Teatro delle Albe

Il “cambio della guardia”. Una nuova stagione del teatro di regia italiano?

Nell’ormai consueto appuntamento con lo Spettacolo dell’anno organizzato su “Doppiozero” da Massimo Marino con una serie di artisti e critici – collaboratori e non della rubrica Teatro –, Massimiliano Civica rileva come nella cartina tornasole della scena italiana che sono i Premi Ubu si sia manifestato un “cambio della guardia” nel nostro teatro di regia. I premi 2017, oltre che allo stesso Civica (miglior regia ex aequo, premiato nella stessa categoria due anni fa per Alcesti), sono andati fra gli altri ai lavori di Deflorian/Tagliarini (per le luci di Gianni Staropoli ma Il cielo non è un fondale era in finale anche come miglior spettacolo, musiche, attrici), di Roberto Latini (miglior attore, più le musiche di Gianluca Misiti, già premiate nel 2015), di Antonio Latella (miglior attore under 35 Christian La Rosa, protagonista di Pinocchio, e in finale come miglior regia, categoria in cui era stato premiato lo scorso anno con Santa Estasi).
In effetti, si manifesta un vero e proprio “cambio della guardia” rispetto agli ultimi anni. Dopo qualche tempo di riflessione più o meno condivisa, più o meno continuativa, è forse il caso di rispondere all’invito e discutere in qualche modo l’ipotesi formulata dall’artista, se possibile cercando di darle seguito. Singolare che una riflessione del genere venga, non da un critico, ma da un artista del nostro teatro (ma poi neanche tanto strano, visto che oggi come in passato i primi teorici della materia in Italia di norma sono stati gli stessi registi, come diceva Claudio Meldolesi per gli anni Quaranta e Cinquanta).

Che il “cambio” ci sia stato è fuor di dubbio, e il fenomeno è ancor più evidente se si guarda alle rose dei finalisti Ubu (Lucia Calamaro, Frosini/Timpano, Emma Dante, Silvia Calderoni, Federica Fracassi…) o alle terne e ai vincitori delle edizioni degli ultimi 2-3 anni, dove gli stessi nomi avevano già cominciato a prendere posto nella “cartina tornasole” del nuovo corso in categorie-chiave come miglior spettacolo, regia, attore, ecc.; o ancora aggiungendo altre figure vicine che si potrebbero ben inserire nel quadro, tipo quelle provenienti dalla cosiddetta “terza ondata” dei Teatri 90 (dai Motus agli ex Clandestino a Fabrizio Arcuri o Fanny & Alexander) o dalla precedente nouvelle vague degli Ottanta (dalle Albe alla Socìetas).
Però, dice Civica, è un cambiamento sì epocale, ma senza troppi “squilli di tromba” (tant’è che non ha destato particolare attenzione nel dibattito italiano sulle arti sceniche, vuoi perché la rivoluzione era già da tempo annunciata, vuoi perché l’attenzione in questo momento va ad altre e diverse questioni d’attualità). I motivi del mancato clamore possono essere tanti. Civica rileva giustamente per esempio che il passaggio di testimone preparato da anni è stato agevolato dal progressivo “abbandono del campo” da parte degli esponenti storici del nostro teatro di regia; ma anche supportato dalla fertile congiuntura con un parallelo “cambio della guardia” discriminante sia nella critica, come segnala il regista, sia – aggiungerei – nella direzione dei maggiori teatri del nostro Paese. Poi, seguendo il ragionamento, gli “squilli di tromba” sono mancati forse perché gli artisti in questione “non fanno tendenza” fra loro, creando fronti omogenei, né tantomeno in rapporto coi critici, che a differenza delle passate stagioni della ricerca in buona parte non hanno scelto di sostenerne qualcuno in particolare e nemmeno di provare a incasellarlo/i in una qualche griglia interpretativa onnicomprensiva.

Stante l’evidenza del rilievo sul “cambio della guardia”, non si tratta di discutere, consolidare o contestare l’ipotesi, quanto forse di provare a far “squillare la tromba”, seppur sottovoce o magari anche solo in parte: cioè di cominciare a scavare il fenomeno per non lasciarlo passare in sordina, come se nulla fosse, cercando di identificare il suo principio di discrimine e la sua possibile posizione nel sistema delle arti nazionale per comprendere che cambiamenti possa portare con sé – e in caso, tentare di osservarli e sostenerli. Lasciar correre senza confrontarsi su quanto sta accadendo comporta il rischio di contribuire in qualche modo a una eventuale, nuova normalizzazione (che in Italia come sappiamo è sempre dietro l’angolo); di dissipare gli sforzi compiuti finora da questi artisti per la loro crescita e consolidamento, o addirittura per un mutamento del sistema delle arti sceniche nel nostro Paese. Senza voler imporre alcuna forzatura interpretativa, critica, estetica o politica, credo che ascoltarli sia, più che importante, quasi un obbligo etico.

Per cominciare ad articolare l’ipotesi avanzata da Civica, invece che formulare di lì categorie e tendenze nuove o rinnovate che siano, si può provare a campionare alcuni interrogativi che il “cambio della guardia” può porre al teatro, più che di adesso, del futuro imminente e prossimo.
Se è vero che gli artisti in questione – che insieme ad altri andrebbero a comporre un quadro mutante e mosso di un nuovo teatro di regia – nel complesso non dimostrano significative e volute convergenze né a livello estetico, né di pratiche (anche questa è però una tradizione della regia italiana, a partire da quella “critica” in poi), qualche elemento in comune ce l’hanno – senza voler imporre nulla a nessuno né togliere alla necessaria libertà di movimento, sempre da difendere.
In realtà, vorrei azzardare – assumendomi tutti i rischi del caso – che se seguiamo il consiglio di Meldolesi e guardiamo, invece che agli esiti in forma di spettacolo, ai processi dal punto di vista dei modi produttivi, scopriamo – com’è accaduto in passato – che c’è ben più di qualche dato storico-cronachistico-biografico ad accomunare l’approccio di questi artisti. Tutti naturalmente sono impegnati – com’era in passato – in un’impresa di rinnovamento del repertorio drammaturgico, che si basi su forme auto-prodotte, sull’importazione in Italia di nuovi testi stranieri o sulla riscoperta di quelli della tradizione; buona parte viene dalla scena indipendente, con un sostegno negli anni più da parte dei festival che dal teatro ufficiale, mentre negli ultimi tempi  sono finalmente arrivati a superare i confini della produzione stabile in collaborazione con Tric e Teatri nazionali. Fra i quaranta e i cinquant’anni, con talmente tanto lavoro sulle spalle che chiamarli “nuovi” è quasi un affronto, sono artisti cresciuti per decenni nel sottobosco del teatro di ricerca lungo gli anni Novanta e Duemila e quasi tutti impegnati, oltre che nella creazione artistica, in prima linea nell’organizzazione di spazi, contesti, progetti indipendenti che potessero prima accogliere i loro lavori e poi anche le sperimentazioni di chi è venuto dopo.

Questo tutto sommato accomuna la presunta nuova stagione alla storia del teatro di regia in Italia, riformulando una cadenza e uno schema che è stato prima dei registi critici, poi di quelli del teatro di gruppo, e così via. Ma c’è forse una differenza importante da segnalare, ancora tutta in potenza e da cercare di comprendere nei suoi possibili esiti: a scavare fra le diverse esperienze, sembra che uno dei centri veri, condivisi, distintivi sia dal punto di vista etico che estetico si ritrovi a guardar bene nella centralità affidata – ovviamente secondo modi peculiari e diverse misure – al ruolo dell’attore, che diventa spesso centro irradiante del lavoro scenico (tanto della funzione registica, quanto della scrittura drammaturgica che dell’organizzazione dello spazio e dell’ambiente). “Post-regia” l’ha chiamata Marco De Marinis. È forse nell’essere-con gli attori che oggi il teatro cambia, si rinnova, supera le polarità della rappresentazione tradizionale e della sperimentazione performativa per donare agli spettatori un’esperienza ibrida, antichissima e sempre nuova. Segno ancora enigmatico ma evidente che qualcosa, in questo “cambio della guardia”, è senza dubbio mutato in profondità; una trasformazione d’ottica – forse politica prima ancora che estetica – che distingue questa generazione della regia italiana dai suoi precedenti, che – seguendo le analisi di Meldolesi – dimostravano tutto sommato una linea di continuità proprio nel mantenimento di una condizione di subalternità dell’attore.

