spettacolo innerscapes

Innerscapes: una storia d’amore e la magia del palcoscenico

Intervista a Matteo Lanfranchi

Una storia d’amore integralmente muta, raccontata dal corpo e dall’azione degli attori; un dispositivo scenico vaporosamente ludico, che strizza l’occhio alle tecniche cinematografiche e fa tesoro della potenza e della semplicità della magia dell’artigianato teatrale… Tutto questo (e molto di più) è Innerscapes, con cui la compagnia milanese Effetto Larsen ha vinto il Premio Lia Lapini 2011 e a cui sta lavorando in questi mesi in vista del debutto. Abbiamo incontrato Matteo Lanfranchi, fondatore e regista, con questa intervista “epistolare” per farci raccontare come è nato, come si è sviluppato e come sta crescendo il progetto.

Effetto Larsen: chi siete? Dove lavorate? Cosa vi ha riunito in un progetto condiviso?

foto di Lucia Puricelli

La struttura di Effetto Larsen muta nel tempo. Ho iniziato a usare questo nome nel 2007, quando dopo aver lavorato per diversi anni come attore in altre compagnie ho sentito il bisogno di dare forma all’idea di teatro che mi accompagnava. Nel 2008 ho debuttato con il mio primo spettacolo, dove ero in scena da solo. Al momento la compagnia è composta da me, da Roberto Rettura, primo compagno di avventure teatrali, sound designer e membro fondatore del Gruppo Nanou; da Camilla Toso, organizzatrice, e dagli attori Beatrice Cevolani, Francesca Di Traglia, Lorenzo Piccolo, Marco Ripoldi e Ilaria Tanini. A seconda dei progetti collaboriamo con figure esterne, come ad esempio per l’ultima produzione Stefano Mazzanti, light designer del CSS di Udine. La compagnia ha base a Milano, ma non abbiamo una sede fissa: lavoriamo in spazi affittati o in residenze.
A riunirci è stata un’affinità nata in sala prove, un interesse condiviso per il lavoro proposto, sviluppato in un processo di reciproca conoscenza. Credo molto nella sintonia tra le persone, nell’atmosfera delle prove, per me è parte integrante del materiale di lavoro, un ingrediente necessario. Anche durante le prove chiedo agli attori una partecipazione molto attiva: detesto gli attori ammaestrati dai registi, mi piace avere a che fare con persone in grado di partecipare al flusso del lavoro. Io gestisco, conduco, indirizzo questo flusso, che sta maturando nel tempo e negli spettacoli, trovando una sua modalità e disciplina.

Innerscapes, titolo dello spettacolo con cui avete vinto il Premio Lia Lapini l’anno scorso e che state sviluppando in questi mesi, si potrebbe tradurre con “paesaggi interiori”: che tipo di “paesaggi” state esplorando? E con quali strumenti?

Quando una persona è messa di fronte a qualcosa di incompleto, tende naturalmente a completarlo. Innerscapes lavora proprio su questo principio: raccontiamo una semplice storia d’amore realizzando davanti agli occhi dello spettatore gli ambienti dove si svolgono alcuni passaggi della relazione. In ogni ambiente accade qualcosa, un frammento della storia.

foto di Lucia Puricelli

La maggior parte degli eventi non viene raccontata, lo spettatore vede solo alcuni passaggi cruciali. I paesaggi che stiamo cercando sono quelli che ognuno porta nel proprio immaginario, e con i quali va a completare ciò che vede: ambienti, ricordi, situazioni, contesti. Dopo le prime presentazioni davanti al pubblico in anteprima ho sentito con piacere che le interpretazioni degli avvenimenti non erano sempre univoche, pur lasciando a tutti la possibilità di fruire dello spettacolo. Sicuramente c’è ancora da fare in questa direzione, che trovo molto stimolante e che può essere ulteriormente approfondita. Il primo strumento a nostra disposizione è l’evocazione degli ambienti, realizzati con semplici oggetti di uso quotidiano. Soprattutto nella prima parte dello spettacolo gli attori iniziano e terminano l’azione con un “freeze”, che blocca la loro azione per poi liberarla nel nuovo ambiente. In questo modo durante lo spettacolo il tempo viene scandito dallo spazio, e questo ci porta al secondo strumento, ovvero l’ellissi: i salti temporali permettono di immaginare cosa è accaduto tra un frammento e l’altro. Terzo strumento, l’assenza di testo. Gli attori non parlano, qualcuno ha parlato di un “muto contemporaneo”. Perché questo sia sostenibile bisogna mantenersi sul confine delle informazioni che possono essere trasmesse solo col corpo, quindi su informazioni semplici, chiare, fisiche. La misura, da sempre elemento fondamentale della recitazione, diventa qui ancora più importante, in quanto il margine è molto sottile. Ultimo elemento, le didascalie: in proscenio ci sono delle lettere in stile Scarabeo, con cui compongo delle scritte che si trasformano, sempre in maniera molto concreta e semplice. Ogni didascalia offre una chiave di lettura, a tratti univoca (come ad esempio quando presenta il nome di un personaggio) e a tratti ambigua, indirizzando l’immaginario nella lettura ma lasciando sempre uno spettro di possibilità più o meno ampio.

Nel vostro spettacolo avete incorporato molte tecniche peculiari del linguaggio cinematografico. Nel periodo di affermazione di pellicole come il pluripremiato agli Oscar The Artist, ma anche la Palma d’oro 2012 The tree of life, la parola recitata sembra assumere tratti nuovi. Da cosa nasce la ricerca di un’essenzialità verbale e vocale in Innerscapes?

foto di Lucia Puricelli

Fin dal mio primo spettacolo come Effetto Larsen mi sono concentrato sull’azione più che sul testo. Volevo fare un lavoro da solo, ma non mi andava l’idea di fare un monologo in cui avrei dovuto parlare per un’ora. Avevo sentito dire che ai bambini, ai pazzi e agli animali non si può mentire: ho pensato che fosse perché guardano quello che fai, non badano a quello che dici. E l’ho trovato estremamente calzante per il lavoro di un attore. Quindi ho ridotto il testo a 3 frasi in 50 minuti: il pubblico segue senza difficoltà, anzi si lascia trasportare in una dimensione di comunicazione che non prevede la parola e questo lo porta ad avere un ruolo più attivo. Di recente mi hanno detto che il filosofo francese Merleau-Ponty tratta argomenti simili, anche se il mio riferimento iniziale era un detto popolare. Un altro riferimento incontrato per strada è Hitchcock, che, ogni volta che si ritrovava a ipotizzare con lo sceneggiatore di spiegare un passaggio della storia attraverso un dialogo, capiva di essere di fronte a un errore . Non c’è spazio per le spiegazioni. Anche per questo in Innerscapes, nella scena del museo, il quadro esposto è un fotogramma di Vertigo. Inoltre mi piace l’idea che lo spettacolo guardi al cinema, dal quale prende gli elementi base della grammatica compositiva: flashback, dissolvenze, ciak, ellissi. Mi ha molto colpito il recente successo di film quasi senza testo. In particolare in The Artist ho amato molto il fatto che la maggior parte dei cartelli che dovrebbero riportare le battute sono stati omessi perché non necessari, restano solo quelli indispensabili per capire lo svolgimento degli eventi. Credo sia in corso un mutamento, che riguarda la forma e quindi anche il contenuto: le informazioni e le emozioni passano per nuovi canali. Anche se, come dice Santayana, non c’è niente di nuovo sotto il sole tranne il dimenticato.

Il “contenuto” (il racconto di una storia d’amore) e la complessità della “forma”, in cui è espresso e comunicato, sembrano svilupparsi su due piani differenti: il primo grazie alla semplicità di un topos estremamente riconoscibile, l’altro secondo una ricerca metalinguistica che scava in profondità nelle possibilità espressive del mezzo teatrale. Che cosa ne pensi dei rapporti fra forma e contenuto all’interno di un processo di composizione drammaturgica e come tali relazioni si sono concretizzate in Innerscapes?

foto di Lucia Puricelli

Il primo spunto di lavoro è stato formale: ho visto molte volte creare ambienti in scena, ma non avevo mai visto questa tecnica utilizzata per raccontare lo scorrere del tempo. La prima volta che ho sperimentato questa modalità è stato nel 2009, in occasione di una performance per la Biennale Giovani Artisti d’Europa e del Mediterraneo. Oggetto della performance erano i rapporti umani, e ovviamente la coppia la faceva da padrona. Durante la lavorazione di Innerscapes mi sono reso conto che quello che mi interessava era raccontare una storia semplice e riconoscibile attraverso un linguaggio contemporaneo. La storia d’amore era quindi il soggetto perfetto: appassiona, piace a tutti, è facilmente condensabile, e soprattutto fa parte del vissuto e dell’immaginario di chiunque, permettendo di riconoscersi in quello che accade. Esplorare le possibilità del linguaggio teatrale fa parte del mio percorso, lo trovo necessario: volendo scomodare un termine abusato, credo che fare “ricerca” oggi significhi cercare di dire qualcosa anche sul teatro. In particolare mi interessa la dimensione dello svelamento del trucco, del ricordo della finzione, in una parola del gioco: qualsiasi gioco per essere goduto a fondo va giocato bene, e per farlo servono regole chiare. Innerscapes unisce questi elementi, creando naturalmente uno stridore tra quello che raccontiamo e il modo in cui lo facciamo: ma è proprio questo che mi interessa. Non ho interesse a raccontare semplicemente storie, non a caso non faccio messe in scena. Come non ho interesse per dispositivi fini a se stessi. Credo che forma e contenuto siano inscindibili, uno conseguenza dell’altro, e che in questa alchimia si trovi ciò che ci muove. In un recente scambio epistolare, Claudio Morganti mi ha fatto notare la differenza tra la forma e il tema, la direzione, la via che si percorre. In questo modo è tutto più chiaro: ogni lavoro, ogni scelta si colloca in un contesto più ampio nel tempo e nello spazio, in un percorso che conosce similitudini al suo interno ma che rimane aperto all’esplorazione di nuovi territori, a volte con strumenti noti, a volte con attrezzi sviluppati per l’occasione.

Se dovessi scegliere un’immagine-chiave, per rappresentare in modo sintetico ed emblematico questo progetto, quale sarebbe?

Le prime immagini che ho preso come riferimento sono gli scatti di Gregory Crewdson e di Jeff Wall: due artisti della fotografia che hanno la caratteristica di catturare degli “istanti narrativi”, immagini che contengono già un prima e un dopo, una storia. Guardare le loro foto fa automaticamente scattare il meccanismo del completamento, ti viene da chiederti chi siano le persone ritratte, cosa stiano facendo, cosa faranno, perché sono finite lì, cosa provano e così via. Oggi sento come un condensato possibile un’immagine di Innerscapes, la scena del museo: il pubblico guarda due attori che in un museo guardano un quadro, in cui una donna in un museo guarda un quadro che le assomiglia. La scena di Vertigo sopra citata. C’è qualcosa in questo cortocircuito di sguardi che mi affascina, così come nell’accostamento tra teatro e cinema.

Un’ultima domanda per entrare direttamente nel laboratorio del processo creativo: oggi su cosa vi state concentrando, quali sono i prossimi obiettivi di lavoro?

Il punto cruciale è l’equilibrio tra il gioco e la storia raccontata. I due elementi devono interagire, dialogare di continuo, per evitare che uno dei due prevalga. La seconda parte del lavoro presentato fino ad oggi è troppo narrativa e lineare, questo equilibrio va rivisto. Si tratta quindi di procedere con il lavoro di condensazione che si è già consolidato nella prima parte. Penso inoltre che alcuni elementi narrativi possano essere sottratti, in modo da rendere più ampio il margine di completamento da parte dello spettatore. L’altro punto sostanziale è proseguire assieme agli attori nello sviluppo del linguaggio corporeo, rendendolo sempre più preciso e calzante. È un lavoro che richiede grande esattezza e leggerezza. Vanno costruite partiture precise che permettano costanti margini di improvvisazione (niente di nuovo sotto il sole), restando però nel campo delle informazioni trasmissibili fisicamente. Ho inoltre diverse idee che vorrei provare per incrementare il rapporto tra il gioco e la storia e che non ho ancora avuto modo di inserire in queste anteprime. Mi ha molto stupito la difficoltà, soprattutto da parte di alcuni addetti ai lavori, di capire cosa stavano guardando: alcuni festival ci hanno permesso di incontrare il pubblico a lavoro non ancora ultimato, occasione importantissima per aggiustare il tiro di uno spettacolo, per prendergli le misure, almeno per me. Ma evidentemente qualcuno dimentica che il teatro è un processo sempre in corso, e come tale va guardato.