teatro delle albe recensione

Il peso dell’essere Pantani per il Teatro delle Albe

Recensione a Pantani – di Teatro delle Albe

foto Claire Pasquier

foto Claire Pasquier

Sul nero palcoscenico soltanto un divano e un tavolino. Sopra il tavolino un telecomando e un vaso con una calla bianca.
In scena entra Tonina, madre vestale, interpretata da Ermanna Montanari, in un vestito rosso fiamma, quasi un ologramma bidimensionale, e quello che dice ha una purezza primitiva, una sincerità dimenticata: «me l’avete ammazzato voi, con le vostre chiacchiere».
Ha male alle ossa, pesanti come catene, lo stomaco duro come un sasso, «un dulor…come ‘na nuvla scura…come un can rougnos…un dulor ch’u n’gn’è metar ch’l’imsura».

Il Teatro delle Albe, dopo il debutto a novembre al Teatro Rasi di Ravenna, sta girando l’Italia (a maggio sarà all’Elfo Puccini di Milano) raccontando una storia cominciata nel 1994, quando all’alba di una nuova era, con una nazione che risale la china dal “pantano”, dopo che la Prima Repubblica è affondata nella palude del “traggiro” – quell’arte di uccidere qualcuno e poi farsi chiedere scusa – spuntò «un omino di Cesenatico con le orecchie a sventola e il cuore che batte 36 colpi al minuto, uno che viene dal mare e va forte in montagna».
Così Marco Pantani, il ciclista pirata, ragazzo selvatico, “significativo ed extraordinario”, maglia rosa al Giro e maglia gialla al Tour, finito “in mezzo ai carabinieri come Pinocchio” e morto di disperazione nel febbraio del 2004 in un motel di Rimini, diventa l’eroe di questa tragedia romagnola, livida e ruvida, tra stabilimenti balneari e discoteche, che Marco Martinelli, dopo un lavoro di ricerca di oltre due anni, mette in scena con rigore e risoluzione partendo dal libro Gli ultimi giorni di Marco Pantani (Rizzoli) del giornalista francese Philippe Brunel – che nello spettacolo diventa L’Inquieto, interpretato dall’attore italo-belga Francesco Mormino.

Una Romagna anarchica ed arcaica per una storia fatta di epici trionfi e scure depressioni, ricostruita da Martinelli attraversando i generi, dall’inchiesta al lirismo, da chi conosceva e amava davvero Pantani: sua madre Tonina, prima di tutto, una perfetta Ermanna Montanari, maschera tragica e penetrante; il padre Paolo, interpretato dal vigoroso Luigi Dadina, la sorella Manola, riservata e fiera, interpretata da Michela Marangoni; e poi ancora gli amici di sempre Jumbo e Spillo, i gregari Conti e Fontanelli, i politici, i cronisti, i responsabili dell’antidoping e tanti altri, portati sulla scena con precisione da Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Laura Redaelli, Fagio, Francesco Catacchio.
A fare da contrappunto sul fondale, disegnato, come tutto lo spazio scenico, da Alessandro Panzavolta di Orthographe, foto e video di repertorio del ciclista, le sue imprese più memorabili, le interviste a chi lo conosceva, come il suo primo allenatore, il calzolaio Pino Roncucci, e Renato Vallanzaska che in carcere ebbe la soffiata sul sicuro ritiro di Pantani a Madonna di Campiglio.
E ancora i cori, canti popolari a cappella, sanguigni e tragici, accompagnati da Simone Zanchini, «fisarmonicista di San Leo – scrive lo stesso Martinelli nelle note di regia – con una barba da capretta e una fisarmonica antica che quando la suona sembra un organo a cento canne».

Il testo di Martinelli, dopo aver raccontato chi fosse Pantani attraverso chi lo conosceva, vira mano a mano sulle ombre dell’indagine, fa i nomi di dirigenti del CONI e commissari antidoping, su quelli amici spuntati dal nulla “avvoltoi con gli artigli e il cuore di pietra”, sull’inattendibilità degli esami e su un sistema sportivo che lo aveva condannato: «se era un re, adesso per lui scattava la ghigliottina».
L’ultima parte è raccontata con discrezione e senza retorica: la discesa di Pantani nella “sostanza”, come la chiama sua madre, la depressione fino alla morte, tra fumetti di Diabolik e la biografia di Che Guevara. Si fanno congetture, si sollevano dubbi e contraddizioni di una vicenda ancora oscura.
La “caduta” di Marco Pantani, per il quale i giornalisti avevano inventato dozzine di soprannomi, da “l’uomo proiettile” al “bambino vecchio”, dal “pantadattilo” a “la pulce di Cesenatico”, ispirerà decine di cantautori, dai Nomadi a Francesco Baccini, dall’orchestra romagnola Genio & Pierrots alla struggente Le rose di Pantani di Claudio Lolli.

Pochi giorni fa l’americano Lance Armstrong – soprannominato da Pantani “robocop” – nel milionario salotto televisivo di Oprah Winfrey, «in una sorta di lavacro pubblico – scrive Aldo Grasso sul Corriere – a metà fra un rito espiatorio e una recita ben orchestrata»,  ha ammesso di aver fatto uso di doping per vincere sette volte il Tour de France. La sua confessione, Pantani, l’ha invece scritta, pochi giorni prima di morire, sul suo passaporto, ritrovato tutto spiegazzato. La legge Tonina, sul finire dello spettacolo, in una sorta di inconsueta e commovente veglia funebre: «andate a vedere cos’è un ciclista e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza… e non sono un falso, mi sento ferito e tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare».
Uno dei gregari, nel testo di Martinelli, afferma che Pantani, dopo il Monte Ventoux, affrontò Armstrong: si fece serio e gli disse “ma a te, quanto ti pesa essere te?”. Lo ripetè più volte. E L’Inquieto precisa: «Le istituzioni che misero al muro Pantani sono le stesse che in quegli anni santificavano Armstrong».

Quella di Pantani sicuramente non è la tragedia del Vajont, ma rappresenta ugualmente un tassello della storia italiana, nonchè un mito antico e universale: il campione che, arrivato sulla vetta, viene scaraventato giù e dato in pasto alle belve.
La messinscena dall’alto valore sociale e politico, come una tragedia greca, mette lo spettatore davanti a se stesso e le parole di Tonina, madre in cerca della verità, combattiva e testarda, a cui sembra che il figlio “sia morto in guerra” e che sa che “indietro non si torna”, risuonano alla fine agghiaccianti: «Andate via, tutti quanti. Me l’avete ammazzato voi con le vostre chiacchiere». Un’accusa che, allo scrosciare degli applausi, si stampa sotto pelle.

Visto al Teatro Rasi, Ravenna

Maddalena Peluso

Rumore di acque nell’indifferenza

Recensione a Rumore di acqueTeatro delle Albe

foto di Claire Pasquier

2917 è un ragazzino dalla pelle nera. 1111 è Jasmine da Tunisi. E il 3455 o il 3999? E invece il numero 77? No, il 77 non è riferito a qualcuno di «questi qua che magari stanno ancora sugli alberi»; quel numero così “basso” è la somma di corpi sfracellati, frantumati da un ammiraglio che nel soccorrere alcuni naufraghi in mare si è dimenticato di spegnere l’elica della sua nave. Difficile poi ricomporre i pezzi quando nella profondità delle acque si ritrovano una serie di gambe o braccia di cui non si capisce a quale corpo appartengano. Difficile numerarli, difficile sommarli: soprattutto per il funzionario addetto a contare e mettere in ordine questi cadaveri. Ma alla fine sono solo 77 unità, poca cosa in mezzo a tutte le altre migliaia che continuano a fare la spola tra l’Africa e l’Europa, cercando la salvezza ma spesso trovando la morte nell’attraversare un mare «nero come la notte e blu come la paura».

Non si parla di uomini, ma di numeri, in Rumore di acque, uno spettacolo che il Teatro delle Albe inserisce all’interno del trittico Ravenna-Mazara 2010, un progetto in cui la città siciliana rappresenta una destinazione-frontiera verso cui molti aspirano per aver la possibilità di un futuro migliore. C’è ancora modo di fare un teatro politico e le Albe mostrano come. Attraversare il Mediterraneo, culla della civiltà, rappresenta l’ultima speranza a cui si aggrappa chi è sfinito dalle continue guerre civili e da condizioni di vita precarie; un viaggio che appare come una follia incomprensibile agli occhi del cinico europeo che, comodamente seduto sul divano di casa, osserva alla tv la notizia di quei gommoni, quelle navi fatiscenti stracolme di corpi scuri di pelle disperse in mezzo al mare e che proprio non capisce per che cosa questo viaggio l’abbiano fatto, in fondo «sapevano cosa rischiavano, no?». Alessandro Renda, nei panni di un generale sfrontato e pieno di sé, segue la lezione della inarrivabile maestra della compagnia ravennate Ermanna Montanari nella modulazione vocale; ed è bravissimo nell’interpretare un’ora di monologo, scritto dal regista e drammaturgo Marco Martinelli, aumentando ossessivamente quella sua tonalità rauca e creando una perfetta dissonanza con le strazianti musiche eseguite dal vivo dei Fratelli Mancuso. I diversi strumenti – violino, armonium indiano, liuto, campane e canti vicino a quelli processionali – costituiscono un tappeto sonoro che rimanda a tradizioni e culture molteplici, lontane; c’è quasi un ritorno a un substrato ancestrale, è una melodia che colpisce lo spettatore nell’intimo avvicinandolo al destino di quei numeri senza nome, colpevoli di essere nati sulla sponda sbagliata del Mediterraneo, mare che tanto ci avvicina quanto ci allontana.

foto di Claire Pasquier

Di fronte a quelle cifre sciorinate con una freddezza da brivido, tornano alla mente i deportati dei campi di concentramento nazisti: anche lì nessuna identità, ma un codice per distinguerli e metterli in ordine. Si era rinnegata questa pratica, ma la si ritrova, nel suo agghiacciante meccanismo, oggi: associandola a questi uomini che affrontano un viaggio infinito per arrivare alle coste italiane, ma che per lo più delle volte muoiono prima, senza neanche aver avvistato quella terra che loro pensavano salvifica. E noi rimaniamo a guardare. Tocca delle corde rimosse Alessandro Renda, quando esce dalla penombra e rivolgendosi al pubblico in sala crea un’ambiguità con sede nel soggetto a cui muove le sue accuse: quei pesci di cui parla con veemenza, che si mangiano tutto, quegli squali del mare che divorano volti e macellano corpi, in fin dei conti siamo noi, uomini/spettatori che con grande distacco rimaniamo in silenzio. E per un attimo avviene quello spostamento, tremendo e stritolatore: noi che guardiamo diventiamo pesci, perché alla fine nella nostra indifferenza siamo complici di quegli squali. Chiuso nell’individualismo in cui si vive, l’uomo è pronto a divorare l’altro o semplicemente a cambiar canale della tv senza alcun rimorso di fronte a quei corpi annegati e percepiti come lontani, perduti però nel mare nostrum.

Visto al Teatro Rasi, Ravenna

Carlotta Tringali

Buio. L’Avaro del Teatro delle Albe

Recensione a L’Avaro – Teatro delle Albe

L’Avaro del Teatro delle Albe, al suo debutto, al Teatro Storchi di Modena, si presenta subito con una stratificazione di finzione e di pensiero, di rappresentazione e di critica, fin ancora da prima che lo spettacolo cominci: con il pubblico in sala e le luci ancora accese dei servi di scena smontano e portano fuori quella che sembrava essere la scenografia. Lo spazio resta vuoto e buio, di un nero materico che, pur nelle rare sfumature dei verdi e dei sabbia, materializza la commedia più nera di Molière, che si pone, con questo allestimento, a fianco degli altri «antenati preferiti» del regista Marco Martinelli: Aristofane e Jarry. Fra gli elementi scenici che scompaiono, anche dei riflettori televisivi e un monitor su cui si mostra l’entrata in sala del pubblico. Avvertimento sottolineato in più modi – all’inizio e durante tutto lo spettacolo – che pone l’accento sul linguaggio, l’immaginario, il meccanismo televisivo utilizzato poi per tutta la rappresentazione e rimanda, decisamente e fin da subito, ad una sua critica a più livelli, che si fa eco in ogni scena, gesto e parola, con tanto di ripetizioni e tentativi di mettersi in luce, applausi registrati e un mega-sorpresone finale destinato a riunire una famiglia perduta tanti anni prima.

Foto di Claire Pasquier

L’Avaro è uno spettacolo che in parte si allontana dalle “reinvenzioni” precedenti del Teatro delle Albe, costituite da scritture o riscritture di Marco Martinelli ad hoc per i suoi attori: la parola – che fu di Molière e che qui è  aguzzata dalla magistrale traduzione di Cesare Garboli – rimane apparentemente intatta. Ma, calata nella gestualità sovraccarica, sembra “maltrattata” dall’interpretazione, in un meccanismo di incarnazione nell’azione del tutto originale, che trova il suo apice nella scena della discoteca, in cui ognuno sembra ballare una musica propria e in cui il testo è stravolto dalla concitazione dei gesti, dall’affanno e dal sudore. L’Avaro vive di uno sprofondamento della parola nelle persone che danno vita allo spettacolo, in linea con la ricerca delle Albe, ma anche con la creatività di Molière, che ha composto gran parte dei suoi testi per i suoi attori. E si anima di un’interpretazione corale, tutta giocata sul doppio e sull’ambizione, variopinta e caricata, che fa da contrappunto alla presenza quasi incisa dell’Arpagone affidato all’interpretazione di Ermanna Montanari. Nel corso dello spettacolo, a fianco dell’eccellente e inquietante Avaro, si mostra, ancora una volta, un lavoro d’attore capace di utilizzare, insieme, diversi registri interpretativi e che si fa gioco, post-brechtianamente, dell’immedesimazione, che pure usa, essendo tutte le azioni sviluppate su più livelli compresenti in scena, con cambi a vista e i servi che, oltre a spostare l’arredo, si occupano anche di dirigere i movimenti dei personaggi.
Arpagone – creatura nerissima che domina, concettualmente e nei fatti, tutti i personaggi e le azioni dello spettacolo, con il suo scettro-microfono a cui ognuno tenta di ambire e con i gesti minimamente incisi, come in una stampa espressionista – sembra piombato in una soap-opera americana degli anni Settanta, fra intrighi d’amore e superficialità, colpi di scena e ricatti, carta da parati a fiori e abiti pastello: unico personaggio in tutto e per tutto teatralissimo, dalla modulazione della voce alla gestualità alla efficacissima ricerca sulla mimica facciale. E, anche in questo, unica figura della, pur brutale, coerenza: sempre se stesso, tutto d’un pezzo, si mostra per quel che è, in una storia in cui tutti sono molto diversi da quel che sembrano e numerosi elementi ammiccano alla più spietata finzione televisiva.

Foto di Claire Pasquier

Il capovolgimento e la contaminazione messi in atto fra scena e platea – così come il pubblico “compare” in scena, prima che lo spettacolo cominci, questo Avaro è uno spettacolo che tenta di debordare in tutti i modi oltre il proscenio – si sviluppano lungo tutto lo spettacolo per concludersi addirittura con una fugace apparizione del regista, destinato a riportare in equilibrio l’andamento della vicenda (tanto nella realtà, quanto nello spettacolo), nei panni di Anselmo, il padre perduto di Mariana e Valerio, che possono così realizzare i loro sogni d’amore. Sconfinamenti e rispecchiamenti, reciproci e contaminati, stanno forse ad indicare – come suggerisce l’incipit delle note allo spettacolo: «Sono tanti gli Avari…» – che Arpagone, che pone il denaro davanti a tutto, terrorizzato dalla perdita dei suoi beni, rinchiuso nella sua cas(s)etta fra mille ipocrisie, non rimane sulla scena, ma si può trovare ovunque nel mondo Occidentale così ossessionato dall’avere e magari in un pezzetto di nero anche dentro ognuno di noi.

Roberta Ferraresi

Visto al Teatro Storchi di Modena.