelevato per poter risolvere le incomprensioni legate all’incapacità di comunicare, ritrovando un senso d’umanità ormai dimenticato. È infatti un viaggio che si muove per direttrici verticali quello che compiono Arba/Andrea e il nonno di Farid/Farid. Una verticalità suggerita, e all’occorrenza enfatizzata, dalla scenografia, costituita da pochi elementi estremamente funzionali: coni di telo bianco si trasformano, grazie ai video realizzati da Raffaella Rivi, in fiumi, cieli, pagine di libri, zampe di elefante, scenari in grado di completare e dare un senso al racconto dei due performer, le cui parole, elemento centrale della narrazione orale, acquistano un maggior senso di verità attraverso le azioni sceniche che li mettono alla prova. Non a caso, sono due scale gli oggetti attraverso cui vengono suggeriti gli spostamenti e le condizioni di viaggio dei due protagonisti: esplorandone le componenti e sperimentandone le posizioni, i due performer suggeriscono allo spettatore quelle montagne, quei fiumi e quelle pianure che tappezzano il viaggio di Annibale e dei suoi uomini. Questo moto verticale trova compimento solo sul finire dello spettacolo, quando Arba cede alla battaglia perdendo la propria vita. In questo momento di morte trova però spazio la descrizione di una fraternità rinata: il radunarsi degli animali attorno alla loro simile non può che ricordare a noi esseri umani quanto sia necessario essere presenti nel momento della sofferenza, chiunque essa colpisca. È quindi il concretizzarsi dell’anima di Arba sulla scena, personificata da Claudia Fabris, che costringe lo spettatore a fare i conti con una tensione ascensionale travolgente, trasformando lo spettacolo in un’esperienza che realmente può contribuire alla crescita personale di chi partecipa a questo rito collettivo.

Servendosi di immagini semplici e immediate, ancora una volta TAM Teatromusica riesce quindi a scavalcare i limiti fisici del teatro per parlarci di cose concrete e che costellano la nostra vita quotidiana. Grazie al progetto Teatrocarcere la scena si carica di nuovi significati, in grado di creare un punto di contatto tra il pubblico e il palcoscenico, rompendo quella barriera che troppo spesso poniamo tra la realtà e la finzione, tra l’arte e la vita.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli

La povera patria di Latella

Recensione a Le nuvole – regia di Antonio Latella

www.teatrostabiletorino.it

Spesso si rimettono in scena gli antichi classici rivendicandone l’universalità dei temi, e quindi il loro eterno valore; ma quando si tratta di una commedia di 2500 anni fa sull’educazione delle nuove generazioni e sulla corruzione morale quale è Le nuvole di Aristofane – riallestito da Antonio Latella per il Festival dei 2Mondi di Spoleto lo scorso anno– forse la spiegazione di tanta attualità sta in un ben più amaro: “nulla è cambiato”. E il regista campano suggerisce che, anzi, la situazione è peggiorata.

www.teatrostabiletorino.it

La porta del pensatoio, dove Socrate istruisce i suoi adepti, si è rimpicciolita e ha preso le forme di un boccascena con tanto di siparietto rosso: l’ingresso al sapere è diventato più ristretto, ostico; la cultura  si è trasformata in intrattenimento e il filosofo (un eccezionale Massimiliano Speziani) in un predicatore/majorette che cantando “follow me!” raccoglie proseliti. Insieme a Speziani, che dà anche voce o movenze al pupazzo di Fidippide, figlio fannullone (o bamboccione) del vecchio Strepsiade, in scena altri due clown (che conservano di questa magica figura circense solo le smisurate calzature): Annibale Pavone, che interpreta con grazia e bravura l’anziano padre, e Marco Casciol, irriverente e convincente discepolo della scuola. Maurizio Rippa, infine, in tutù e ventaglio di piume, diverte con le sue movenze da improbabile soubrette e incanta con le sue incursioni musicali. Ma dire che la commedia aristofanea – tradotta da Letizia Russo sia stata riadattata per soli quattro attori sarebbe, per questa messa in scena, riduttivo: giocato tutto tra ribalta e platea, lo spettacolo si fa forte di una metateatralità che coinvolge il pubblico in prima persona. Alla ricerca di una relazione che è forse il vero, unico lieto fine dell’amara commedia.

Antonio Latella, grazie anche all’incredibile versatilità dei suoi attori, costruisce un lento e fortissimo climax di significato che fa di questo suo nuovo lavoro uno spettacolo divertente, leggero, poetico, amaro e profondamente e sottilmente  intelligente. Se il primo impatto è cabarettistico, clownesco ed irriverente, traducendo con originalità ma coerenza i toni dell’antica commedia, al ritmo di scheletri che, scendendo lentamente dalla graticcia,  riempiono l’aria in scena come nuvole, tutto si fa più sinistro e serio. Il desiderio di Strepsiade di far apprendere al figlio l’arte per eludere la giustizia, richiamando alla memoria personaggi attuali ben noti, fa incrinare l’atmosfera festaiola: un mondo in cui tutto diviene relativo, perché l’arte oratoria e un gran sorriso assicurano il successo nonostante processi e appurate illegalità – e questo si insegna ai giovani – non può che garantirsiun inesorabile declino. Se poi anche il “discorso giusto” sull’educazione – quello che dovrebbe rifarsi ai principi della tradizione, dell’austerità e del rispetto, in contrapposizione al “discorso ingiusto” più lascivo e vizioso – risuona come un ben meno condivisibile proclama fascista, lo spettatore, in luce ed eletto a giudice dell’agone, non sa proprio

www.teatrostabiletorino.it

più cosa scegliere. L’unica cosa che gli resta da fare è tornare in silenzio nel buio della platea, a constatare il lento abbruttimento dell’uomo: gli scheletri, in posture che dipingono in scena una sorta di giudizio universale, si involano; sul palco appaiono tre scimpanzé, di cui uno con la fascia tricolore. La figura umana è vitale nella sua immagine di morte, e bestiale e disumana nelle sue forme in vita. Maurizio Rippa al microfono, con la sua voce delicata, intona una canzone (Povera Patria di Battiato) dolce e atroce, come una ninnananna che culla l’assonato popolo italiano nell’ossimorico tentativo di risvegliarlo. Un lungo letargo, e intanto “nel fango affonda lo stivale dei maiali. Me ne vergogno un poco, e mi fa male vedere un uomo come un animale”.

Una scena finale magistrale, toccante, che chiude uno spettacolo impegnato nel senso più profondo del termine, perché si assume la responsabilità di ricercare un rapporto più umano e diretto con la platea senza, per questo, appiattire o semplificare nulla. L’idea che alla gente comune si debbano dare divertimenti leggeri, semplici, perché “se no non capisce”; il pregiudizio che il popolo sia ignorante e superficiale: ciò lo rende tale. Una spirale di instupidimento che inverte l’evoluzione umana verso la barbarie, e che questo spettacolo cerca di minare obbligando il suo pubblico a fare qualcosa che da tempo, ormai, non gli viene più richiesto: pensare.

Visto al Teatro Verdi, Padova

Silvia Gatto

Fascino dal “nero”

foto di Paolo Lafratta

Recensione a  Il fascino dell’idioziaCompagnia Zaches Teatro

Le “pitture nere” di Francisco Goya sono alcune delle rappresentazioni più libere dell’artista spagnolo: sono scene di stregonerie, esorcismi e inquisizioni, avvolte in un’oscurità da incubo. Le pitture del ciclo – esterne ad ogni commissione – ricoprono le pareti della sua casa di periferia.

Una densa oscurità e una potente forza suggestiva ed immaginifica scaturiscono da questi dipinti che la giovane Compagnia Zaches Teatro sceglie come punto di partenza da indagare per la creazione de Il fascino dell’idiozia. Spettacolo nato con la volontà di dar forma ad un lavoro sulla “percezione costretta dalla menomazione dei sensi” in cui l’idiozia è intesa come “visione del mondo come universo personale, anzi privato e inafferrabile, e quindi incompreso”. Questo interessante lavoro testimonia una ricerca di un linguaggio affascinante e pulito: dal buio emergono arti, schiene, parti del corpo nude assemblate disordinatamente, tra le quali appaiono anche dei volti che staccandosi dal buio diventano teste sospese, in un meccanismo presto monotono, seppur affascinante. Pochi, infatti, sono i quadri davvero sorprendenti e inaspettati di sconosciute combinazioni anatomiche in trasformazione.

foto di Paolo Lafratta

Sfruttando la luce a pioggia tagliente tipica della tecnica su nero (che lascia emergere solo ciò che si vuol mostrare, lasciando le altre parti del performer nell’oscurità), la coreografia di Luana Gramegna scandisce con rigore le suggestive apparizioni, in una danza onirica amalgamata da un suono rituale e coinvolgente realizzato con musica elettronica dal vivo da Stefano Ciardi. Il flusso di apparizioni complessivamente si allontana dalle suggestioni del pittore spagnolo, puro punto di partenza, che non riemerge mai in modo riconoscibile e neanche vagamente allusivo.

