TAM Teatromusica

Schegge della scena contemporanea: al via Contrappunti 2011/12

È stata presentata venerdì 2 dicembre la stagione del Teatro delle Maddalene di Padova, lo spazio che da ormai sedici anni è animato da Tam Teatromusica e che propone eventi – teatrali e non – legati agli scenari di ricerca contemporanei. L’assessore alla cultura Andrea Colasio introduce una programmazione che per la stagione 2011/12 si articola in tre diversi momenti, nel tentativo di far dialogare le politiche culturali della città con lo spazio scenico allestito all’interno del vecchio monastero patavino.

«Contrappunti_1:RAM» è il titolo assegnato alla prima parte della rassegna, che si inserisce infatti nel ciclo di eventi, mostre e laboratori organizzato dal Comune di Padova per promuovere l’arte, con un particolare sguardo ai linguaggi contemporanei e novecenteschi. Il primo appuntamento – previsto per sabato 10 e domenica 11 dicembre – prevede il riallestimento di Canto dell’albero, un lavoro realizzato da Tam Teatromusica nel 1998 e ripreso in occasione dell’anno internazionale delle foreste proclamato dall’ONU. Lo spettacolo costituisce il primo passo in un percorso che pone al centro della sua proposta l’infanzia, creando uno spazio di visioni condivise tra adulti e bambini. Si prosegue infatti con Picablo (in scena dal 16 al 22 dicembre), ultima produzione diretta da Michele Sambin e dedicata a Picasso, dove «i quadri prendono vita, vengono interpretati, abitati e trasformati» grazie a un utilizzo dello strumento tecnologico in quanto elemento per destare stupore e meraviglia; si ritorna poi al 2007 con quell’Anima blu (20, 21 e 22 gennaio 2012) su Marc Chagall e con il quale il Tam ha ottenuto diversi riconoscimenti internazionali. La prima sezione della rassegna si conclude con l’ultimo lavoro di Pantakin Circo Teatro (già presente nella scorsa edizione con Cirk) realizzato con Silvia Gribaudi e Tiziano Scarpa: Emanuele Pasqualini (regista, attore e clown della formazione veneta) racconta di come Circoparola (27 e 28 gennaio) nasca dal bisogno di forzare i limiti dei linguaggi scenici, accogliendo nell’universo espressivo circense una parola con la quale “giocoleggiare”.

Per la seconda sezione («Contrappunti_2: Universi Diversi») Tam Teatromusica decide di chiamare a dialogare – attraverso i propri lavori – i protagonisti della «tradizione dell’innovazione» (come la definisce Maria Cinzia Zanellato, membro della compagnia impegnata in un lavoro con gli adolescenti e con i detenuti della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova) con giovani artisti il cui lavoro difficilmente accede ai circuiti “ufficiali”: accanto a César Brie – presente il 9 marzo con 120 chili di jazz – e a L’archivio delle anime. Amleto (23 marzo) di Massimiliano Donato con il Centro Teatrale Umbro, si esibirà il 17 febbraio l’Aleph Company con Oh Carrot! (spettacolo realizzato con il sostegno di Nu.D.I – Nuova Danza Indipendente e Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza), mentre il 24 febbraio sarà la volta del napoletano Teatringestazione con Canto trasfigurato. L’interesse per le due formazioni nasce nel primo caso dalla ricerca sulla commistione sui linguaggi (musica, danza, teatro e video) avviata dalla danzatrice e coreografa Margherita Pirotto, nel secondo dalla sperimentazione di nuove modalità di produzione e diffusione della cultura teatrale che ha portato la formazione campana a dare vita a luglio 2011 ad «Altofest», una rassegna realizzata in spazi privati che i cittadini hanno offerto agli artisti ospitati. L’attenzione è rivolta quindi sì a orizzonti espressivi che si interrogano su questioni estetiche e poetiche, ma anche circa la costruzione di nuovi spazi in cui impiantare l’esperienza teatrale, favorendo così l’incontro con nuovi pubblici.

Ed è sulla scia di questa indagine che è pensata la parte conclusiva della rassegna: «Contrappunti_3: festival relAzione Urbana» si interroga infatti sul rapporto tra artisti e città, attraverso spettacoli, momenti performativi e formativi tesi a rivelare la città come palcoscenico dove intessere nuove forme di convivenza umana. Il festival riprende in parte l’esperienza realizzata per le strade di Padova il 27 marzo 2011 per la Giornata mondiale del Teatro, durante la quale le compagnie del territorio animarono le piazze con le loro esibizioni per manifestare il dissenso contro i tagli economici e una politica svilente rispetto al ruolo della cultura e alle sue professionalità. Accanto ai tre spettacoli allestiti presso il Teatro delle Maddalene (Report della città fragile con Gigi Gherzi per la regia di Pietro Floridia, La città fragile. Seppellitemi in piedi di e con Beppe Rosso e Città dentro Città fuori – ispirato a Le città invisibili di Italo Calvino – di Stalker Teatro), Padova si animerà di performance e videoinstallazioni tra le quali il lavoro di  A2, una formazione parigina inserita all’interno del festival grazie alla collaborazione tra Tam e l’area Creatività dell’Ufficio Progetto Giovani di Padova che aderisce a un programma di mobilità internazionale di artisti e operatori culturali.

Con questa edizione di «Contrappunti», Tam Teatromusica e il Comune di Padova sembrano dialogare per dare vita a un progetto culturale che porti alla luce le potenzialità comunicative di un teatro che non sappia solo parlare, ma anche mettersi in ascolto del cittadino, chiamato a essere parte attiva all’interno del processo di costruzione dei percorsi espressivi. Un primo passo – forse – per preparare gli abitanti patavini al ritorno (accennato dallo stesso assessore Colasio) del festival «Teatri delle Mura», secondo una nuova formula di cui ancora non si conoscono i tratti. Rimane solo da sperare che – a partire dalla rassegna curata dal Tam – Padova riapra le porte delle sue mura a orizzonti di sperimentazione e (perché no) di respiro internazionale, come ci avevano abituato le direzioni artistiche di Andrea Porcheddu per lo stesso «Teatri delle Mura».

Giulia Tirelli

Al di là del concetto di punizione

Laboratorio TAM Teatrocarcere

Sorvegliare e punire è sicuramente uno dei testi più conosciuti del filosofo e storico francese Michel Foucault: l’autore analizza in questa sede la nascita delle prigioni e le diverse forme di punizione che si sono via via succedute nel corso della storia. Ci si chiede cosa avrebbe da dire circa gli sviluppi più recenti della vita carceraria. In molti dei suoi testi − a partire da Storia della follia nell’età classica fino allaStoria della sessualità − Foucault si è interessato a temi rilegati in una sorta di zona grigia dei saperi umani. Ne emerge con forza una riflessione sul “diverso”, su ciò che tendiamo sempre a recludere in luoghi lontani dalla vista, dalla vita quotidiana, nonostante l’appartenenza di questi universi al nostro vissuto: prostitute, “pazzi”, carcerati, sono passeggeri oscuri di una società che li vuole lontani da sé, nascosti nella notte o nelle mura di edifici appositamente costruiti per “nasconderli” al mondo. Ipocritamente, viene da pensare, se pensiamo ai principi di uguaglianza e rispetto per la diversità rivendicati da tanti. Eppure la diffidenza verso il “diverso” fa parte della nostra quotidianità e il pregiudizio si fa bandiera di certe parti politiche anche molto influenti nel panorama italiano. Ed è così che si afferma soprattuto un’idea di “diversità” come “minaccia”, che si discosta nettamente dal senso di umanità propugnato nelle società civili.

Pierangela Allegro (1), attrice e performer della compagnia TAM Teatromusica, scrive sul sito della compagnia che «il teatro, arte meno individuale delle altre in quanto prevede una creazione collettiva mettendo in moto energie di relazione, può essere una scoperta affascinante, destabilizzante e provocatoria in un contesto in cui si è portati necessariamente al proprio tornaconto, al proprio affrancamento, alla libertà individuale per sopravvivere»:queste parole esplicitano l’importanza di un laboratorio teatrale in carcere. La conferenza stampa, che ha avuto luogo all’interno della stessa Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova, oltre ad approfondire il significato di questa affermazione, ha fatto emergere il senso più profondo di questo tipo di lavoro. L’esperienza ha avuto origine da una collaborazione tra la compagnia e l’Amministrazione pubblica nel 1992, inizialmente sotto la guida di Michele Sambin e Pierangela Allegro mentre, a partire dal 2004, la conduzione è passata a Maria Cinzia Zanellato e Andrea Pennacchi, che si trovano oggi, in tempi di tagli e crisi, a lottare per proseguire questo cammino.

Balza subito all’occhio che la maggioranza degli attori/detenuti è di origine straniera, da qui la scelta di creare dei percorsi artistici in grado di «favorire un incontro interculturale, di socializzazione e di costruzione di relazioni, per le persone detenute e al di fuori del loro nucleo di appartenenza», come indicato nel materiale preparato per la conferenza stampa. Un aspetto evidenziato dai reclusi che aderiscono al progetto, ma tanto più enfatizzato dal gruppo di persone che prendono parte al laboratorio di Teatro Civile promosso da TAM Teatromusica. Se infatti le parole dei carcerati colpiscono per la necessità che scaturisce dal partecipare ad un’iniziativa di questa portata, sono quelle dei ragazzi che entrano in contatto con loro che chiariscono il senso definitivo di tale operazione: troppe volte ci si dimentica che il carcere costituisce una parte della società, o meglio ancora, una sua conseguenza. Ricordano infatti i detenuti che, di fatto, chiunque è un potenziale criminale, ma molto spesso ce ne dimentichiamo − basti pensare alle notizie di cronaca che rivelano come persone apparentemente tranquille si trasformino in realtà in assassini, ladri e altro ancora, e ai criminali legalizzati di cui ci parlano i personaggi del “controsistema”. L’incontro con i carcerati si trasforma così in qualcosa che fa emergere il lato più umano di ciascuno, non per un senso di pietà o di compassione, ma perché costringe ad un’autoanalisi che fa riaffiorare la coscienza dell’errore, o almeno, della possibilità di commetterlo. Al di là di qualsiasi giudizio, il lavoro condotto all’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi non cerca di indagare le cause della colpa, ma di scavare nel vissuto delle persone che si trovano coinvolte nell’esperienza, permettendo loro un dialogo con chi sta “fuori”: uno spazio con il quale non sarà più possibile instaurare una relazione senza fare i conti con la propria condizione di “carcerato”. Questa distanza richiama alla mente quello che Foucault definiva come “vergogna” o “deportazione”, indicato come uno dei quattro tipi di pena possibile (insieme al lavoro forzato, allo scandalo pubblico e alla legge del taglione). Scrive infatti: «in fondo la punizione ideale sarebbe semplicemente quella di espellere le persone, di esiliarle, di bandirle o di deportarle». E forse vederla nella prospettiva di una deportazione (perdonatemi la ripetizione, ma nessun sinonimo può restituire il senso di questo termine) ci può far riflettere su come la società percepisca lo “spazio carcere”: un luogo remoto, che in nessun modo comunica con la realtà quotidiana. Proprio per questo motivo più importante di tutto il processo di rieducazione e di reinserimento è la possibilità di dialogare che si instaura tra le due “dimensioni”. Un’esperienza che si articola in diversi momenti e tipi di attività, dalla realizzazione di cicli di incontri culturali all’interno del carcere, sino alla messa in scena di uno spettacolo presso la casa di reclusione stessa e presso il Teatro delle Maddalene. Ed ecco che per i detenuti è possibile ascoltare e parlare con Giuliana Musso, Tiziano Scarpa, Vasco Mirandola e altri personaggi di rilievo impegnati in esperienze di teatro civile, mentre all’interno del laboratorio preparano il momento in cui saliranno sul palco − inutile ricordare la complessità della burocrazia atta ad ottenere i permessi necessari ad abbandonare per poche ore o (in rari casi) una giornata gli stipatissimi locali della reclusione. Va inoltre sottolineato che proprio del 2010 è Annibale non l’ha mai fatto, spettacolo presentato in diversi festival e che si è conquistato il terzo posto del Premio Off 2010 promosso dal Teatro Stabile del Veneto e dal Teatro Verdi. Oltre ai riconoscimenti ufficiali, il momento della messa in scena costituisce indubbiamente un evento essenziale per il completamento del percorso intrapreso dai detenuti. Sentimentalmente lo si potrebbe leggere come una possibilità per queste persone di “respirare aria libera”, cadendo però nuovamente in una lettura pietosa e caritatevole che tende a tracciare linee di divisione e non di avvicinamento. L’incontro si presenta piuttosto come un’occasione per abbattere confini e divisorie, e recuperare così la sincerità di un dialogo con chi ha scelto − o è stato costretto − a percorrere una strada che mai si potrebbe pensare di seguire nel corso della propria vita. Farid, Giovanni, Sam, Mohammed e gli altri trenta detenuti che annualmente gravitano attorno al progetto riacquistano così un volto, un nome, un’individualità, stracciando la semplice etichetta di “criminale” sotto la quale vengono indistintamente accomunati, in un tentativo forse di farli cadere in un oblio collettivo, che, comodamente, mantiene pulita l’immagine di una società “democratica e civile”.

Giulia Tirelli

(1) correzione in seguito alla segnalazione dell’autrice di un errore (ora corretto) presente nel sito della compagnia

Loop di epifanie e allucinazioni

Megaloop

Si è conclusa il 6 giugno la mostra dedicata alla trentennale attività della compagnia Tam Teatromusica, per un mese ospite delle sale espositive del Centro Culturale S. Gaetano/Altinate di Padova. Non sono mancati, nel periodo di apertura al pubblico, momenti di riflessione con critici, studiosi ed esperti di teatro per indagare e cogliere la particolarità del lavoro di una realtà che anima l’ambiente teatrale patavino dal 1980. Un percorso articolato, tradotto nello spazio dell’esposizione in disegni, video, schizzi e oggetti di scena; un viaggio il cui momento finale apparentemente coincide con quello iniziale, in un loop che sembra non avere fine. Eppure, sono molte le “variazioni sul tema” che costellano il percorso di Michele Sambin: videoarte, pittura e musica si sono prestati nel corso del tempo come strumenti privilegiati per indagare un universo visivo sempre suggestivo, rivolto a pubblici eterogenei (basti ricordare i percorsi di Teatro Infanzia e Teatro e Carcere). Tuttavia, come ripetuto più volte nel corso degli eventi aperti al pubblico, la vera sfida è stata quella di restituire attraverso un mezzo inusuale per il teatro, la mostra espositiva, il senso e il dinamismo di una ricerca formale assai complessa, in grado di coinvolgere arti visive, scultura e musica, di cui il punto d’incontro è costituito dalla scena. Da questo ostacolo nascono le Azioni sceniche, ospitate nelle sale della mostra il 14, il 21 e il 28 maggio. Lo spazio espositivo, agito come un palcoscenico, si è trasformato così in un luogo dove tutto è vivo, dove è la “vivacità” dei performer a trasmettere un flusso vitale a quegli oggetti che una volta hanno occupato uno spazio scenico e che già hanno hanno parlato in passato. In perfetta consonanza con il senso di Megaloop, le Azioni sceniche costituiscono un momento di ritorno su esperienze passate, nel tentativo di ricreare una relazione nuova con un oggetto (o un passato?) già esperito e rielaborato, regalando a coloro che erano assenti la possibilità di farne esperienza e conservarne la memoria. Lo spettatore si trova così a percorrere lo spazio espositivo accompagnato da suggestioni rievocate di otto opere passate, che, solo per il pubblico, riprendono vita. Si passa così dalle armonie delle armoniche a bocca e dalle geometrie di luce di Armoniche (1980), dalle basse frequenze prodotte dal contatto tra molle e lastre metalliche di Repertoire (1981), dalle forme aeree di Era nell’aria (1984), allo straziante strappo di Squarcione (2004), seguito dalle superfici esperibili di Macchine sensibili (1987), dalla coreografia per oggetti e un agnello di peluche di Children’s corner (1986) fino allo “shakespeariano” Ages (1990) e al quadro finale di deForma (2008/09). Un percorso, quindi, che non si muove secondo direttrici cronologiche, che non si presenta come un viaggio retrospettivo teso alla memoria storica degli eventi. È un viaggio sensoriale in un mondo fatto di rigore geometrico e formale, ma che riesce a mantenere quel carattere suggestivo tipico di una dimensione mentale lontana dalla percezione quotidiana. Si direbbe un viaggio nell’estetica quello in cui viene condotto lo spettatore di quadro in quadro: quadri vivi, la cui anima è in grado di travalicare i limiti della scena per la quale erano stati pensati, ripresentandosi come opere autosufficienti e concluse in se stesse. Il tutto nel tempo di un’epifania, che a tratti assume il carattere di un’allucinazione collettiva, impossibile da trattenere se non nella propria memoria emotiva e sensoriale.

Visto al Centro Culturale S.Gaetano/Altinate, Padova

Giulia Tirelli

Intervista a Michele Sambin – TAM Teatromusica

Intervista a Michele Sambin – Tam Teatromusica – a cura di Agnese Bellato e Camilla Toso

Come si è formato il gruppo TAM Teatromusica, quali sono gli ambiti artistici dai quali provenite e qual è stato il vostro percorso di avvicinamento al teatro?

Negli anni ’70 ho svolto un’attività (ora molto riscoperta) legata alla performance e alla video arte. La mia idea di lavoro sul rapporto immagine-suono era un’idea molto giovanile, in quanto, essendo io pittore e musicista, non volevo rinunciare a nessuno dei due linguaggi. L’idea di coniugare immagini e suoni quindi mi appartiene fin dalle origini. Quando lavoravo nel campo delle Arti visive, i confini tra poesia, danza e performance erano aperti, privi di muri di separazione tra i differenti linguaggi. Quindi mi trovavo a mio agio in quest’ambito elastico.
Poi, alla fine degli anni ’70, con il movimento della Transavanguardia capitanata da Achille Bonito Oliva, c’è un momento di grande restaurazione nel mondo dell’arte, in cui ogni ambito si chiude nuovamente in se stesso a causa anche dei problemi in cui è immerso il mercato dell’arte: in particolare per l’assenza di opere realizzate con supporti concreti che possano essere venduti. Infatti, in ambito performativo, come vendere il corpo dell’artista? Questo momento di restaurazione è stato quindi necessario per smuovere il mercato dell’arte.
Io avevo fatto un lavoro sulle video-performance, non mi interessava il video inteso come supporto che immobilizza una situazione, ma come estensione delle possibilità del performer. Quindi il lavoro avveniva in tempo reale, il pubblico vedeva l’evoluzione dello spettacolo con l’ausilio del video.

Con la Transavangurdia non mi sono rinchiuso nel mio studio, era più importante il lavoro qui ed ora in relazione con lo spettatore. La mia non è stata un’entrata classica nel mondo teatrale, ma un trovare, soprattutto inizialmente, il necessario spazio per proseguire il mio percorso performativo.
Gradualmente il teatro mi ha chiesto di andare verso forme più teatrali, come ad esempio nell’esperienza di uno spettacolo nato, stranamente, a partire da un canovaccio di Goldoni (in co-produzione col Teatro delle Albe). In me c’è quindi una matrice da artista/performer, che si confronta poi con la dimensione letteraria del teatro.
In questi trent’anni il nostro lavoro (con il Tam) sembra molto anomalo, in confronto al resto del mondo teatrale: ci siamo ad esempio avvicinati al Teatro Ragazzi (per la mancanza di preconcetti che permettono di comunicare con i bambini), poi abbiamo attraversato una fase di teatro di letteratura (con Ruzzante), in quel caso, piuttosto che guardare al futuro, mi sono voltato indietro verso le mie origini di padovano. Poi ho ritrovato le radici della performance, circa dieci anni fa, quando ho cominciato a lavorare con le nuove generazioni, con le quali ci si sente impegnati in un gioco, un passaggio tra maestro e allievi, in cui ci si racconta ai giovani. Io  ora recupero la dimensione performativa assieme a questi giovani, alcuni dei quali lavorano tuttora in de_FORMA.

Ci sono degli artisti ai quali vi siete ispirati e con i quali vi rapportate tuttora?

Come punti di riferimento giovanili ci sono principalmente due personaggi: uno è  Mauricio Kagel,  maestro dell’avanguardia musicale in Germania, recentemente scomparso, la cui formazione musicale nella ricerca di un’arte totale, lo ha spinto a una presenza teatrale del musicista, che quindi non è più solo semplice esecutore di suoni, ma attore consapevole della propria fisicità scenica.
Altro punto di riferimento che sento vicino al mio percorso è Laurie Anderson, con la quale ho condiviso situazioni di performance negli anni ‘70, in particolare nei primi anni ’80, quando è stata invitata al festival di Sant’Arcangelo.
Tra loro sembrano mondi lontani: Kagel è un musicista di rigida formazione accademica che diviene poi di rottura; Anderson, invece, appartenente alle arti visive, che si colloca poi a sua volta nella dimensione musicale. Il nostro DNA multimediale si vede fiorire ora in molte situazioni, anche nei gruppi giovani, non ne cito, ma è strano e mi dispiace che questi gruppi spesso non conoscano ciò che già è stato fatto. Anche per questo ci stiamo dedicando ad un’opera di archiviazione dei nostri lavori degli ultimi trent’anni: è una raccolta digitale del nostro percorso teatrale (con documenti, appunti, recensioni e fotografie di circa settanta spettacoli), strumento per rendere pubblico il nostro lavoro.

Parlando di de_FORMA, ci sono dei precisi riferimenti a Beckett?

Il riferimento a Beckett in de_FORMA c’è in generale, ed il testo di chiusura dello spettacolo è suo. Durante l’elaborazione del lavoro abbiamo travato un tipo di clima  che ci avvicinava a lui, allora abbiamo voluto legarcene ancora di più. Ma in realtà la matrice di riferimento è tutto il ‘900, compreso lo stesso Kagel. Io mi sento debitore a tutta l’Avanguardia, poi naturalmente c’è il lavoro di sperimentazione che solo le nuove tecnologie possono supportare, come ad esempio l’uso della pittura digitale.

Quad al cubo

Recensione a deFORMA_09, di TAM Teatromusica

foto di Claudia Fabris

foto di Claudia Fabris

Atmosfera fortemente concettuale per lo spettacolo deFORMA_09 della compagnia TAM Teatromusica. La performance ideata da Michele Sambin riporta alla mente un immaginario fantascientifico. Quattro personaggi si muovono sul piano orizzontale, spinti o trascinati, da una fune; li sovrasta in aria, lo scheletro elastico di un parallelepipedo, la cui forma si trasforma continuamente. L’ambientazione è surreale, geometrica e rigida. È una danza meccanica che porta l’eco lontano di un altro mondo. Le quattro figure si muovono su rotte prestabilite, collegate indissolubilmente agli angoli della figura: marionette in balia di una geometria  intelligente, o forse sapienti geometri?
La danza compiuta dai quattro ballerini richiama gli studi di Beckett su Quad – una coreografia studiata su funzioni matematiche che stabiliscono le entrate e uscite degli attori, i loro spostamenti sugli assi di un quadrato, senza mai farli passare per il centro; quest’ultimo è, infatti, il punto focale della performance, lo zero generatore. In questo caso gli attori  tendono ad esso, lo sfiorano, si avvicinano, perché al centro risiede il punto generatore del suono. Quattro microfoni catturano i rumori prodotti dal movimento e dal fiato dei performer, i suoni distorti e modificati (dalla poesia di Kole Leca), vengono riprodotti a creare una partitura vocale intensa e ritmata. Il movimento scandisce e viene scandito dai ritmi che produce. Un lavoro sullo spazio, uno studio sulle tre dimensioni, sul suono, sull’immagine digitale (con le rielaborazioni video e pittura digitale di Michele Sambin).

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foto di Claudia Fabris

In scena il passare del tempo, un lento divenire, un mutamento di forma e, di conseguenza, di concetto. «Forma è il limite che consente di poter definire un qualunque oggetto, idea, concetto, sensazione. Deformare è alterare la forma, darle un significato diverso dal reale» scrive Pierangela Allegro, unica donna in scena.
Visivamente un’opera interessante e stimolante; forse la presenza del testo risuona superflua e straniante. Restare sul piano concettuale avrebbe portato il pubblico ad immaginare oltre le parole.

Camilla Toso