tam teatromusica padova

La storia del Tam: un anello eccentrico che arriva fino a oggi

Dell'anima dell'arco (1985)

Dell'anima dell'arco (1985)

Teatri che chiudono, festival in standby e nuovi spazi che aprono e si inventano. Le più interessanti giovani compagnie della ricerca che hanno fortunosamente tradito cliché e categorie tradizionali, ci hanno insegnato a saper attraversare spazi e pubblici differenti: dall’ambiente un po’ ingessato dei vecchi stabili alle strette sale di provincia, dall’underground non teatrale dei centri sociali fino a festival di cinema, musica, performance. Che ne è del Nuovo Teatro in un’epoca in cui i confini sono diventati così labili, difficili da segnare e da individuare? Una risposta può venire dal lavoro di Michele Sambin e Pierangela Allegro di Tam Teatromusica, una formazione ormai trentennale che tuttora fatica a farsi chiamare “gruppo” o “compagnia” e che mercoledì 9 maggio è tornata alla Soffitta di Bologna per un racconto performativo attraverso i propri nodi e anni di lavoro curato da Silvia Mei.

I confini fra gli spazi e fra le arti si presentano labili oggi come allora: Sambin e i suoi non provengono certo dal teatro, ma qui hanno trovato, dopo diversi anni di esperienze altrove, uno spazio (in senso stretto) in cui far confluire e incontrare le diverse pressioni creative che li animano. Lui, pittore e musicista nell’epoca d’oro della performance art, ha attraversato gallerie d’arte, spazi non convenzionali, rassegne cinematografiche, dando vita a un pensiero e a un fare performativo tutto particolare: solo in “scena” ha poi incontrato le potenzialità della tecnologia audiovisiva, che hanno dischiuso per il suo percorso nuovi orizzonti di contaminazione ed espressione. Negli anni ’70, periodo a dir poco di vivace sperimentazione artistica, ha messo a punto tecniche originali e inedite (come l’utilizzo del loop), capaci di far ribollire assieme spazio, immagine, movimento e suono – tutti elementi tuttora centrali nei lavori di Tam Teatromusica.

Stupor Mundi (2004)

Ma poco dopo, l’epoca d’oro della performance è destinata a estinguersi sulla tabula rasa portata avanti da quel ritorno all’ordine che nel nostro Paese ha preso ad esempio il nome di Transavanguardia: si ritorna al quadro serenamente vendibile e altrettanto comodamente installabile sopra il proprio sofà, mentre le esperienze di sperimentazione più radicali che avevano mosso i primi passi nell’area della performance si ritrovano spiazzate da un sistema e da un circuito non più in grado (o senza più l’intenzione) di assorbirle. Che fare? Dove trovare un altro ambiente così aperto da accogliere tutte le arti e nuovi linguaggi? La risposta, col senno di poi di trent’anni di dopo, è oggi quanto mai ovvia: è il teatro. In questo orizzonte Sambin, Pierangela Allegro e Laurent Dupont  creano Tam Teatromusica… Ma anche in questo caso facendo enorme attenzione a mettere in crisi, rifiutare e rilanciare tutti i cliché e le convenzioni ormai consolidate in teatro (anche nella ricerca): non vogliono un furgone, un organizzatore, un gruppo, ma ridefinire ex novo un contesto creativo che si distingue per la massima apertura possibile e la parità di tutti i dispositivi scenici (testo incluso).
Le parole d’ordine scelte da Sambin e Allegro per l’intensa presentazione performativa ai Laboratori DMS sono chiarissime e a dir poco attuali: “la forma è la sostanza”, “commistione di linguaggi”, “artigianalità della tecnologia”, “spazi inconsueti”…
Sul fondo intanto scorrono immagini dei tanti lavori portati in scena dal Tam in questi trent’anni, mentre a volte la narrazione si interrompe per lasciar spazio a momenti performativi che rimaterializzano in sala la multidisciplinarietà di cui si parla, o a videoproiezioni che ben rendono l’idea della radicalità di questo percorso, fra composizioni ibride che sfiorano la dimensione dell’happening. Da Il tempo consuma (videoperformance di Sambin del ’79) a Dell’anima dell’arco dell’85, fino a Stupor Mundi e DeForma, spettacoli recenti che vedono assieme le varie generazioni di Tam Teatromusica. Perché è questa l’altra parola d’ordine che segna e continua a muovere il lavoro dell’ensemble: quei “metodi di trasmissione del sapere” che hanno condotto alla creazione di Oikos, tutto fuorché una scuola, quanto piuttosto un’officina delle arti destinata ad accogliere nuove persone attraverso la sperimentazione di tutte le forme e gli aspetti impliciti nella creazione.