Nonostante la specificità della suggestione di partenza, Il fascino dell’idiozia risulta complessivamente un lavoro disomogeneo: all’affascinante flusso di apparizioni iniziale seguono brevi differenti scene a sé stanti, danze ed infine la visione di una donna animale realizzata con silouette in controluce e proiezioni. Ma le diverse fasi di linguaggio, seppur potenzialmente efficaci ed indipendenti, mancano di consistenti elementi di continuità e fanno emergere una generale debolezza drammaturgica: la dimensione narrativa non prende vita, quando avrebbe potuto respirare ampiamente una folle atmosfera visionaria o disordinatamente onirica come proprio solo in un incubo sarebbe concesso vivere, all’interno della sua libera natura inconscia e perturbante.

Visto al Teatro PIM Spazio Scenico, Milano.

Agnese Bellato

Esercizi di stile

Recensione a Cuore di Pesce – Laura Graziosi

Un ambiente gentile e raffinato accoglie gli spettatori in sala. Da un angolo, una voce soave accompagna gli ospiti verso il proprio posto a sedere. Così Laura Graziosi ci invita ad entrare nel suo mondo. Un mondo fragile, sospeso in una dimensione non definibile, tra il sogno e la pazzia. Un mondo che ruota attorno ad una figura artificiale, ideale centro della protagonista: un uomo, ma di pongo.

Laura Graziosi

Lo spettacolo, nel suo procedere, definisce un percorso all’interno di una mente femminile immersa nel suo viaggio alla ricerca dell’amore. Una ricerca tanto spasmodica da portare la protagonista a costruire da sé il proprio uomo ideale, plasmandolo secondo una visione perfettamente delineata nella sua mente: un uomo costruito su misura, ma pur sempre costruito; o, forse, pur sempre un uomo. Eppure attorno a questa figura artificiale cominciano a delinearsi una serie di episodi in grado di svelare ansie, paure, aspettative e paranoie di una ragazza: una ragazza qualunque, che come tante sogna solo di trovare il Principe Azzurro (anche se di fatto è giallo e verde quello di pongo da lei costruito e posto al centro del suo mondo). Ed è proprio l’atmosfera fiabesca quella che si respira all’interno della sala. Con Cuore di pesce, Laura Graziosi esplora un modo di immaginare l’amore nettamente in contrasto con la società di oggi, sempre attenta a tenerci lontano dai sogni, per farci stare con i piedi per terra su di una realtà virtuale. Eppure, nonostante gli episodi che si susseguono rimangano sospesi tra una follia dolce e un onirismo infantile, le immagini proposte riescono a delineare in modo ironico, ma quanto mai veritiero, le dinamiche e le relative incertezze che caratterizzano una relazione di coppia attraverso un dialogo di cui si ode una sola voce. L’incapacità di comunicare tra la sfera maschile e la sfera femminile permette all’impianto di muoversi in dimensioni diverse, che vedono contaminarsi esperienze passate e presenti di una mente che rivela tutta la sua fragilità, affermando la centralità che assume il proprio vissuto nell’elaborazione dei propri sentimenti. È una donna insicura quella che viene dipinta sulla scena, frammentata e divisa tra i suoi sogni e la vita reale, oppressa dal silenzio e dalla paura di rimanere da sola, di cui si possono intravedere solo degli scorci netti e definiti grazie all’impianto illuminoscenico semplice e raffinato ideato da Francesco Giarlo, ma in grado di restituire la frammentazione di una personalità e dei suoi pensieri. Nonostante questo, nella follia apparente di questa mente risiede quella forza presente in tutti noi che ci permette di superare il dolore della separazione, guardando al futuro con rinnovata vitalità e immaginazione.

Cuore di pesce è uno spettacolo che diverte e fa sorridere con amarezza e che si rivolge a tutti coloro che hanno sofferto le pene d’amore, ricordando che tutto sommato la vita trova compimento al di là della ricerca di una figura che ci stia accanto. Un primo esperimento solista di Laura Graziosi, che si serve del suo corpo e della precisione dei movimenti per ammaliare e stupire; una padronanza in grado di sopperire ad un impianto narrativo eccessivamente frammentato, in cui gli episodi appaiono legati gli uni agli altri in modo un po’ forzato, ma che, nonostante ciò, si presenta come un esercizio di stile molto interessante e il punto d’inizio di una ricerca tesa ad affermare la forza e l’indipendenza del proprio punto di vista.

Visto ai Carichi Sospesi, Padova

Giulia Tirelli

Danza macabra

Recensione a Sul confine – Carrozzeria Orfeo

La guerra e la violenza: due temi che hanno fortemente segnato ogni epoca storica, sconvolgendola e rigenerando nuove umanità che risorgono dalle ceneri e dalle polveri lasciate dalla brutalità degli eventi. Polveri che, nonostante tutto, continuano ad aleggiare nell’aria, turbando la memoria e la serenità delle popolazioni coinvolte. Eppure, mai come oggi la distanza temporale e spaziale che si è creata nella società europea dall’esperienza concreta dell’evento bellico ha generato un immaginario che solo per il valore storico che portiamo culturalmente con noi ci permette di riconoscerne la crudeltà e, di conseguenza, condannarla: tutto rimane in superficie, solo suggerito da immagini che si insinuano in noi attraverso telegiornali e documentari. È necessario liberarsi dalle visioni imposte da un sistema che si deve necessariamente proclamare contro le atrocità per recuperare un contatto più intimo con un’esperienza che sconvolge in primo luogo i suoi protagonisti. Ricordiamo tutti i quadri degli artisti dell’espressionismo tedesco che, ritornati dalla prima guerra mondiale, hanno sentito l’esigenza di esprimere i loro fantasmi più oscuri dando così vita ad una nuova arte in grado di rappresentare le ombre create da un evento di cui non riuscivano a percepire la grandezza, ma di cui portavano tracce nella loro psiche e nel loro corpo.

Carrozzeria Orfeo con Sul confine cerca di indagare proprio questa dimensione nascosta e raramente svelata, servendosi di tre personaggi immersi in uno spazio nero: è solo attraverso le parole provenienti dalla mente dei tre soldati che si possono costruire immagini grazie alle quali lo spettatore possa non capire, ma perlomeno immaginare, l’impatto della guerra su di un essere umano. Una scenografia inesistente si presta quindi a illuminare questa zona nascosta nell’animo umano attraverso fasci di luce che svelano la realtà solo per frammenti, gli stessi attraverso i quali i tre protagonisti possono ricostruire la loro personale esperienza a partire da uno stato di shock e incredulità: la luce, ideata da Diego Sacchi, in scena diventa elemento fondamentale per definire uno spazio della memoria di cui non si potrà mai percepire la totalità, in perfetta consonanza con l’idea che la guerra, per quanto indagata e sviscerata, rimane sempre qualcosa di inconcepibile da una mente razionale. 
Gabriele Di Luca
, Massimiliano Setti Alessandro Tedeschi appaiono persi in uno spazio della memoria alla ricerca delle cause che li hanno portati ad accettare di essere parte di un evento di cui non avrebbero mai immaginato la brutalità e la crudeltà.

Tuttavia, il testo (di Gabriele Di Luca) e l’impianto dello spettacolo ostacolano la potenza di un messaggio che viene solo accennato. Gli argomenti toccati sono molti: l’esperienza tragica dell’uranio impoverito; l’impossibilità di riconoscere nei propri compagni persone incontrate nella vita prebellica, quando tutto scorreva fluido nella quotidianità di un’esistenza serena; l’incapacità di riconoscere perversioni e soprusi in un clima di totale violenza. Temi che rimangono solo accennati e che si perdono nelle coreagrafie di luci e corpi che danzano all’interno di una struttura narrativa eccessivamente cinematografica e che ricorda, nel modo di narrare la vita antecedente alla guerra dei tre soldati, le sceneggiature scritte da Guillermo Arriaga per la trilogia del regista Alejandro González Iñárritu (Amores Perros, Babel, 21 Grammi): intrecci che si snodano a partire da un punto centrale per il quale i protagonisti sono passati, incrociandosi. Una costruzione eccessivamente artificiosa che non permette agli episodi evocati di imporsi con forza nella mente dello spettatore e di avvicinarsi alla condizione interiore dei personaggi: la bellezza delle immagini innalza un muro che impedisce di percepire la portata disumana di un evento quale lo è la guerra che, ancora una volta, appare inenarrabile e distante dalla nostra vita quotidiana.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli

Sguardi sonori

Foto di Claudia Fabris

Recensione a In camminoTam Teatromusica

Guardare il mondo con gli occhi di un bambino significa riscoprire la purezza di uno sguardo che scruta lo spazio e le sue forme incuriosito, alla scoperta di ciò che si cela dentro le cose, gli oggetti, le persone, i suoni, le emozioni.
Con In cammino, andato in scena al Teatro delle Maddalene dal 18 al 20 dicembre dell’anno che ci ha lasciato,  Tam Teatromusica riscopre il piacere di indagare la realtà come se fosse un fanciullo ad esplorarla. Forme pure, concrete, geometriche interagiscono con un corpo che all’occorrenza le manipola, le gestisce e le usa e, a volte, semplicemente le scopre.

Foto di Claudia Fabris

Flavia Bussolotto, in perfetta sintonia con lo spazio che la circonda, si muove tra blocchi granitici ispirati alle sculture di Graziano Pompili: una scenografia mobile che a modo suo interagisce con il corpo umano. Lo spazio teatrale si fa simbolo del mondo, ma di un mondo ancora incontaminato, inesplorato. L’uomo, esattamente come un fanciullo pascoliano, si trova immerso in un universo ancora da scoprire e in grado di stimolare le sue facoltà mentali, ancora connesse ad una sfera divina che gli permette di cogliere quegli aspetti che si celano alla vista e che solo uno sguardo che si serve di tutti i sensi è in grado di svelare, ricreando così nella propria mente un’immagine completa. La vista, l’udito e il tatto guidano l’attrice/performer in un viaggio alla riscoperta del mito della creazione, quasi come se solo la presenza umana sia in grado di dare un senso al mondo. Tuttavia nessun antropocentrismo domina la visione che emerge dallo spettacolo. Il riferimento ai miti della creazione degli aborigeni australiani, che vedono negli elementi geografico-topografici le tracce di creature mitologiche che hanno lasciato il segno del loro passaggio sulla Terra, e a Le vie dei canti di Bruce Chatwin si carica di un significato quanto mai attuale: il rispetto per la natura che ci circonda e un invito a prestarle l’attenzione che merita. Non a caso, inizialmente, sono proprio i suoni che sembrano scaturire dagli elementi presenti in scena a guidare l’uomo nella sua esplorazione, nel suo viaggio: un viaggio che lo porterà alla scoperta della volta celeste, di qualcosa di misterioso che la parola non è in grado di spiegare, la cui bellezza, pregnante di significato, si può cogliere solo attraverso la contemplazione. Non a caso, il viaggio sembra essere guidato dai suoni (curati da Paolo Tizianel) che, affiancandosi, creano musiche e melodie in grado di trasportare il pubblico all’Origine del mondo, sfuggendo a qualsiasi legge spazio-temporale, in un tempo in cui l’uomo era ancora incapace di qualsiasi tipo di violenza, verso se stesso, verso gli altri, verso le natura.

Nella sua assoluta semplicità (a volte quasi ingenuità) lo spettacolo sembra insegnare a bambini, spettatori e destinatari privilegiati, ed adulti come il rispetto per tutto ciò con cui vengono a contatto sia la base per poter scoprire o riscoprire le meraviglie del mondo in cui vivono. Farlo attraverso il teatro significa riconoscere a questo linguaggio la capacità di dissotterrare nuovamente, nonostante il bombardamento di immagini a cui siamo continuamente sottoposti, la bellezza della vita, intesa non come successione di eventi, ma come dono che ci permette di riconoscere l’infinita meraviglia che si cela in ciò che ci sta vicino e che, da molto tempo, solo l’arte è in grado di riportare alla luce.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli