spettacolo alessandro sciarroni

Sciarroni ferma il tempo con Untitled

Recensione a Untitled_I will be there when you die – coreografia di Alessandro Sciarroni

foto di Andrea Pizzalis per Centrale Fies

foto di Andrea Pizzalis per Centrale Fies

Occhi chiusi alla ricerca della concentrazione. Verso una strada intima, privata. Prendendosi il tempo necessario per attraversarla; semplicemente per esserci. Intorno tutto bianco e asettico. Quattro performer sono fissi e immobili, in attesa di iniziare a intraprendere la propria pratica, allontanandola dal quotidiano e trasportandola in un luogo sospeso, in una stanza interiore.
Inizia come il precedente Folk-s l’atto secondo del progetto di Alessandro Sciarroni, lo spettacolo Untitled_I will be there when you die: con i performer a occhi chiusi. Il coreografo e regista marchigiano ha intrapreso un viaggio che indaga le pratiche performative col tentativo di interrogarsi sul concetto di sforzo, costanza, resistenza. Dopo il bellissimo Folk-s (leggi l’articolo di Rossella Porcheddu), in cui 6 danzatori davano vita al ballo tipico bavarese dello Schuhplattler chiedendosi “fino a quando esisterà la tradizione?”, ora è la volta di Untitled in cui i 4 performer sono giocolieri professionisti alle prese con le clavette: non sono attori, non sono danzatori; sono semplicemente performer.

Lorenzo Crivellari, Edoardo Demontis, Victor Garmendia Torija e Pietro Selva Bonino sono veri giocolieri, abituati a numeri che divertono, tengono col fiato sospeso, rendono l’atmosfera vivace e colorata. Con questo lavoro Alessandro Sciarroni raggiunge un vero e proprio ready-made della performance: il coreografo/regista priva la giocoleria dei suoi stereotipi, o meglio, decontestualizza il lancio delle clavette – non siamo al circo, non siamo per strada, siamo in teatro. Così la pratica acquista una dimensione altra, si fa atemporale.
Una volta aperti gli occhi, i performer rivolgono lo sguardo verso l’alto iniziando poi a lanciare un attrezzo. Battono il ritmo con ogni presa, nelle diverse modalità di afferrare la clavetta: rintocco nella mano, rumore sordo o felpato, leggero. È una ripetizione sonora e visiva; è qui che si nasconde l’atemporalità.

foto di Ilaria Scarpa per Santarcangelo Festival

foto di Ilaria Scarpa per Santarcangelo Festival

Questo battito viene registrato da Pablo Esbert Lilienfield, posto al lato della scena e impegnato a creare il meraviglioso suono, musica e note che accompagnano i quattro nella pratica, nel lancio, nel divertimento, nella fatica. Il rumore diventa dapprima meccanico, e si ripete, si mescola poi al pianoforte, ricorda le lezioni di Barber.
Schematicità nel suono, schematicità nei movimenti. Lo sguardo va dal basso verso l’alto, segue il tracciato delle clavette, fino a quando si entra in un loop mentale per cui gli attrezzi sembrano viaggiare da soli, non più lanciati da braccia attente e veloci, ma tirati da fili invisibili. La reiterazione visiva spinge la mente ad annullare il corpo e a concentrarsi sulla clavetta; quando cade è come se si spezzasse qualcosa, una magia; come se si rompesse una relazione affettiva, un amore.

Viene da chiedersi: che cos’è il tempo? Untitled diventa un viaggio, una metafora di un tempo bloccato, sottovuoto, in cui solo quando arriva l’errore riprende a scorrere. I performer sembrano lanciare gli oggetti nel tentativo di salvarli dall’impatto col terreno. A cosa pensano quando lanciano la clavetta? C’è qualcosa di commovente nel loro lancio, nel loro giocare insieme mentre la musica accompagna questo viaggio che cresce in un’esplosione di sfumature – sfumature che hanno il loro corrispettivo visivo anche nei colori dati dalle belle luci di Rocco Giansante, che creano ombre proiettate sul fondale.
Alessandro Sciarroni diventa un artista visivo del movimento, del tempo, dello spazio.
E questa sua opera è un resistere a tutti i costi, con la clavetta sulla fronte; significa esserci, fino alla morte. Oltre il tempo, oltre la definizione di una parola. È rimanere indefinito, come lo stesso titolo dello spettacolo che non riesce a contenere la meravigliosa magia che accade in scena.

Visto a Santarcangelo 13 – Festival Internazionale del teatro in piazza, Drodesera XXXIII – Mein Herz e B.Motion Festival

Carlotta Tringali

Folk-s: fino all’ultimo battito

Il rituale d’inizio è lo stesso: i folk-dancers calpestano lo spazio scenico, si chiudono verso il cuore del palco e formano un cerchio, mentre Alessandro Sciarroni, cappello con piuma e lederhosen, copre loro gli occhi con una striscia di nastro isolante, per impedire di vedere, per stimolare a sentire. Stavolta i battitori di scarpe non ascoltano il silenzio del teatro – com’è successo al Palladium, quest’autunno, durante il Romaeuropa Festival –, non percepiscono il calore dei fari sul volto, né sono avvolti dal nero della platea. Stavolta i sei danzatori che danno vita a questo pezzo di teatro che è indagine sul tempo e sulla sopravvivenza, “pratica performativa” – come definita dal suo ideatore – che si ispira alle danze tradizionali bavaresi e tirolesi, non hanno quinte alle spalle o soffitti sulla testa. Intorno a Marco D’Agostin, Pablo Esbert Lilienfeld, Francesca Foscarini, Francesco Vecchi, Anna Bragagnolo (che prende egregiamente il posto di Matteo Ramponi, della cui inesauribile energia sentiamo comunque la mancanza) e Alessandro Sciarroni, c’è il Prato del Cardellino, il tardo pomeriggio di Castiglioncello, la luce diurna e estiva, ci sono gli scogli che scivolano sul mare, la Costa degli Etruschi, il tramonto, il Tirreno.

SCIARRONIDialoga questa versione di Folk-s per la sedicesima edizione di Inequilibrio, con la natura circostante, perché la performance invade il prato, perché erba e terra escono da una buca che si è aperta sulle fragili assi del palco e cospargono i capelli di Pablo, perché la brezza marina sfiora la loro come la nostra pelle. E allora non può che venire alla mente Will you still love me tomorrow?, corto di Matteo Maffesanti visto a Teatri di Vetro 2013 (guarda qui il video) e girato durante la produzione dello spettacolo ai piedi delle Piramidi di Terra. Poetica riflessione sulla fragilità dell’esistenza: si stringe, un uomo solo, a un tronco solitario che a sua volta, ostinato, si aggrappa alla montagna, incapace di lasciarsi cadere nel precipizio. Così accade agli alberi, così accade agli uomini, altrettanto accade alle tradizioni, quelle che resistono alla contemporaneità. E se visivamente la performance vista a Castiglioncello riesce a fondersi con l’ambiente, ci sono anche elementi di disturbo, i rumori della pineta, le voci dei passanti, i giochi dei bambini, la musica – troppo alta – dei bar nell’ora dell’aperitivo. Certo, non può esserci il silenzio del teatro, ma ogni variazione, anche con ostacoli e impedimenti, rende nuovo Folk-s, mai rigido, pur nel rigore della pratica e dell’esecuzione, mai schematico, pur nel ripetersi delle gestualità, mai identico a se stesso, pur nella reiterazione dei movimenti.

SCIARRONI 2Spettacolo da vedere e rivedere, in interno e in esterno, su un palco e su un prato, davanti al mare o tra le montagne, per cogliere altre sfumature e provare nuove emozioni. C’è in quel gesto iniziale, in quell’oscurare lo sguardo, nel non vedersi ma percepirsi dei corpi, la condivisione, lo stringersi di un legame che raramente si fa fisico. C’è nei primi battiti la nascita di un’armonia, come di un piccolo ensemble che si accorda, che cerca pian piano le note, mentre i gomiti si piegano e i piedi si inseguono. C’è in quell’assolo eseguito dal performer marchigiano, cappello calato sugli occhi e attenzione tutta rivolta a sé, quasi la dichiarazione della pratica, la visualizzazione del linguaggio, la condivisione del codice. La chiave di lettura, però, una volta liberati gli occhi dalla patina isolante, viene fornita al microfono da Marco D’Agostin: i folk-dancers batteranno tacco, piede, coscia, finché avranno energie e finché anche un solo spettatore starà a guardarli, e chiunque abbandonerà lo spazio non potrà più farvi ritorno. Prima chiuso verso l’interno, il gruppo si apre all’esterno, si spezza, avanza verso il pubblico, descrivendo linee rette e traiettorie oblique, senza mai perdere il ritmo, senza mai perdere la sincronia. Porta sul palco una fisarmonica, Alessandro Sciarroni, la fa aderire al petto, ne sfiora i tasti senza farla suonare, e poi la adagia sulle assi, dove resta, muta testimone di una tradizione reinterpretata. Lunghi gli sguardi, sincronizzati i movimenti, pochi i momenti di incontro, tra labbra che si incollano, braccia che si sfiorano, teste che si sfidano. Per più di un’ora i performer abitano lo spazio scenico, ognuno con la propria resistenza, ognuno con la propria fisicità, ognuno con la propria espressività. E per gli spettatori che restano, seduti sulle sedie, accovacciati sul prato, o lontani, sulle panchine, un danzatore solo, Francesco Vecchi, abbandonato sul finale da Marco D’Agostin e Pablo Esbert Lilienfeld, esegue la chiusura, prima di lasciare vuoto lo spazio, a raccogliere un applauso che si perde nel vento.

Visto al Prato del Cardellino, Pineta Marradi, Inequilibrio 2013, Castiglioncello

Rossella Porcheddu