La bella immagine che ha accompagnato il pomeriggio, torna dunque a segnare il percorso passato e futuro del Tam: è l’immagine del loop, quell’anello che evolve in spirale carezzato da Michele Sambin nel suo Il fuoco consuma, la cui traiettoria eccentrica ha attraversato aperture, esperimenti, linguaggi fino a giungere a questi tempi, ai nuovi membri di Tam e alla straordinaria attività di radicamento che, anche grazie alla programmazione del Teatro delle Maddalene, l’ensemble ha sviluppato nella città di Padova.

Roberta Ferraresi

 

Al di là del concetto di punizione

Laboratorio TAM Teatrocarcere

Sorvegliare e punire è sicuramente uno dei testi più conosciuti del filosofo e storico francese Michel Foucault: l’autore analizza in questa sede la nascita delle prigioni e le diverse forme di punizione che si sono via via succedute nel corso della storia. Ci si chiede cosa avrebbe da dire circa gli sviluppi più recenti della vita carceraria. In molti dei suoi testi − a partire da Storia della follia nell’età classica fino allaStoria della sessualità − Foucault si è interessato a temi rilegati in una sorta di zona grigia dei saperi umani. Ne emerge con forza una riflessione sul “diverso”, su ciò che tendiamo sempre a recludere in luoghi lontani dalla vista, dalla vita quotidiana, nonostante l’appartenenza di questi universi al nostro vissuto: prostitute, “pazzi”, carcerati, sono passeggeri oscuri di una società che li vuole lontani da sé, nascosti nella notte o nelle mura di edifici appositamente costruiti per “nasconderli” al mondo. Ipocritamente, viene da pensare, se pensiamo ai principi di uguaglianza e rispetto per la diversità rivendicati da tanti. Eppure la diffidenza verso il “diverso” fa parte della nostra quotidianità e il pregiudizio si fa bandiera di certe parti politiche anche molto influenti nel panorama italiano. Ed è così che si afferma soprattuto un’idea di “diversità” come “minaccia”, che si discosta nettamente dal senso di umanità propugnato nelle società civili.

Pierangela Allegro (1), attrice e performer della compagnia TAM Teatromusica, scrive sul sito della compagnia che «il teatro, arte meno individuale delle altre in quanto prevede una creazione collettiva mettendo in moto energie di relazione, può essere una scoperta affascinante, destabilizzante e provocatoria in un contesto in cui si è portati necessariamente al proprio tornaconto, al proprio affrancamento, alla libertà individuale per sopravvivere»:queste parole esplicitano l’importanza di un laboratorio teatrale in carcere. La conferenza stampa, che ha avuto luogo all’interno della stessa Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova, oltre ad approfondire il significato di questa affermazione, ha fatto emergere il senso più profondo di questo tipo di lavoro. L’esperienza ha avuto origine da una collaborazione tra la compagnia e l’Amministrazione pubblica nel 1992, inizialmente sotto la guida di Michele Sambin e Pierangela Allegro mentre, a partire dal 2004, la conduzione è passata a Maria Cinzia Zanellato e Andrea Pennacchi, che si trovano oggi, in tempi di tagli e crisi, a lottare per proseguire questo cammino.

Balza subito all’occhio che la maggioranza degli attori/detenuti è di origine straniera, da qui la scelta di creare dei percorsi artistici in grado di «favorire un incontro interculturale, di socializzazione e di costruzione di relazioni, per le persone detenute e al di fuori del loro nucleo di appartenenza», come indicato nel materiale preparato per la conferenza stampa. Un aspetto evidenziato dai reclusi che aderiscono al progetto, ma tanto più enfatizzato dal gruppo di persone che prendono parte al laboratorio di Teatro Civile promosso da TAM Teatromusica. Se infatti le parole dei carcerati colpiscono per la necessità che scaturisce dal partecipare ad un’iniziativa di questa portata, sono quelle dei ragazzi che entrano in contatto con loro che chiariscono il senso definitivo di tale operazione: troppe volte ci si dimentica che il carcere costituisce una parte della società, o meglio ancora, una sua conseguenza. Ricordano infatti i detenuti che, di fatto, chiunque è un potenziale criminale, ma molto spesso ce ne dimentichiamo − basti pensare alle notizie di cronaca che rivelano come persone apparentemente tranquille si trasformino in realtà in assassini, ladri e altro ancora, e ai criminali legalizzati di cui ci parlano i personaggi del “controsistema”. L’incontro con i carcerati si trasforma così in qualcosa che fa emergere il lato più umano di ciascuno, non per un senso di pietà o di compassione, ma perché costringe ad un’autoanalisi che fa riaffiorare la coscienza dell’errore, o almeno, della possibilità di commetterlo. Al di là di qualsiasi giudizio, il lavoro condotto all’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi non cerca di indagare le cause della colpa, ma di scavare nel vissuto delle persone che si trovano coinvolte nell’esperienza, permettendo loro un dialogo con chi sta “fuori”: uno spazio con il quale non sarà più possibile instaurare una relazione senza fare i conti con la propria condizione di “carcerato”. Questa distanza richiama alla mente quello che Foucault definiva come “vergogna” o “deportazione”, indicato come uno dei quattro tipi di pena possibile (insieme al lavoro forzato, allo scandalo pubblico e alla legge del taglione). Scrive infatti: «in fondo la punizione ideale sarebbe semplicemente quella di espellere le persone, di esiliarle, di bandirle o di deportarle». E forse vederla nella prospettiva di una deportazione (perdonatemi la ripetizione, ma nessun sinonimo può restituire il senso di questo termine) ci può far riflettere su come la società percepisca lo “spazio carcere”: un luogo remoto, che in nessun modo comunica con la realtà quotidiana. Proprio per questo motivo più importante di tutto il processo di rieducazione e di reinserimento è la possibilità di dialogare che si instaura tra le due “dimensioni”. Un’esperienza che si articola in diversi momenti e tipi di attività, dalla realizzazione di cicli di incontri culturali all’interno del carcere, sino alla messa in scena di uno spettacolo presso la casa di reclusione stessa e presso il Teatro delle Maddalene. Ed ecco che per i detenuti è possibile ascoltare e parlare con Giuliana Musso, Tiziano Scarpa, Vasco Mirandola e altri personaggi di rilievo impegnati in esperienze di teatro civile, mentre all’interno del laboratorio preparano il momento in cui saliranno sul palco − inutile ricordare la complessità della burocrazia atta ad ottenere i permessi necessari ad abbandonare per poche ore o (in rari casi) una giornata gli stipatissimi locali della reclusione. Va inoltre sottolineato che proprio del 2010 è Annibale non l’ha mai fatto, spettacolo presentato in diversi festival e che si è conquistato il terzo posto del Premio Off 2010 promosso dal Teatro Stabile del Veneto e dal Teatro Verdi. Oltre ai riconoscimenti ufficiali, il momento della messa in scena costituisce indubbiamente un evento essenziale per il completamento del percorso intrapreso dai detenuti. Sentimentalmente lo si potrebbe leggere come una possibilità per queste persone di “respirare aria libera”, cadendo però nuovamente in una lettura pietosa e caritatevole che tende a tracciare linee di divisione e non di avvicinamento. L’incontro si presenta piuttosto come un’occasione per abbattere confini e divisorie, e recuperare così la sincerità di un dialogo con chi ha scelto − o è stato costretto − a percorrere una strada che mai si potrebbe pensare di seguire nel corso della propria vita. Farid, Giovanni, Sam, Mohammed e gli altri trenta detenuti che annualmente gravitano attorno al progetto riacquistano così un volto, un nome, un’individualità, stracciando la semplice etichetta di “criminale” sotto la quale vengono indistintamente accomunati, in un tentativo forse di farli cadere in un oblio collettivo, che, comodamente, mantiene pulita l’immagine di una società “democratica e civile”.

Giulia Tirelli

(1) correzione in seguito alla segnalazione dell’autrice di un errore (ora corretto) presente nel sito della compagnia

Confini da abbattere

Recensione a Annibale non l’ha mai fatto – TAM Teatromusica

Durante la stagione 2009/2010, diversi appuntamenti hanno trasformato il palcoscenico del Teatro delle Maddalene in un luogo dove la diversità potesse cercare un contatto con l’Altro, con ciò che le è estraneo. Partendo da In cammino (TAM Teatromusica) e passando per Kish Kush (Teatrodistinto) si è giunti ad Annibale non l’ha mai fatto, nato dal progetto TAM Teatrocarcere, condotto da Andrea Pennacchi e M.Cinzia Zanellato. Il progetto, che quest’anno festeggia il 15^ anno di attività, parte dal presupposto che “il teatro in carcere sia necessario a chi è dentro, ma anche a chi sta fuori” (Michele Sambin, direttore del TAM). Protagonisti, due performer: Andrea Pennacchi e Kessaci Farid, attualmente detenuto presso il carcere Due Palazzi di Padova.
Essere consapevoli della reclusione che Farid sta scontando permette allo spettatore di esplorare nuovi schemi interpretativi e accedere a chiavi di lettura inedite. La scena si carica di significati che, nella nostra quotidianità, nella nostra normalità, ha perso molto tempo fa. Il palco improvvisamente si ritrasforma in un luogo di libertà: Farid e Andrea ci ricordano con la loro presenza come le quinte, il pavimento, il soffitto rappresentino uno spazio mentale che, nonostante la concretezza dei confini, è in grado di espandersi raggiungendo luoghi, punti di vista e prospettive lontani. Uno spazio in cui il tempo può essere percorso come un labirinto, per salti e sospensioni, in ogni direzione: partendo dal percorso di Annibale e della sua storica traversata delle Alpi, Andrea e Farid, nel ruolo l’uno di Arba, elefantessa matriarca, e l’altro del proprio nonno, 37 nonni fa, ricostruiscono le vicende di un’affinità, di un’unione che sa di integrazione e comprensione. Due diversi mondi sono chiamati non solo a comunicare, ma anche a cooperare per poter superare difficoltà apparentemente insormontabili: l’attraversamento del fiume, la discesa delle Alpi innevate e la battaglia rappresentano quindi momenti chiave per la comprensione di un processo di integrazione che investe la società in cui viviamo e che si concretizzano sulla scena attraverso il rapporto tra l’animale e l’essere umano.

Dal palco trasuda un bisogno di osservare la nostra realtà quotidiana da un punto sopraelevato per poter risolvere le incomprensioni legate all’incapacità di comunicare, ritrovando un senso d’umanità ormai dimenticato. È infatti un viaggio che si muove per direttrici verticali quello che compiono Arba/Andrea e il nonno di Farid/Farid. Una verticalità suggerita, e all’occorrenza enfatizzata, dalla scenografia, costituita da pochi elementi estremamente funzionali: coni di telo bianco si trasformano, grazie ai video realizzati da Raffaella Rivi, in fiumi, cieli, pagine di libri, zampe di elefante, scenari in grado di completare e dare un senso al racconto dei due performer, le cui parole, elemento centrale della narrazione orale, acquistano un maggior senso di verità attraverso le azioni sceniche che li mettono alla prova. Non a caso, sono due scale gli oggetti attraverso cui vengono suggeriti gli spostamenti e le condizioni di viaggio dei due protagonisti: esplorandone le componenti e sperimentandone le posizioni, i due performer suggeriscono allo spettatore quelle montagne, quei fiumi e quelle pianure che tappezzano il viaggio di Annibale e dei suoi uomini. Questo moto verticale trova compimento solo sul finire dello spettacolo, quando Arba cede alla battaglia perdendo la propria vita. In questo momento di morte trova però spazio la descrizione di una fraternità rinata: il radunarsi degli animali attorno alla loro simile non può che ricordare a noi esseri umani quanto sia necessario essere presenti nel momento della sofferenza, chiunque essa colpisca. È quindi il concretizzarsi dell’anima di Arba sulla scena, personificata da Claudia Fabris, che costringe lo spettatore a fare i conti con una tensione ascensionale travolgente, trasformando lo spettacolo in un’esperienza che realmente può contribuire alla crescita personale di chi partecipa a questo rito collettivo.

Servendosi di immagini semplici e immediate, ancora una volta TAM Teatromusica riesce quindi a scavalcare i limiti fisici del teatro per parlarci di cose concrete e che costellano la nostra vita quotidiana. Grazie al progetto Teatrocarcere la scena si carica di nuovi significati, in grado di creare un punto di contatto tra il pubblico e il palcoscenico, rompendo quella barriera che troppo spesso poniamo tra la realtà e la finzione, tra l’arte e la vita.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli