Teatro de los Andes

In bilico tra religione e affetto

foto di Mario Boccia

foto di Mario Boccia

Recensione de Il mare in tasca – scritto, diretto e interpretato da César Brie

Un piano che scivola continuamente tra finzione e realtà, tra sincerità e rappresentazione: colpisce per il carattere diretto e coinvolgente Il mare in tasca, spettacolo diretto e interpretato dall’argentino César Brie, andato in scena al Centro Culturale Candiani di Mestre. Tre personaggi, che trovano un senso nel singolo corpo del regista naturalizzato italiano, si alternano continuamente intorno a piccoli e semplici oggetti caricati di una simbologia multipla. Brie mette in atto l’espediente del metateatro, interpretando un attore che una mattina si risveglia vestito da prete, per volontà di un Dio severo che lo costringe a rappresentarne la parte. Tutto assume intelligentemente una duplice valenza: le fragili e minuscole bamboline sedute di spalle su una piccola panca diventano i credenti presenti alla delirante funzione religiosa del prete-attore; ma allo stesso tempo sono una proiezione del pubblico in sala che assiste a uno spettacolo. Palese è la voluta coincidenza della rappresentazione liturgica con la messa in scena teatrale: il regista e fondatore del Teatro boliviano de los Andes presenta la religione come qualcosa di esistente solo nel momento in cui ci si crede. Proprio come accade in teatro: lo spettatore accetta la verità della finzione, che ha senso di essere solo con la complicità del pubblico, a sua volta testimone di un sacramento. Brie crea così, in maniera irriverente e ironica, la storia di un uomo che non crede in Dio ma che è costretto a conversarci: quello descritto è un Signore troppo assente per un mondo in decadenza, ma troppo presente per piccole vicende quotidiane, che sembrano inutili, proprio come quella di un attore. Camuffato da prete, il personaggio dà vita a un divertente monologo, molto apprezzato dal pubblico, con battute che irridono il sacramento della confessione ribaltandolo e caratterizzandolo tramite laicismo: Brie assolve non solo le sue marionette da insignificanti peccati, ma anche il pubblico per l’aver fischiato Maradona o per confondere la Bolivia col Venezuela.

Come se avesse un rosario, il regista tira fuori dalla sua tasca un piccolo nastro blu, simbolo di un mare che qui si trasforma in un oggetto sacro: alludendo a una immensa distesa d’acqua, la striscia di stoffa separa l’uomo fisicamente dalla terra; una separazione spirituale che dovrebbe avvenire mentre si prega, tenendo tra le dita il piccolo strumento religioso che ricorda una collana. È un gioco che si basa continuamente su una duplice interpretazione e che lo spinge ad osare di più: si porta il nastro alla bocca, imbavagliandosi, come se quel nastro diventasse un impedimento a vivere la propria vita rimanendo attaccati alla terra e magari all’effimero.

A metà dello spettacolo, quando si è convinti di trovarsi di fronte a un teatro che parla di religione, Brie spiazza lo spettatore annunciandogli che in realtà il tema è l’amore. Convince poco questo cambio improvviso che sembra rimanga solamente una formalità: la religione continua a essere presente con l’esempio dell’affetto incondizionato che coincide con l’eutanasia, “portando il proprio amore a morire” come dice lo stesso attore. È un tema questo che nell’immaginario non può separarsi dalla religione. Proprio come la tunica da prete che il regista si toglie, ma da cui sotto ne esce fuori un’altra identica, Brie prova a camuffare la propria pièce, facendole indossare l’abito amoroso, quando sotto è sempre presente quello religioso. L’amore presente nel finale sembra però sposarsi benissimo con quel mare in tasca perché come dice il regista argentino a proposito dello spettacolo “Ognuno può vederci il proprio dolore d’amore, i resti di un naufragio. E il porto non c’ è, a meno che quest’ultimo non sia negli sguardi degli spettatori”. Sguardo che osserva l’attore-prete-uomo con affetto.

Visto al Centro Culturale Candiani, Mestre

Carlotta Tringali

Un mare di passione

Recensione de Il mare in tasca – scritto, diretto e interpretato da César Brie

© Fabbrica Europa 2009

© Fabbrica Europa 2009

Sono rari gli artisti che con sensibilità e tenacia vogliono provocare e smuovere lo spettatore e ancor meno sono quelli che riescono a farlo con abilità, cura e rispetto.

Uno di questi è l’argentino César Brie, che con Il mare in tasca apre mente e  anima sul palco, offrendo un’articolata riflessione sulla vita in teatro e non solo. Brie si presenta come un attore (se stesso) che in seguito ad un incubo – in cui vive da protagonista l’episodio del rinnegamento di San Pietro – si risveglia letteralmente nella veste di prete cattolico. Imprigionato nel nuovo ruolo comincia un dialogo con Dio (interpretato dall’attore stesso), uno scontro tra Brie e Brie, in cui viene interrogato il senso di ogni cosa: si mette in discussione l’identità dell’attore e quella del personaggio, il perché del ruolo che si svolge, l’importanza delle relazioni che si creano in scena (e come auto-ironizza César Brie rivolgendosi  a se stesso: “Hai sempre detto che il teatro è fatto di relazione. E sei qui da solo!”), e infine il cambiamento.

Quindi una riflessione sull’agire teatrale, ma anche e soprattutto una riflessione sulla vita. Vita che il teatro ha spesso la capacità di mostrare, a volte riflessa, altre volte distorta o amplificata, solitamente nell’intento di chiarire aspetti del nostro vivere. Nel caso de Il mare in tasca aspetti molto profondi, normalmente forse ignorati nella sempre più occupata e frenetica quotidianità in cui ci si immerge, dimenticando di lasciarsi il tempo per pensare. Solo un artista sensibile e acuto può far intuire e scorgere questi aspetti, sempre se però lo si ascolta con apertura. L’attore argentino si sdoppia abilmente e con grande ironia nel dialogo tra umano e divino, con provocazioni ed episodi dissacranti sulla religione cattolica, fino alla riflessione sull’aspetto sacrificale del ruolo dell’attore che con la sua professione sceglie di donarsi.

Assunto il ruolo di prete, Brie comincia ad assolvere i peccati degli spettatori: le ipocrisie, i tradimenti, le vigliaccherie e le stupidità, indicandoli, accusandoli e assolvendoli uno ad uno. Brie si investe di un ruolo nel quale esprime con ferocia  il proprio giudizio, esponendo chiaramente ed intelligentemente cosa pensa del desolante spessore umano e dell’incoerenza della nostra evoluta e civile società occidentale (e italiana in particolare).

Quando faticosamente riuscirà a togliersi la lunga tunica (una prigione fatta di bottoni) paleserà l’inutilità della snervante operazione, rivelando sotto alla veste una tunica uguale alla precedente: “Ma non è cambiato niente!” dice, forse perché umanamente tutti cerchiamo di toglierci ‘l’abito’ che ci identifica agli occhi degli altri, ma inutilmente, perché in fin dei conti siamo sempre noi stessi, sempre uguali a noi stessi.

L’interrogazione costante stimolata da Brie riguarda tutti gli ingranaggi dell’organismo teatrale: il ruolo della mente creatrice (regista-autore / Dio), la vita in scena dell’attore che sul palco nasce e poi muore ad ogni replica; fino al pubblico che l’artista argentino ricrea in scena con delle marionette sedute su una piccola panca posta di fronte a lui. I pupazzi schierati sono il pubblico, il quale, solo in quell’istante (nel vedersi rappresentato), realizza la relatività del proprio sguardo e la semplicità della propria natura composita, formata da singoli e piccoli individui che osservano. Ma Brie prende in spalla lo spettatore, vuol farsene carico, con cura, fino a rimboccargli le coperte.

César Brie in Il mare in tasca

César Brie in Il mare in tasca

L’artista con questo spettacolo affronta i fantasmi del proprio passato e dell’infanzia: così come con la religione, si imbatte nell’immagine della madre, la cui enorme veste bianca pende a destra sul palco, finché l’attore stesso  la indossa e ne interpreta così il ruolo. Lo spazio è organizzato con semplicità ed efficacia: vengono proposti pochi elementi duttili a creare  ambienti che vengono poi smontati e trasformati.  In particolare, in scena vengono utilizzate sostanze e simboli di valenza religiosa: il vino che viene versato, il grano disperso a terra, fino ad una splendida colomba bianca. Le atmosfere sono evocate attraverso la luce e soprattutto dalla bravura dell’attore.

Con un breve racconto poi, Brie riesce ad affrontare il delicato dibattito sull’accanimento terapeutico ed eutanasia:  destabilizza lo spettatore esprimendo l’assurdità del dover dare la morte a chi non è più in reale vita per permetterne la pace. Grande rabbia ed energia vengono sprigionate in una danza che è un vortice di disperazione. La performance è totalmente fusa al suo artefice che attraverso il canto, la voce e uno sguardo di fuoco, incanta.

“Cerco un porto, alla fine del mio viaggio e spero di trovarlo nei vostri sguardi.” César Brie conclude il suo racconto augurandosi di poter buttare l’àncora: così come ogni racconto e ogni viaggio hanno un inizio e una fine, così l’attore con la sua storia spera di trovare una meta negli occhi dello spettatore, di sostare temporaneamente nella loro mente attenta, magari entrare nel loro cuore e perché no, rimanere nella loro memoria.

Visto al Centro Culturale Candiani, Mestre

Agnese Bellato

Odissea tra parodia e poesia

Recensione de l’ Odissea di Cesar Brie e il Teatro de Los Andes

foto di Paolo Porto

foto di Paolo Porto

«Dopo l’incendio di Troia/ognuno di noi prese la sua strada./Io lasciai la Bolivia/attraversai Perù e Ecquador./Dalla Colombia, in un gommone/sbarcammo in Guatemala. Eravamo in quaranta. Navigammo a lungo/l’angoscia nel petto/fino ad un golfo/chiamato Cariddi»

A dieci anni dall’Iliade torna in Italia il Teatro de Los Andes, anche questa volta con un poema omerico: lOdissea. Cesar Brie sfida ancora un colosso, affronta uno dei testi portanti della cultura occidentale, e lo fa a modo suo: trasportando l’Europa in America Latina per poi farla tornare ritradotta, riraccontata, risvegliata. Uno sguardo sull’Occidente attraverso i suoi miti, trasportati nella realtà del Sud – uno dei tanti sud del mondo – per raccontare una verità lontana con parole e parabole vicine, per far scoprire attraverso lo specchio, la patina d’argento ingiallita dietro il quale si riflette la società occidentale. L’Iliade, a suo tempo, fece scalpore: per la forza, l’energia, la violenza. Era una storia di guerra e dentro c’erano tutte le guerre degli ultimi trent’anni. L’Odissea è una storia di viaggi, di passioni, lotte, naufragi, attese; una storia di intrecci, smarrimenti, storia di storie, di identità, di invasioni e assedi. Questa volta Brie decide di non lavorare sulla violenza, che di violenza ce n’è già abbastanza, soprattutto nel suo Paese. Il testo è diverso, ricco di storie ed incontri, ma il procedimento dell’autore rimane lo stesso: traslare nel contemporaneo le vicende narrate dal mito, quasi a voler affermare l’universalità temporale che le caratterizza. Questa è la prima chiave di lettura: ecco allora che il viaggio di Ulisse si trasforma nell’epopea dei Boliviani che scappano verso l’America, la maga Circe veste i colori del McDonald’s, usa Coca Cola e cibo spazzatura per trasformare gli uomini in maiali, e Polifemo è il capo della “Mara Salva Trucha” una banda di criminali che derubano e violentano i migranti in viaggio verso il Messico.

È chiara la scelta di regia: la commistione di tragedia e commedia, realtà contemporanea e mito, parodia e dramma, ironia e satira. Meno chiara risulta, sotto alcuni aspetti, la realizzazione. Gli attori sono straordinari dal punto di vista fisico: acrobati, danzatori e musicisti, incredibili trasformisti (sono solo in nove e fanno più di quattro personaggi a testa!) sempre attenti a tenere una poetica del corpo in linea con l’opera. Ma è la recitazione, forse l’uso della voce, ricercato e probabilmente voluto, che già dalle prime battute risulta troppo caricato, con un tono declamato che suonerebbe strano se non uscisse dalla bocca di uno degli dei, oppure stona in alcuni casi, come nell’episodio di Nausicaa – la bella e giovane ninfa figlia del re dei Feaci – che nella parodia sembra quasi fare il verso a Luciana Litizzetto. Sembra perdersi Brie, proprio nella ricerca della commedia e della parodia; facendo riferimento al Teatro Campesiño, alcune scene partono dai lazzi della commedia dell’arte per poi sfociare in un gran baccano e confusione che disorientano lo spettatore, altre scene parodiche, invece sembrano ammiccare complici e cercare l’applauso, quando ad esempio Penelope interroga Ulisse, tra le tante domande spunta: “capitale dell’Italia? Arcore! Anzi Roma”.

odissea2Riconosciamo il Brie de Il cielo degli altri, nell’Odissea del viaggio, nella poesia del naufragio, della nostalgia di casa, nel risvolto politico delle storie dei migranti/immigrati riportate sul palco. Ma anche nell’ironia velata, che percorre scene come quella in cui i Minuteman – volontari americani che sorvegliano la frontiera tra Messico e Stati Uniti -si fanno fotografare con un fuggiasco, prima di abbandonarlo nel deserto; scena che fa ridere il pubblico per l’assurdità dei personaggi, un riso che diviene amaro e lascia un gusto rancido in bocca, perché quello che vediamo, accade veramente ogni giorno dall’altra parte del globo. Ritroviamo la poesia d’immagini del Teatro de Los Andes nella geniale scenografia di Gonzalo Callejas: una moltitudine di totoras, canne del lago Titicaca, che appese alla graticcia si aprono e si chiudono, ruotano e si spostano, creando boschi, recinti, mura, porticati e palazzi; e la ritroviamo anche nei costumi dai colori caldi di Giancarlo Gentilucci, semplici e senza tempo. Le musiche dal vivo composte da Pablo Brie e Lucas Achirico, richiamano le melodie popolari sud americane, creano spazio e personaggi colorando l’atmosfera.
Un lavoro ricco e pieno di vitalità, che a volte può non convincere troppo, ma che vale assolutamente la pena di vedere.

Visto al Teatro Astra, Vicenza

César Brie e il Teatro de Los Andes

Cesar Brie

Cesar Brie

Si lascia la laguna veneziana per raggiungere la terraferma, in una limpida giornata che permette di arrivare con lo sguardo sino ai monti innevati, imponenti all’orizzonte; sono lì in tutta la loro grandezza a ricordare che, nonostante il sole, è ancora inverno. È il 7 marzo e sembra di trovarsi in gita scolastica, forte è l’entusiasmo e tanti sono i giovani che affollano il Teatro Toniolo di Mestre per l’atteso incontro con il regista teatrale argentino César Brie, promosso dalla Fondazione di Venezia. Capelli grigi spettinati, occhi azzurri e sguardo sempre attento, l’uomo che ormai da più di 18 anni guida Il Teatro de Los Andes racconta la passione immensa per il suo lavoro a cui si è avvicinato inizialmente solo per vincere la sua timidezza – come spiega a una ragazza che dal pubblico gli chiede dei suoi esordi.

Dapprima introdotto dallo studioso Fernando Marchiori, dal Vicepresidente della Fondazione di Venezia Gianpaolo Fortunati e dall’Assessore alla Produzione Culturale del Comune di Venezia Luana Zanella, Brie è presentato come un uomo impegnato e attento nei confronti di quelle classi umiliate e povere che abitano il sud del mondo. Marchiori in particolare, che da tempo segue il Teatro de Los Andes, anticipa come il regista faccia attenzione al presente e alle culture native del Sud America.

Accompagnato dal suo inseparabile amico e socio Paolo Nalli – co-fondatore della compagnia che ha sede in Bolivia -, Brie prende parola e conduce la platea attraverso i suoi ricordi, dentro quelle vicende che hanno segnato nel profondo la sua esistenza. Brie racconta di quando, in particolare, ha lasciato il suo paese natio, l’Argentina, per trovare esilio in Italia; di come sia riuscito a risparmiare soldi per quattro anni e poter così aprire un proprio teatro in Bolivia, paese privo di qualsiasi cultura teatrale prima dell’arrivo de Los Andes. Il regista narra poi della sua Odissea personale e di quella che metterà in scena nel teatro mestrino il 22 aprile con una compagnia, quella boliviana, con cui si identifica pienamente: il soggetto narrante è quasi sempre ‘noi’.

Entrando nel merito dello spettacolo, César Brie lo descrive come un processo di ricerca su loro stessi, su quando sono stati, per esempio, Circe, o quando Polifemo. “Lavoro molto facendo domande ai miei collaboratori, raccolgo poi immagini e risposte – continua il regista -. Le domande intorno a Odisseo dovevano farmi scoprire con chi stavo lavorando. Alcune immagini come una sedia a rotelle, che ricorda l’esperienza di un attore con la mamma invalida, e altri elementi molto personali, rimangono nello spettacolo e sono humus vitale per noi, anche se allo spettatore tutto ciò non può arrivare in maniera diretta.”

Odissea affronta alcuni temi caldi dell’attualità, primo fra tutti quello dell’emigrazione boliviana. Trattare un tema classico per approdare al presente è una necessità che il gruppo teatrale sente per la seconda volta: dieci anni fa era infatti iniziata la rilettura dei poemi epici con l’Iliade. Ma mentre l’Iliade indaga il tema della violenza e ha un’unità di luogo, quest’ultimo lavoro parla di mondi differenti e di spazi che si aprono, di un Ulisse che, ritornato dopo parecchi anni a casa, non riconosce la sua terra. È un uomo che torna a Itaca deportato e che si rispecchia in coloro che in Bolivia hanno lasciato casa e famiglia per cercare altrove una vita migliore. In questo paese sud-americano un terzo della popolazione se ne è andata, soprattutto verso gli Stati Uniti, lasciando uno stato che, senza forza-lavoro, non può che peggiorare dal punto di vista di qualità della vita per coloro che rimangono. È per questo motivo che il regista, emigrante e immigrato in un luogo che molti abbandonano, sente da vicino questo problema, così come lo sente lo stesso pubblico boliviano che segue il Teatro de Los Andes assiduamente, perché sente che parla a lui, di lui e della sua situazione.

Continuando a parlare dello spettacolo e delle scelte registiche, Brie dice di aver collocato i mostri, presenti nel poema omerico,  proprio nella migrazione e nel viaggio: il Mare Caraibico – che molti boliviani devono attraversare per passare la frontiera – è infestato da pescecani: è molto più difficile riuscire a sopravvivere in quel mare che non nel Mediterraneo a noi più vicino, anche se quest’ultimo è spesso teatro di tragedie. Non per niente, il treno merci che i migranti usano per raggiungere gli Stati Uniti, viene chiamato ‘la bestia’.

Tra tutti i personaggi che il Teatro de Los Andes analizza nello spettacolo, curioso è quello della sirena che qui si allontana dalla figura che nel Medioevo si identificava con la donna-pesce. Essa rappresenta il canto della nostalgia, un canto che parla dell’Io che è proprio di chi è in ascolto. Brie entra nel particolare, spiega il perché alla presenza della sirena si muore: ci si dimentica di se stessi sentendo cantare del proprio Io. E il primo grande rischio di chi è emigrato è proprio questo: dimenticarsi di sé e ancorarsi al passato. Nella tradizione andina questa figura esiste e si rispecchia nello sciamano chiamato sileno: egli porta lo strumento musicale nell’acqua aspettando che il demonio lo suoni; nell’istante in cui vien suonato deve strapparlo al demonio stesso perché da quel momento lo strumento è stato ‘serenato’ e contiene tutte le melodie dell’universo – che l’artista non dovrà inventare ma scoprire.

Ascoltare César Brie parlare del suo teatro, costruito in Bolivia con grande fatica ma arrivato a ottimi risultati – tanto che ogni rappresentazione registra sempre il tutto esaurito – è come sentire il caldo sole ristoratore sulla pelle e, nello stesso tempo, essere riportati alla realtà invernale della neve sui monti. Forse ci si dovrebbe chiedere perché in un paese da dove molti emigrano il teatro riesce a essere un sole che riscalda e risplende, mentre in Italia questa arte risulta spesso coperta da una coltre di neve, con la minaccia di trasformarsi in un ghiacciaio perenne.