La domanda, a questo punto, è come valorizzare e sviluppare questi dati di diversità, come portarli a innestarsi e crescere all’interno del sistema ufficiale che in tempi recenti queste figure stanno sempre più popolando; quali mutamenti potranno provocare a livello più ampio e trasversale, quali ostacoli ci saranno da affrontare, quali rischi e quali slanci; e ovviamente quali altri punti di differenza ci sono ancora da individuare, portare a emergere, interrogare.
E poi ci sarà anche da guardare, ancora una volta, in avanti: a cosa possiamo fare noi, artisti e critici venuti dopo, salutati negli anni Duemila come un’altra nouvelle vague del teatro italiano e oggi in cerca di consolidamento, insieme a loro e oltre.
È il possibile “squillo di tromba” del “cambio della guardia” che pone tutte queste – e sicuramente anche ben altre – domande, ancora tutte da trovare.

Roberta Ferraresi

All’Inferno. Con le Albe, il teatro e la città

Comincia tutto di bianco, di delicatezza e di luce l’Inferno del Teatro delle Albe: gli abiti di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, i loro saluti prima di iniziare, le parole dal primo canto della Commedia che si levano davanti alla tomba di Dante, la sera tiepida e luminosa, così come il coro inaspettato, disseminato fra il pubblico che a un certo punto risponde. Fino al suono lungo di una conchiglia che chiude e apre i diversi passaggi; la camminata rapita per le strade di una Ravenna sospesa all’imbrunire, una processione che mescola artisti, cittadini, pubblico; l’incontro con una giovanissima “Beatrice” di fronte a S. Apollinare Nuovo; l’arrivo al Teatro Rasi, segnato da un ingresso individuale, personale, con i due artisti-guida che accolgono ciascuno spettatore.

Tomba di Dante (foto Silvia Lelli)

(foto Zani-Casadio)

(foto Cesare Fabbri)

Tutto sembrerebbe fuorché un inferno. E invece, una volta giunti nel cortile del Rasi, Ermanna Montanari sale su un’alta scala, mentre di fronte c’è un grande cartello che riporta il celebre incipit scritto sulla porta infernale: “Per me si va…”. Oltre la soglia dell’edificio (che fra l’altro in passato era una chiesa e ne riporta tuttora il profilo), ce ne accorgiamo subito, ci aspetta l’Inferno. Un inferno assolutamente dantesco, con tanto di divisione in canti e gironi, con Paolo e Francesca così come Farinata degli Uberti o il conte Ugolino; eppure radicalmente contemporaneo, bruciante nella sua attualità: il primo impatto è con un gruppo di militari che affrettano l’entrata del pubblico in una saletta scura, inneggiano a saccheggi e abusi, con il loro capo che infine domanda: “Vi sembra un sogno?”. No, in effetti ad ascoltarli non lo sembra proprio: se pensiamo all’Europa in cui viviamo, dove prigionia, coercizione, violenza si fanno ogni giorno più vicini mentre si allontanano sfumati i cosiddetti diritti umani, che forse per lungo tempo abbiamo dato per scontati e acquisiti. E in questo senso nemmeno paiono sogni o visioni le scene che lo spettacolo ci riserva in seguito: fra chi vende il proprio corpo e chi mette all’asta la propria onestà; dalla corruzione alla politica agli abusi di oggi come di ieri; fino all’incontro conclusivo con Lucifero, la fisionomia di una coppia abbracciata che, ruotando come un carillon, svela poco dopo lame di un coltello puntate dall’uno alla schiena dell’altra, come se il tradimento di chi ci ama rappresentasse il peccato più grande e di gran lunga fondamentale, annidato nella vita di ciascuno di noi, spesso invisibile, insospettato, e per questo forse ancor più pericoloso. Come a dire che l’inferno – lo si intuisce in Dante, lo mostrano le Albe – non è solo domani, ma è sempre già qui. E siamo noi a fare la differenza.

(foto Silvia Lelli)

(foto Nicola Baldazzi)

Ma la prima scena non è solo l’anticamera che precede – anche fisicamente, dal punto di vista spaziale – una messinscena tradizionalmente intesa, uno “spettacolo” di sala: tutti gli spazi del Rasi sono mutati, ripensati, adattati per farsi gironi infernali. Non ci sono più le file di poltroncine, né lo spazio antistante in cui di solito ci si intrattiene, ogni luogo è trafitto da intrecci di tubi innocenti su cui stanno appollaiati i diavoli che incitano il pubblico a spostarsi da un posto all’altro; ogni angolo sembra un cantiere in divenire, fra teli, pittura e impalcature; mentre lo spettacolo dilaga ovunque – lungo le scale, negli uffici, nel foyer, fra grandi momenti d’assieme e singole figure in piccole stanze parallele. E poi tornando e ritornando in un teatro sempre nuovamente irriconoscibile, vivo, animato, dal loggione da cui ci si può brevemente affacciare per passare alla platea che è convertita anch’essa in spazio per l’azione.
Lo spettacolo dilaga in senso fisico, concreto, spaziale. E di linguaggio: deflagrando ovunque nelle voci, nei frammenti visivi, nelle scritte sui muri e nei volti che spuntano a ogni angolo; partendo dai versi danteschi per agglutinare altre parole (da Simone Weil a Ezra Pound, da Boccaccio a Pasolini); e via via all’interno di grandi, potentissime immagini.

(foto Nicola Baldazzi)

Ma non è solo questo il senso di apertura del teatro, per un progetto che si è articolato a partire da una Chiamata Pubblica – il termine è rimasto anche nel sottotitolo dello spettacolo – con cui le Albe hanno voluto coinvolgere nel processo di creazione e nella messinscena altre persone, artisti, studenti, cittadini di Ravenna e non solo: hanno risposto in 700 alla chiamata, hanno lavorato insieme (come performer, ma anche all’allestimento), ora sono tutti qui da settimane, dandosi il cambio sera per sera. Si legge nelle presentazioni del lavoro, che uno dei riferimenti è lo spettacolo medievale, quello in cui – prima che si desse qualsiasi canone di teatro modernamente inteso – la città andava in scena e i cittadini erano i protagonisti. Sono anni che Ermanna Montanari, Marco Martinelli, le Albe, similmente, mentre accolgono con cura le persone in teatro, dall’altro lato lo aprono alla città, di modo che le persone possano – non solo vederlo, conoscerlo – ma anche farlo e farlo proprio. Vedere dopo spettacolo la comunità che si è creata intorno a questo progetto, i loro rapporti, il loro stare insieme per intorno al teatro è emozionante quasi quanto la fruizione dello spettacolo.
Allora Inferno dilaga anche dall’azione dei suoi ideatori attraverso i corpi delle decine e decine di performer che, insieme agli attori delle Albe, hanno dato vita ai gironi danteschi: con il contrappunto-guida, narrativo e epico di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, si avvicendano coppie di giovani per mano nel canto V, avari e scialacquatori, una schiera urlante di Erinni, lotte corpo a corpo. Come il teatro è dappertutto, così gli attori: che stanno sopra, dietro, di lato, a fianco e di fronte agli spettatori in ogni momento. Accerchiati dal teatro, condotti a guardarlo da vicino, in certi momenti a farne concretamente parte.

Dire che Inferno è “itinerante” è dire poco (e anche per la sola parola “spettacolo” ci sarebbe qualche dubbio in termini di potenziale riduttività). Dai cori luminosi del crepuscolo alla processione condivisa, alle esplorazioni all’interno del Teatro Rasi, è un viaggio vero e proprio: per noi che lo guardiamo e viviamo qualche ora, che veniamo identificati – si legge nella presentazione – con Dante stesso; ma anche per loro che l’hanno voluto, creato e vissuto lungo settimane e mesi, e per chi vi si è avvicinato durante il processo di lavoro. L’Inferno – sia quello di Dante che quello delle Albe – è un viaggio, naturalmente – come vuole la Commedia – un viaggio in ascesa o in salita. Testimoni ne sono le decine e decine di scale che si scorgono dappertutto: dai piccoli gradini bianchi davanti alla tomba del poeta alle pareti del Rasi, dall’entrata in teatro al montacarichi che accoglie Minosse fino ad arrivare all’uscita, che è un finale di una rara potenza visiva, emotiva, umana. Al buio, una lunga scala a pioli è appoggiata a un albero enorme, secolare. Non se ne vede la fine, come a indicare il viaggio che prosegue. Intorno, l’abbraccio di un cerchio di persone, artisti, cittadini, spettatori, che guardano rapiti con il naso all’insù, per “riveder le stelle” o forse scorgere un pezzo di futuro: delle proprie vite, del progetto (che prevede altre 2 tappe sulla Commedia, nel 2019 e nel 2021) o quantomeno di quello strano stare insieme che in certi momenti riesce a essere il teatro, cosa che le Albe tante volte sono riuscite a rendere concreto e vivo, e in particolare in questo episodio.

Roberta Ferraresi

“È distante la Birmania?”. Il nuovo lavoro delle Albe

Recensione a Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi – di Teatro delle Albe

foto di Enrico Fedrigoli

foto di Enrico Fedrigoli

«È distante la Birmania? Eh? È distante?», così comincia Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, l’ultimo lavoro del Teatro delle Albe, con la regia di Marco Martinelli e protagonista – nel ruolo della politica birmana – Ermanna Montanari, in scena insieme a Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu, che assumono di volta in volta il ruolo del Coro, dei generali del regime e degli altri personaggi dello spettacolo.

Forse, la Birmania potrebbe non sembrarci poi così distante perché, seppure il testo sia strutturato in 18 capitoli che ripercorrono passo passo la vita di Aung San Suu Kyi, le questioni che solleva sembrano irradiarsi fino a toccare la nostra quotidianità. Difficile, è vero, farvi aderire i modi estremi di un regime totalitario come quello che ha governato il Myanmar negli ultimi decenni; rischioso, cadere in generalizzazioni che minacciano di snaturare la specificità di quella situazione socio-politica; però è altrettanto complicato non cedere alla tentazione di svolgere qualche pensiero a riguardo, quando si parla dei personalismi che dominano l’azione politica dei leader delle società moderne, fino a toccarne il folle narcisismo, capace di schiacciare qualsiasi prospettiva sul bene comune e sulla cosa pubblica; quando si osserva il trattamento e la considerazione delle leggi da parte di coloro che dovrebbero difenderle e invece spesso le piegano ai propri fini, a proprio piacimento; quando il silenzio e la cecità delle istituzioni internazionali di fronte ai massacri che vengono perpetrati in ogni parte del mondo è determinato dai macro-interessi della geopolitica globale e così il distacco si converte irrimediabilmente in complicità; quando gli strumenti definiti per la critica politica, come il comico e l’ironia, sono sostenuti dal potere ed edulcorati in puro intrattenimento (lo dicono un duo che in Birmania ne ha passate di tutti i colori, i Moustache Brothers, facendo riferimento ai nostri comici televisivi); quando si rimbalza continuamente fra la verità che “è”, “non è”, “non c’è”; quando, per fare un ultimo esempio, si constata come «sin che la repubblica avrà molti che hanno bisogno di essere corrotti, e pochi che possiedono i mezzi di corrompere, la libertà non sarà che un nome» (e non è una novità, Suu-Ermanna lo legge da un testo di Foscolo di fine Settecento).

foto di Enrico Fedrigoli

foto di Enrico Fedrigoli

Soprattutto, in questo spettacolo si tratta dell’operatività mediatica del nostro tempo, che agisce intorno alle figure, azioni e vicende umane, ritagliandole dal loro contesto di appartenenza e innestandole nel piatto immaginario pop capace di fare un tutt’uno dei “vip” (siano essi cartoons, cantanti, politici o qualsiasi altra cosa), astraendole rispetto alla vita reale, ai suoi sacrifici e alle sue contraddizioni, e rendendole così distanti, inavvicinabili, incommensurabili. E, in questo modo, forse finendo anche col rischio di disinnescarne il ruolo, il portato, il senso. E comunque risolvendosi nel creare uno scarto difficilmente colmabile fra l’aura sovradimensionata e astratta di quegli “eroi” e la vita comune di ognuno di noi; vien da pensare che siano scelte quasi strategiche, che implicitamente impongono l’impotenza all’uomo comune, alle sue piccole possibilità di intervento nel quotidiano, il quale, per un proprio possibile riscatto, potrebbe in questo senso soltanto fruire delle gesta mitiche e mitizzate di quei personaggi, raccontate sulle pagine di giornale e nei servizi tv. “La Giovanna d’Arco birmana” titola un’intervista di «Vanity Fair» ripresa in scena, nonostante nello spettacolo la stessa Suu si fosse dimostrata piuttosto scettica a riguardo. È la sorte che è toccata a molti, fra gli eroi del nostro tempo.

Il lavoro del Teatro delle Albe, la scrittura di Martinelli, la presenza degli attori sembrano andare in una direzione completamente diversa. Si può pensare che si guardi ai possibili “eroi” del nostro tempo e del nostro mondo (qui e nel caso recente di Pantani, leggi la recensione). Molto più semplicemente, si tratta invece di uomini e di donne e, anzi, forse addirittura di provare a forzare la loro dimensione autenticamente umana, con tutti i sacrifici, le contraddizioni, le ambiguità e le difficoltà, all’interno delle pareti strette di quelle icone che i media hanno negli anni confezionato loro addosso; di provare a scrostare la patina di quelle immagini predisposte per il consumo, per tentare di vedere cosa c’è sotto, e riscoprire l’uomo, oltre l’orizzonte mediatico che ne imprigiona l’operato.

foto di Enrico Fedrigoli

foto di Enrico Fedrigoli

Il proposito sembra svolgersi – come suggerisce Nicoletta Lupia nell’intervista a Martinelli [leggi l’intervista] – attraverso un profondo trattamento di polarità opposte e nella tessitura dei rapporti che fra di esse si innescano: la luce e l’ombra, che plasmano la scena in un altorilievo di grande matericità; la vicenda individuale di Aung San Suu Kyi e la collettività con cui si confronta, incarnati rispettivamente dalla poderosa presenza scenica di Ermanna Montanari e dalla potenza dei momenti corali cui danno vita Roberto Magnani, Alice Protti, Massimiliano Rassu; la piccola storia, intima e individuale di Suu e le grandi nervature della vicenda politica birmana, campionata e ripresa attraverso giganteschi interventi video sulle pareti della scena; la lucida oratoria dei discorsi pubblici e l’esplosione comico-critica del duo dei Moustache Brothers; il dominio della parola, il trasporto che genera, di contro all’essenzialità dell’azione, sempre segnata da una distaccata compostezza; la potenza del rap birmano e le note più dolci, a base orientaleggiante; il taglio documentario che approssima il lavoro ai territori del reportage, dell’inchiesta, del reale e la spinta onirica che lo contrappunta, attraverso le affascinanti sonorità create da Luigi Ceccarelli, le grandi maschere terribili dei Nat – spiriti vendicativi della tradizione birmana, che nello spettacolo insidiano la protagonista ma anche il suo Paese – e, più in generale, l’approccio sintetico attraverso cui sono disegnati i diversi personaggi (il volto in bianco e nero di tre scimmie “non vedo-non sento-non parlo” per gli interrogatori della polizia, qualche gesto e oggetto particolari e sottolineati per caratterizzare l’uno o l’altro generale, i fiori sempre presenti fra i capelli di Suu, in Occidente chiamata “l’orchidea di ferro”).

E così la vicenda pubblica e nota di Aung San Suu Kyi, i suoi discorsi, gli arresti, il Nobel, si arricchisce delle sue paure di bambina e dei suoi sacrifici di adulta, della sofferenza per la perdita del padre e di quella per l’impossibilità di riabbracciare la famiglia in Europa, delle costrizioni materiali e spirituali di ogni giorno; l’unicità della sua storia individuale si complica dell’apporto e del sacrificio dei suoi compagni nella lotta per la democrazia e la giustizia (rievocati ad ogni occasione nello spettacolo); i propositi politici della resistenza, infine, trascolorano anche in un forte posizionamento etico basato sul perdono, la non violenza, il dialogo, capace di travalicare qualsiasi specificazione di contesto e ogni categorizzazione rispetto a questo o l’altro partito politico, e, così, di rivolgersi al mondo. Parla di “rivoluzione spirituale” l’Aung San Suu Kyi del Teatro delle Albe, di un altro modo di pensare, di vivere, di rapportarsi all’altro, scontrandosi anche con la massima brechtiana che vorrebbe “prima il cibo, poi la morale” (è il fantasma del giovane drammaturgo d’Augusta a portarla in scena), una richiesta che si rivela molto simile a un proverbio birmano, a cui Suu risponde che l’avidità umana spesso è molto più grande dello stomaco – posizione che ribadisce il rifiuto della soddisfazione individuale a scapito del benessere collettivo, oltre a dare inoltre qualcosa da riflettere sull’intreccio delle linee brechtiane e non nella ricerca delle Albe (per esempio nella combinazione fra straniamento e coinvolgimento).

foto di Enrico Fedrigoli

foto di Enrico Fedrigoli

Lo spettacolo è scandito da 18 scene, ognuna dedicata a un evento-chiave dell’esistenza di Aung San Suu Kyi e della vicenda novecentesca della Birmania: «tutto ebbe inizio quando la piccola Suu aveva soltanto due anni […] Quando Aung San il padre di Suu il padre della Nazione venne assassinato […] Tutto ebbe inizio quando siamo troppo piccoli per ricordare, quando il nostro ricordo nella nebbia sono i racconti degli altri», così si inaugura la storia raccontata dal Teatro delle Albe, a partire dal 1947; e si sviluppa attraverso le tappe della vita di Aung San Suu Kyi, dall’infanzia segnata dall’omicidio del padre, dopo la guida della resistenza che allontanò il colonialismo britannico dal Paese; poi con l’esilio in Occidente in cui si dedica agli studi e a una nuova famiglia, il rientro in Birmania per motivi personali (la malattia della madre) e la coincidenza di questa trasferta con una delle più sanguinose rivolte della storia del Paese, quella dell’8 agosto 1988, dopo la quale Suu non tornerà più in Inghilterra; i primi discorsi pubblici, il confronto coi problemi birmani, la creazione di un movimento per la democrazia; e il racconto di una vita personale e politica trascorsa quasi interamente agli arresti domiciliari, fino alla recentissima apertura che ha visto Aung San Suu Kyi tornare in Parlamento. Ma nei 27 capitoli dello spettacolo la vicenda individuale si intreccia a quella della Birmania: la lotta contro il colonialismo spazzata via dalla riconversione della resistenza in regime totalitario, il succedersi dei generali alla guida del Paese, fra torture, censure, terrore, da quando questi venivano guidati dal consiglio degli astrologi a quando – cambiando di poco il risultato – iniziano invece a seguire quello delle società di comunicazione occidentali; una storia di massacri e di violenza, popolata di fantasmi di ogni genere (dai generali alle loro vittime) e accompagnata dal silenzio connivente delle organizzazioni internazionali e dalla cecità dei media globali.

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è uno spettacolo in cui il fascino visivo (dalle immagini ai costumi agli oggetti di scena), il tessuto sonoro avvolgente, la potenza della parola vanno a comporre un unicum inestricabile di senso e a livello estetico. E, con essi, si intreccia anche la complessità della dimensione umana e, poi, di quella politica. È un’opera di carattere ambientale, che – a questo punto si può rilevare, sia dal punto di vista tematico che scenico – spesso si spinge oltre il limite del proscenio, fuoriesce dal palco e abbraccia la platea. E, così, pare davvero che non sia poi così distante la Birmania. No, con questo spettacolo, non lo sembra affatto.

Visto e rivisto al Teatro Herberia di Rubiera (Vie Scena Contemporanea Festival) e al Teatro Rasi di Ravenna

Roberta Ferraresi

Di coppie oppositive e bontà: conversando con Marco Martinelli

Dopo il debutto durante il Festival VIE 2014, l’ultima produzione del Teatro delle Albe, Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, sarà in cartellone al Teatro Rasi di Ravenna fino al 14 dicembre. Dopo un’affollata pomeridiana domenicale, abbiamo incontrato Marco Martinelli che ci ha mostrato alcuni nodi del processo di lavoro all’origine dello spettacolo. Infine, alcune considerazioni sul mondo dei media – già protagonisti di Pantani – e sull’inattualità necessaria della bontà.

Come avete iniziato a lavorare a questo spettacolo e ricorrendo a quali fonti?

Foto di Enrico Fedrigoli

Foto di Enrico Fedrigoli

Il caso non agisce mai a caso. Eravamo in volo verso New York, io ed Ermanna, dove andavamo a fare Rumore di acque a La MaMa Theatre e, aprendo una di quelle riviste che si trovano sugli aerei, vedo il volto sorridente di Aung San Suu Kyi. Lo mostro a Ermanna e le dico: non ti assomiglia? Non avevamo mai approfondito la sua vicenda esistenziale e politica. Una volta tornati in Italia, abbiamo cominciato a leggere tutto quello che potevamo della sua vita e della storia della Birmania: sono mondi che non si possono separare. Il padre di Suu è stato anche il padre politico della Birmania, il condottiero che ha liberato la nazione dal giogo colonialista, assassinato poco più che trentenne: e il cortocircuito è fondamentale per comprendere le scelte di Aung San Suu Kyi. Sedotti dal profilo di quella “vita agli arresti”, a un certo punto abbiamo pensato che i libri, i dvd, le testimonianze che stavamo raccogliendo (da figure come Aung Naing Lin, esule birmano in Italia, Giuseppe Malpeli e Albertina Soliani dell’Associazione per l’amicizia Italia-Birmania, Paolo Pobbiati di Amnesty International), non bastavano più. Ci siamo detti: andiamo in Birmania. Spostare le gambe vuol dire spostare l’immaginazione, spostarsi dal proprio luogo abituale e vedere altro, spiazzare l’abitudine. Siamo stati là l’estate scorsa, quindici giorni tra Yangon e la Mawlamine di George Orwell [Giorni in Birmania, 1949, ndr], nel sud del Paese.
Il mio lavoro di drammaturgia è andato avanti parallelamente a queste ricerche, procedendo per lampi, per intuizioni: fin dall’inizio però mi è stato chiaro che era necessario partire dal 1947, quando Suu è una bimba di appena due anni e il padre viene assassinato. Da quel “prologo” tragico che segna tutta la vita di Aung San Suu Kyi.

Di tutta questa ricerca documentaria resta una traccia anche vertiginosa, nel testo e nelle videoproiezioni, nella drammaturgia testuale e nella regia…
Fino a giugno abbiamo raccolto. Poi, con tre quaderni zeppi di appunti, sono andato dieci giorni a Marradi, per isolarmi tra le montagne di Dino Campana, e là ho scritto il primo atto. È venuto fuori come un fiume in piena. Sentivo che per continuare a scrivere dovevo però aspettare, dovevo andare prima in Birmania, a nutrirmi di quel lontano Oriente, e così è stato. Al ritorno, mi sono nuovamente  “nascosto” a Marradi, e ho composto il secondo atto. Ma la scrittura non finisce mai a tavolino: continua sul palco durante le prove, continua con gli attori e i loro ritmi vocali, nell’interazione con le immagini, con i video, con le luci, con i suoni, tagliando, aggiungendo, correggendo. La scrittura parte a tavolino, ma poi deve attraversare la fase alchemica decisiva in cui diventa scrittura incarnata. In cui il metallo-letteratura, se ci si riesce, diventa oro di palcoscenico.

(Foto di Enrico Fedrigoli)

(Foto di Enrico Fedrigoli)

L’impressione che ho avuto leggendo, ad esempio, le note di regia era quella di una costruzione del ragionamento alla base dello spettacolo per coppie oppositive: l’interno e l’esterno, la casa e la Nazione, il silenzio e la voce. Dopo la visione, ho capito che tutto questo si coagula in una forma: la dialettica fortissima che si crea sul palco tra la luce e l’ombra. Aung San Suu Kyi cerca, spesso affannosamente, la luce e si ritrova ad affogare nel buio, nella sua solitudine, nella sua ricerca spirituale. Immagino che questa dialettica sia nata anche dal lavoro con gli attori e con il musicista Luigi Ceccarelli.
Hai compreso perfettamente il percorso alchemico di cui parlavo prima. Noi usiamo da sempre la parola “alchimia” perché restituisce il senso di un lavoro in cui differenti materiali si intrecciano, reagiscono l’uno all’altro, cozzano tra di loro per poi “sposarsi”. La responsabilità della regia è quella di portare al livello più alto e più unitario il sapere dei propri compagni, la mia autorialità registica deve esprimersi attraverso – non contro – le altre autorialità presenti sulla scena, portandole al massimo grado possibile: i balletti di Massimiliano [Rassu, ndr], la fisicità prorompente di Fagio, la potenza geometrica di Roberto [Magnani, ndr], la grazia di Alice [Protto, ndr], la sinfonia scenica incarnata con maestria da Ermanna. E non solo gli attori: lo stesso discorso vale per le musiche di Ceccarelli, le luci di Francesco Catacchio ed Enrico Isola, i video e le diapositive di Alessandro e Francesco Tedde, le scene e i costumi di Ermanna.   

C’è un’allusione, mi sembra, perturbante a Brecht. La cosa mi ha colpito perché ho studiato abbastanza il Théâtre du Soleil e prima di creare 1789 la compagnia cercò di mettere in scena Baal di Brecht. Anche voi volevate mettere in scena L’anima buona di Sezuan, non ci siete riusciti, eppure avete trovato un completamento di quel progetto in questo. Allora, forse, Brecht serpeggia, è presente, viene affermato nelle forme e negato, a tratti, in alcuni contenuti. Com’è andato questo dialogo con lui?
È un dialogo che ho da sempre… a partire dal fatto che la  mia data di nascita coincide con quella della sua morte, 14 agosto 1956. Il mio fascino per il suo teatro nasce nell’adolescenza, quando al liceo la nostra amata professoressa, Bianca Lotito, ce lo insegnava insieme a Majakovskij e ai formalisti russi. Fin da allora è stato un corpo a corpo. Per quanto mi seducesse il Brecht poeta, ne rifiutavo l’armatura ideologica, che mi pareva soffocasse molti suoi testi. Questa Vita agli arresti è anche un dialogo diretto, a lungo rimandato, in un rapporto intenso di odio-amore: il fantasma di Brecht danza con Aung San Suu Kyi sulle note di Kurt Weill, la drammaturgia nel suo andamento per capitoli certamente gli è debitrice, nel finale dello spettacolo ci sono due suoi versi – “Le fatiche delle montagne sono alle nostre spalle / Davanti a noi le fatiche delle pianure” – perfetti per suggellare il lieto fine della liberazione dalla prigionia, ma anche utili a indicare l’inizio, per Aung San Suu Kyi, di una vita politica non meno insidiosa, da donna finalmente libera. È un’eredità che sento da sempre nel nostro teatro, compresa la libertà di utilizzare diversamente il patrimonio che ci è stato consegnato. La tradizione, per non suonare autoritaria, deve saper accettare l’inevitabile, gioioso tradimento.

Un’altra questione parte da una riflessione piuttosto retorica e, di per sé, abbastanza vuota: abbiamo bisogno di eroi? Certamente abbiamo bisogno di storia, di memoria e di riflettere su come i nostri linguaggi, anche mass-mediatici, costruiscano mondi, immaginari, personalità. Mi sembra che voi, con questa operazione e con la precedente di Pantani, abbiate parlato dell’una e dell’altra cosa: di come si costruisce un eroe e di come spesso questa costruzione taccia alcuni caratteri salienti della persona e della lotta compiuta. Mi chiedevo come agite a riguardo.
Restiamo su Brecht, allora. La frase che hai citato ricorda un suo verso famoso: “Beata la terra che non ha bisogno di eroi”. Mentre lavoravamo a Vita agli arresti, mi veniva spesso in mente un’affermazione di Italo Calvino che, già negli anni Settanta, mi sembra, diceva: “In Italia, l’onestà è un vizio”. Il ritratto che noi facciamo di una Birmania dove il denaro può comprare tutto, dove la corruzione politica è dilagante, non ti sembra anche quello del nostro Paese? Se l’onestà è un vizio, allora mi dico che invece sì, abbiamo bisogno di eroi, ma intendiamoci, non di santi e santini come alibi dietro cui nascondersi, abbiamo semplicemente bisogno di una buona dose di eroismo personale e quotidiano, un eroismo terra terra. A forza di dire che non c’è bisogno di eroi, una certa cultura di sinistra ci ha tolto quel senso di responsabilità personale col quale interrogarsi ogni giorno: cosa sono disposto a fare, io, per cambiare questo mondo? E non in astratto, ma ora, davanti a queste persone, in questa situazione concreta di disagio e di sofferenza, quale prezzo sono disposto a pagare? Credo che la cosiddetta sinistra, nel nostro Paese, sia arrivata a questo punto di sfascio anche perché, pur criticando i vari Berlusconi, non ha mai disdegnato di arricchirsi come loro, non si è rivelata diversa da loro tranne che nella retorica. Essere veramente diversi? Se è questo l’obiettivo, un po’ di eroismo è necessario… coltivando il vizio dell’onestà, per esempio. Aung San Suu Kyi parla anche di “sacrificio”, altra parola tabù dalle nostre parti. Ma cosa significa? Significa provare a “fare sacro” il nostro quotidiano, a tenere la schiena dritta, a camminare eretti.

Foto di Enrico Fedrigoli

Foto di Enrico Fedrigoli

E sul ruolo dei media?
Sono spesso cannibali perché, nel momento in cui espongono le vite, in realtà le divorano. Le trasformano in specchietti per le masse-allodole, figurine che non spiegano nulla. Quella di Pantani e quella di Aung San Suu Kyi sono storie lontanissime tra loro, eppure qualcosa le lega: entrambe icone eccessive, entrambe a senso unico, una il drogato colpevole, il montone nero, l’altra la santa laica, la “Giovanna D’Arco della Birmania”, immagine che Suu stessa ha sempre coerentemente negato. I media non ci fanno capire le profondità di una esistenza, le sue luci e le sue ombre, perché debbono vendere delle superfici. Non è sempre responsabilità del singolo giornalista, è forse un sistema così più grande di noi, così sopra le nostre teste, che alla fine risulta come un Golìa da cui dobbiamo trovare il modo di difenderci. Il teatro è la nostra minuscola fionda di Davide: non possiamo contare su milioni di audience, ma in platea ci sono ancora persone che possono concedersi il lusso delle acque profonde, provare emozioni, divertirsi e commuoversi, e continuare a pensare. E torniamo al caro Brecht quando esagerava in senso opposto, quando diceva che lo spettatore deve starsene con il sigaro in bocca, con aria cinica e disposto solo a ragionare, senza farsi incantare. Possiamo invece conservare il nostro cuore, e sperimentare incanto e felicità senza abdicare al cervello? Possiamo custodirli entrambi, questi apparenti opposti? Spero di sì, da sempre noi Albe scommettiamo in tal senso.

Quello sulla bontà è un discorso inattuale?
È inattuale e rischioso, lo sapevamo fin dall’inizio: siamo sommersi dalle retoriche buoniste della pubblicità e della politica. La bontà autentica è inattuale e difficile, è sacrificio, va intesa anche in senso artaudiano, come crudeltà, come rigore verso se stessi, come auto-disciplina. L’altra faccia del buonismo è il cinismo imperturbabile per cui tutto ci scorre davanti agli occhi (massacri, guerre, corruzioni) e nulla ci sposta: “nihil novi sub sole”, e quindi avanti così. No, dobbiamo trovare una via di scampo tra questi due mostri, seguendo Rosa Luxemburg e Aung San Suu Kyi quando affermano la stessa verità in contesti storici e politici così apparentemente lontani: “cerchiamo di restare esseri umani”. È una forma di resistenza umile e paziente, altro termine che può suonare come una parolaccia in un salotto snob: la pazienza non è un contrassegno di debolezza, è al contrario la virtù dei più forti. Pazienza è saper “patire”, riuscire a passare attraverso la sofferenza mantenendo il cuore fermo, la schiena dritta.
Vedi, tutto si mescola, siamo partiti da un’opera teatrale e stiamo parlando di bellezza e di etica insieme, anch’esse intrecciate in maniera indissolubile. Anche il mondo sviluppa la sua natura migliore per via alchemica, non solo la scena.

Tutti questi discorsi, poi, si devono sedimentare in un lavoro artigianale…
Ah certo, perché se poi lo spettacolo non è bello, se non è ben fatto, e non colpisce al cuore e al cervello lo spettatore, tutte queste sono chiacchiere inutili: abbiamo fallito, se restiamo solo sul piano delle dichiarazioni di intenti. Se il teatro non arriva nel profondo della psiche, abbiamo fallito. Se non sposta l’oscurità del palco, se non la fa virare verso la luce, se non è capace di far fare allo spettatore lo stesso viaggio, faticoso e entusiasmante, che hanno fatto i suoi autori, abbiamo fallito. Basterebbe stare a casa e leggersi i libri di Aung San Suu Kyi, no?

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è stato visto al Teatro Rasi, Ravenna

Intervista a cura di Nicoletta Lupia

Per approfondire leggi:
la recensione di Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi
la recensione di Maddalena Peluso di Pantani
la recensione di Roberta Ferraresi di L’Avaro
la  recensione di Carlotta Tringali di Rumore di acque
il programma della rassegna Ravenna Viso-in-aria

Immagini e parole dai #parlamentidiaprile

parlamenti_sedieLe sedie sono poche decine, tutte diverse, disposte in circolo, per una conversazione ‘rotonda’, che rimbalza da un’estremità all’altra della sala. A prendere posto su quelli che sono doni di molti teatri d’Italia – eredità dell’installazione Chiamata Pubblica, che nel 2011 ha trasformato la piazza centrale di Santarcangelo in una platea a cielo aperto – docenti, critici, giornalisti, direttori artistici, operatori e studiosi del teatro italiano. Invitati a condividere pensieri, riflessioni, dubbi, a parlarsi, più che a parlare. Sei gli appuntamenti che Ermanna Montanari e Marco Martinelli hanno pensato per questa seconda edizione. Sei giornate per altrettante tematiche, per cinque o sei parlamentari alla volta, cui si aggiunge, per il primo anno, una rosa di giovani studiosi. Sei pomeriggi di incontri e sei serate di spettacoli, video, letture. Di questa settimana al Teatro delle Albe vogliamo restituire immagini, dalle nuvole dell’Osservatorio Fotografico, all’invasione della non-scuola per le strade di Ravenna, e parole, tramite i tweet di chi ha preso parte ai #parlamentidiaprile. Un piccolo, personalissimo storify, per raccontare, con pochi caratteri, quello che è stato e quello che resta, perché, come dice Marco Martinelli «siamo fatti di tempo di prima di adesso di dopo».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A cura di Rossella Porcheddu

Segnaliamo qui lo storify su #parlamenti di aprile curato da Matteo Brighenti 

Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola”

Manifesto non-scuola – immagine di Davide Reviati

Nel 1992, quando Ravenna Teatro era appena nata e il Teatro delle Albe si era da poco insediato al Teatro Rasi, una professoressa dell’ITIS ravennate, propose alla compagnia di fare un laboratorio con i ragazzi.
A vent’anni da quella prima esperienza di pratica teatral-pedagogica, chiamata in seguito non-scuola – termine coniato da Cristina Ventrucci, le Albe hanno deciso di allargare il “cerchio” che vede ogni anno, al termine del percorso delle non-scuole ravennati, le guide e la compagnia confrontarsi e ragionare su ciò che è stato, sulle difficoltà, sui nodi e sui momenti di esaltazione che hanno caratterizzato i singoli laboratori con gli adolescenti.
Il 21 e il 22 aprile scorsi, al cerchio si sono uniti amici, osservatori, critici, studiosi e organizzatori, chiamati a “dialogare” in Dialoghi sulla non-scuola – il titolo delle giornate di incontro – a partire da questa esperienza teatrale, per attraversarla. «Dal groviglio di nodi», Marco Martinelli ha lanciato una domanda radicale, una riflessione sulla necessità del teatro: «perché fare teatro oggi?».
Trascorsi alcuni giorni da Dialoghi, il confronto nato in quell’occasione è rimasto vivo in noi, presenti a Ravenna, anche se isolato rispetto alle tante voci di tutte le persone chiamate al Rasi. Per questo motivo è emerso il desiderio di dedicare uno spazio su Il Tamburo di Kattrin in cui far confluire le conversazioni scaturite. Nel tentativo di prolungare e restituire il colore di ciò che è stato un importante momento di confronto, abbiamo chiesto a tutti i partecipanti una breve riflessione sull’incontro, con ricordi, testimonianze, ma anche rilanci o domande e pensieri sorti a posteriori, o proprio là dove si era interrotto il discorso. Di seguito, i contributi che abbiamo finora ricevuto, nella speranza di continuare ad aggiornare lo scritto con nuove riflessioni.

Hanno partecipato: Lorenzo Donati (Altre Velocità), Nicola Villa (Asini), Mario Cubeddu (Settembre dei poeti), Carolina Carlone, Monica Francia (CorpoGiochi®A scuola), Tahar Lamri (scrittore), Laura Mariani (storica del teatro), Massimo Marino (critico teatrale), Rosita Volani, Thomas Emmenegger (Olinda), Rodolfo Sacchettini, Cristina Ventrucci (Santarcangelo ’12 ’13 ’14. Festival Internazionale del Teatro in Piazza), Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti (Stratagemmi), Elena Conti, Roberta Ferraresi, Carlotta Tringali (Il Tamburo di Kattrin), Alice Merenda Somma, Antonio Maiani, Camilla Lopez, Consuelo Battiston, Damiano Gaudenzi, Giulia Torelli, Lanfranco Vicari, Massimiliano Rassu, Matteo Cavezzali, Silvia Loddo (guide della non-scuola), Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina, Marcella Nonni, Silvia Pacciarini, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Laura Redaelli e Alessandro Renda (Teatro delle Albe)

 

Laura Mariani (storica del teatro)
Un antenato, quattro appunti, due domande

“Se io fossi uno di quei beati che voltano l’oro colla pala, vorrei spassarmi a fondare il mio teatro in un popolo nuovo, dove idee storte e sciapite di spettacoli scenici non entrarono ancora a guastare il buon senso che ogni bipede spennato porta con sé da Natura. M’educherei, p. e., una cinquantina di ragazzi arabi a cantare, poetare, recitare, dipingere, e via via. Poi un bel dì nel mio teatro marmoreo, sotto quel coperchione azzurro del cielo africano, darei a quei bedoini lo spettacolo della loro storia in dialoghi semplici” (Gustavo Modena, Il Teatro educatore, 1836).

Quando leggo questo brano a lezione Josella esclama: “Ma è il Teatro delle Albe!”
Dove nasce la forza della non scuola? Secondo me sono essenziali questi aspetti che elenco come mi vengono, senza ordine gerarchico.
Primo. Il Teatro delle Albe ha praticato una forma di autopedagogia articolata su più livelli che è durata anni: basata sul fare, sul non aver paura di sbagliare, sul continuare a studiare. Questa esperienza originaria li porta a essere ‘maestri’non convenzionali.
Secondo. Lo stretto legame della pedagogia con il lavoro artistico. Si vada a leggere l’Abbecedario della non-scuola alla voce Historia universalis: una presentazione semplice ed efficace del loro modo di lavorare sui testi, sempre, anche quando fanno gli spettacoli.
Terzo. L’interesse e l’amore per l’adolescenza. Erano appena usciti dall’adolescenza Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni quando hanno cominciato a cercare nel teatro la realizzazione dei loro sogni. Di questa energia, di questa con-fusione, di questo presente-futuro hanno bisogno anche oggi, per fare un teatro del nostro tempo.
Quarto. Il piacere. La cosa che mi ha colpito nel seguire Eresia della felicità a Santarcangelo 2011 sono stati naturalmente quegli adolescenti provenienti da tutto il mondo, quelle individualità spesso intrattabili e incomprensibili nel privato che si disciplinavano in un coro potente; ma ancor prima è stato il modo di lavorare di Marco Martinelli, la sua straordinaria professionalità e il piacere manifesto che provava nell’avvicinarli tutti e uno per volta al teatro, per un frammento di vita.

Due domande. La prima: calcolate, per favore, quanti giovani avete avvicinato al teatro in tutti questi anni? I numeri, i numeri. La seconda. Ci sono non-scolari che sono diventati attori, hanno trasformato il contagio in scelta di vita. Come è avvenuto il passaggio alla professione?

Mario Cubeddu (Settembre dei poeti)
I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti.
Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere.
Continua a leggere lo scritto di Mario Cubeddu… (vai all’articolo)

Maddalena Giovannelli (Stratagemmi)
Un cerchio di guide, critici, docenti e operatori che discute con passione, cercando di comprendere, sviscerare, analizzare il fenomeno imprendibile della non scuola. Le urla di Michela che escono dalla sala: sta cercando di tenere a bada i non-scuolini che tra poco porteranno in scena i loro Uccelli. Ermanna che racconta, con gli occhi luminosi, gli incontri con Barba e con Grotowsky davanti a un bicchiere di vino. Renda che guida un furgone per portare tutti a Lido Adriano a mangiare. I racconti dei milanesi di Olinda che vorrebbero rapire Argnani per averlo sempre all’ex Paolo Pini.
È questa, per me, la fotografia nitida dei giorni ravennati organizzati per festeggiare i 20 anni di non-scuola. Ma è anche un affresco di quello che sono le Albe, da molti anni: un mix irripetibile di ascolto, altruismo, concretezza, profonda ricerca artistica. Del resto – anche se a molto teatro italiano riesce forse difficile crederlo – Le Albe che salgono sul palco per Sterminio non sono altra cosa rispetto a quei mille e uno non-scuolini che urlano le parole di Aristofane o quelle di Büchner. Eresia della felicità di Santarcangelo resta per me una sintesi perfetta di tutto questo: in un cartellone di sperimentazioni performative, tra un pubblico iper-critico di addetti ai lavori, ecco che un’esplosione di magliette gialle ci costringe a domandarci, ancora una volta, che cos’è davvero teatro.

Francesca Serrazanetti (Stratagemmi)
Raccontare vent’anni di non-scuola sembra essere impossibile. Un incontro, nel più autentico spirito di accoglienza e confronto del Teatro delle Albe, pare il modo migliore per festeggiarli: una non-conferenza, una non-tavola rotonda, ma tante voci che si pongono domande. Interrogarsi sul passato e sul futuro della non-scuola significa interrogarsi sul senso stesso del fare teatro, almeno per come lo intendono le Albe. Un percorso che è una non-scuola quotidiana, un dare per apprendere e un non-insegnare per non-imparare ma liberare energie, alimentarle e farle crescere, contro ogni discriminazione, differenza, limitazione. Gettare un seme e poi un altro e poi un altro ancora, fino ad avere tanti epicentri che si allargano, con un dirompente effetto contagio. Per noi di “Stratagemmi” il cerchio è stato la figura che ha dato vita alla nostra esperienza redazionale: il teatro al centro e noi intorno che con diversi sguardi, punti di vista, esperienze e vissuti personali lo osserviamo e ne parliamo, come punto focale di un più ampio discorso. Forse per questo il cerchio creato dalle Albe nel ridotto del teatro Rasi è stato per me il modo più vero e autentico per fare onore a questi vent’anni e interrogarsi sul futuro della non-scuola. Un futuro in cui il cerchio sarà sempre più grande.

Massimiliano Rassu (guida non-scuola)
Provo a riportare le esperienze che ho convissuto con Marco e il Teatro delle Albe da ormai 12 anni!
Provo a partire da capo per contestualizzare in che modo e con quale percorso ci siamo incrociati quel 21 e 22 aprile.
Mio fratello Gabriele, più grande di me di 6 anni partecipava alla non-scuola dalle scuole superiori, dai primi anni Novanta. Nemmeno diecenne, vivevo le prime esperienze di spettatore affascinandomi agli “esiti” delle non-scuole alle quali partecipava, associando così quello che usualmente era inteso come “spettacolo teatrale” agli spettacoli messi in vita dai laboratori delle Albe con/dai ragazzi. Da allora ho come sentito innato il desiderio e il bisogno di giocare come facevano sulla scena, senza aver inteso a pieno tutto il messaggio che la non-scuola porta a sé; da allora ho sempre cercato la possibilità di svolgere “l’attività teatrale” nelle strutture sociali che mi si sono presentate, vuoi agli scouts, alle scuole medie …
Questa passione per il “giocare a fare” era costantemente alimentata dalla determinazione con la quale mio fratello si dedicava, riuscendo ad entrare nella prima squadra dei 12 Palotini di Marco assieme ad Alessandro Renda, Marco Magnani, Luca Fagioli, Alessandro Argnani …, appassionandomi sempre di più. Un giorno, io credo ancora per una qualche coincidenza astrale, mi sono ritrovato nella sede temporanea di Ravenna Teatro in V. Alberoni per un misterioso provino. Quel provino si rivelò – solo una volta sul posto – quello necessario al ricambio generazionale naturale dei Palotini adolescenti ed irriducibili che ormai erano cresciuti e non potevano continuare il percorso e l’esperienza de I Polacchi.
Continua a leggere lo scritto di Massimiliano Rassu…(vai all’articolo)

Consuelo Battiston (guida non-scuola)
Due parole.

Riporto una poesia di Patrizia Cavalli da PIGRE DIVINITA’ E PIGRA SORTE che per me quest’anno è stata al centro di molte riflessioni nell’ambito del progetto non-scuola a cui ho partecipato come guida.

Io so qual è la parola giusta.
Io lo so e tu non lo sai
non lo sai perchè hai paura
io lo so perchè ho il coraggio.
Non è mio questo coraggio
però è mio quando ce l’ho.

Per me è la condizione di chi si avventura di fronte ad un pubblico.
Ed è anche la presa di posizione di chi sceglie una “vita etica”, mai facile.
Che tipo di uomo voglio essere in questo mondo?
Qual’è la parola giusta?
Io non lo so.
Quel che è certo e che ci vuole coraggio.
Ma come farlo capire ai ragazzi durante la pratica delle prove, senza prediche?
Ho il compito di accogliere ma anche di chiedere il massimo impegno come guida.
Banalmente, qual’è lo strumento giusto: il bastone o la carota?
Credo entrambi, ma è complicato e sottilissimo da gestire.
Inoltre è importante premiare chi si prende più rischi e non dimenticare che il laboratorio è un’esperienza di gruppo dentro la quale ogni singolarità è importante.
Per me la gratificazione più bella è l’abbraccio collettivo finale, a conclusione del debutto.
Ripaga tutti gli sforzi e ti fa sentire parte di una comunità. Cosa rara al giorno d’oggi!

Roberto Magnani (attore del Teatro delle Albe, guida della non-scuola)
Quando abbiamo deciso di organizzare “Dialoghi sulla non-scuola” non sapevamo esattamente cosa sarebbe avvenuto. Ipotizzavamo un certo clima, avevamo voglia di sviscerare alcuni nodi-argomenti che soprattutto dopo Eresia della felicità al festival di Santarcangelo erano venuti a galla nelle nostre riflessioni interne, e sentivamo forte la necessità di aprire ulteriormente le porte (già spalancate) della non-scuola. Il dietro-le-quinte. Mostrare non solo il procedimento, il percorso e il processo creativo, ma attraverso un dialogo allargato ribadire e comprendere noi per primi il tipo di legame indissolubile e lo scambio profondo che intercorre tra la poetica e gli spettacoli del Teatro delle Albe e tutta l’attività della non-scuola (durante il secondo giorno di dialoghi questo punto è stato prima evidenziato da Sacchettini e poi reso limpido e chiaro a tutti dall’intervento di Ermanna).
Come in ogni DIALOGO che si rispetti, è stato importante la parte dell’ascolto: Ascoltare esperienze diverse come Seneghe e Milano mettersi a confronto e leggere dall’interno ciò che è stato per loro l’esperienza della non-scuola; ascoltare le nuove giovanissime guide come Max e Camilla che hanno messo in comune le loro sensazioni, il loro entusiasmo, le loro fragilità e le loro paure; ascoltare le bellissime storie di Tahar che sembrano provenire sempre da un mondo lontano nel tempo e nello spazio e invece ci parlano di noi e di quel che noi siamo qui, oggi; e infine ascoltare le mille domande e le curiosità più “tecniche” sulla scelta dei testi e delle musiche, sulla costruzione di un gruppo, sull’uso delle luci e dei costumi, sulla scelta di uno spazio piuttosto che un altro, su come si fa a decidere quale improvvisazione è meglio di un’ altra… ecc. Domande alle quali non si è data una risposta per mancanza di tempo e che in ogni caso una risposta unica e definitiva nella non-scuola non possono avere.

Matteo Cavezzali (guida non-scuola)
La cosa che più mi stupisce ogni anno della non-scuola è vedere quanta genialità repressa ci sia nei ragazzi delle superiori.
“Stai seduto e stai in silenzio”. Questo è il rigore richiesto dalla scuola. Un rigore dovuto per il metodo didattico basato sull’ascolto, un rigore doveroso in classi numerose e gestite da un solo insegnate.
“Ora alzatevi, mettete i banchi contro il muro, fate, parlate”. Questo è il rigore della non-scuola. Un rigore opposto, ma nel rispetto reciproco. “Dite quello che in classe vi fa sogghignare di nascosto, cantate quelle musiche che in classe vi passano per la testa”. La prima libertà dei ragazzi è quella di capire che possono fare quello che in aula gli è negato, anzi, non solo gli è concesso, ma diventa il loro punto di forza. L’ironia, la fisicità, la corsa e l’irruenza dell’adolescenza sono il sangue degli spettacoli. Poi viene la forma, il contenimento delle energie, per fare in modo che non vengano disperse, ma facciano parte di un corpo unico assieme a quelle dei dieci, venti, trenta compagni.
Quest’anno ho seguito due gruppi molti diversi, anche se analoghi per provenienza. Erano il gruppo del liceo scientifico A. Oriani di Ravenna e quello dell’altro liceo della città il Classico Dante Alighieri. In teoria pensavo fossero due gruppi analoghi e avevo pensato di lavorare su due testi di Shakespeare, il Macbeth e il Riccardo III. Visti i ragazzi però ho subito cambiato idea. Il gruppo del classico era composto da ragazzine timidissime e due soli ragazzi, di cui uno di prima che dimostrava la metà dei suoi anni. Con loro il lavoro è stato inizialmente impostato sul superamento del muro di timidezza e delle moltissime inibizioni e auto costrizioni che popolano la mente molto sensibile degli adolescenti. Era dunque impossibile trovare dei “personaggi” che vivessero a modo loro Shakespeare e siamo allora passati a Aristofane. Le ragazze si sono sbloccate grazie al coro, da non intendersi in senso musicale e nemmeno in senso filologicamente ripreso dalla tragedia classica, ma come reinventato da Marco Martinelli, ovvero una aggregazione di energie in un’unica potente struttura di gruppo.
Allo scientifico, invece, c’era un gruppo di scalmanati. Trenta anarchici che una volta rotti gli argini del rispetto del banco e del luogo scolastico, non ne volevano sapere di delimitare la propria estroversione. Il Macbeth si è naturalmente mutato in un Ubu (il suo alter-ego chiassoso e scomposto) e una volta che il gruppo si è formato, e ha sentito di essere divenuto veramente un gruppo (e non solo un insieme di singoli), il risultato è stato entusiasmante.


Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola” di Mario Cubeddu

I due giorni di dialogo della non-scuola il 21 e 22 aprile, organizzati dal Teatro delle Albe per i 20 anni di vita di quell’esperienza, sono stati per me uno stimolo importante di riflessione. Il ventaglio grandissimo degli argomenti, dal senso del fare teatro alle problematiche tecniche connesse al lavoro delle guide della non-scuola, hanno lasciato spazio anche al racconto dell’esperienza di Seneghe. Qui un’attività di non-scuola condotta da Roberto Magnani vive da quattro anni in simbiosi con un festival letterario, il Cabudanne de sos poetas/Settembre dei poeti. Ho avuto il piacere di testimoniare a Ravenna l’importanza che essa ha avuto per la comunità del mio paese, meno di 1900 abitanti di un borgo pastorale posto vicino alla costa centro-occidentale della Sardegna. Chiarisco che quando parlo di comunità uso questo termine col senso che ha avuto nella vita culturale e politica italiana grazie, per esempio, ad Adriano Olivetti. Uno dei luoghi in cui la sua attività intellettuale e politica ebbe importanti ripercussioni fu la Sardegna. Niente a che fare con comunità mitiche, inventate, difensive. La polis sono anche gli uomini riuniti davanti alla scena, il “cerchio condiviso in cui gli uomini, stranieri l’uno all’altro, si riconoscono”, per citare le parole di Marco Martinelli. “Morta la politica, l’educazione è diventata il campo in cui ancora la si può fare”. Una politica orientata a una crescita che è anche e anzitutto liberazione da una rete di condizionamenti culturali antichi e recenti. Nello specifico seneghese è successo che un’onda positiva arrivata a un gruppo di ragazzi attraverso il teatro si è propagata per contagio ai genitori, ai fratellini, agli anziani che vivono soli nelle case vicine. Il teatro svolge il suo compito antico: scuote, illumina, commuove, fa riflettere. Soprattutto le tantissime persone che non hanno più occasione di trovarsi tutti insieme a vedere, ascoltare, partecipare.
Nel mondo tradizionale seneghese, in buona parte perso nel passato, ma ancora pienamente vivo negli anni Sessanta, la poesia si rappresentava in piazza di fronte alla comunità riunita. Nel giorno della festa tutti i componenti della famiglia uscivano di casa con in spalla sedie e scanni di dimensioni adeguate all’età. Andavano a formare man mano una platea ordinata davanti a un palco costruito con pali e tavole, o costituito semplicemente dal carrello di un trattore. I poeti erano due, ben noti al pubblico. Veniva loro assegnato un tema e su questo si sfidavano a mostrare più intelligenza, arguzia, profondità di pensiero, prontezza nella risposta, improvvisando ottavas serradas, ottave chiuse dalla rima baciata. Per qualche anno c’è stata in paese anche una pratica molto ingenua di teatro da filodrammatici. Grande coinvolgimento e grande divertimento, ma tutto si chiudeva con l’ultimo sipario. Faceva parte della maturazione umana, intellettuale e politica di nuovi gruppi “dirigenti” che mettevano alla prova e verificavano i loro poteri. Rappresentavano davanti ai compaesani la conquista di uno status sociale diverso e del linguaggio adeguato a quella nuova condizione. Oggi le cose sono diverse. Non è più questione di assalto al cielo, ma di ri-costituzione di un tessuto umano e civile. La canzone degli FP e degli IM, portata a Seneghe l’autunno scorso dal Teatro delle Albe, è stato lo spettacolo teatrale a cui molto seneghesi assistevano per la prima volta. Il teatro porta energia, vita, gioia. A Seneghe ne abbiamo bisogna perché la nostra è una realtà in grande difficoltà da tanti punti di vista. Ma credo che da un teatro come quello visto all’opera in Eresia della felicità a Sant’Arcangelo di Romagna, dove erano presenti anche dieci ragazzi di Seneghe, possano trarre vantaggio anche altri. Lo si è visto a Venezia.

Mario Cubeddu

Rimando da “Dialoghi sulla non-scuola” di Massimiliano Rassu

Provo a riportare le esperienze che ho convissuto con Marco e il Teatro delle Albe da ormai 12 anni!
Provo a partire da capo per contestualizzare in che modo e con quale percorso ci siamo incrociati quel 21 e 22 aprile.
Mio fratello Gabriele, più grande di me di 6 anni partecipava alla non-scuola dalle scuole superiori, dai primi anni Novanta. Nemmeno diecenne, vivevo le prime esperienze di spettatore affascinandomi agli “esiti” delle non-scuole alle quali partecipava, associando così quello che usualmente era inteso come “spettacolo teatrale” agli spettacoli messi in vita dai laboratori delle Albe con/dai ragazzi. Da allora ho come sentito innato il desiderio e il bisogno di giocare come facevano sulla scena, senza aver inteso a pieno tutto il messaggio che la non-scuola porta a sé; da allora ho sempre cercato la possibilità di svolgere “l’attività teatrale” nelle strutture sociali che mi si sono presentate, vuoi agli scouts, alle scuole medie …
Questa passione per il “giocare a fare…” era costantemente alimentata dalla determinazione con la quale mio fratello si dedicava, riuscendo ad entrare nella prima squadra dei 12 Palotini di Marco assieme ad Alessandro Renda, Marco Magnani, Luca Fagioli, Alessandro Argnani …, appassionandomi sempre di più. Un giorno, io credo ancora per una qualche coincidenza astrale, mi sono ritrovato nella sede temporanea di Ravenna Teatro in V. Alberoni per un misterioso provino. Quel provino si rivelò – solo una volta sul posto – quello necessario al ricambio generazionale naturale dei Palotini adolescenti ed irriducibili che ormai erano cresciuti e non potevano continuare il percorso e l’esperienza de I Polacchi.
La previa conoscenza dello spettacolo, il mio fisico gracile, una predisposizione all’amore per quell’affascinante mondo che mi si celava davanti e qualche vago aggancio all’interno della squadra (erano diventati tutti i miei idoli e modelli non appena partecipai come spettatore alla generale de I Polacchi con tanto di funambolo…nel ’98 furono alcuni elementi che fecero sì che io entrassi nella “seconda squadra palotina”.
Ancora non avevo mai partecipato attivamente ad un laboratorio della non-scuola – a differenza di tutti gli altri “neoreclutati” – e ciò mi faceva sentire penalizzato perchè pensavo che mi potessero mancare dinamiche, concezioni, metodi che avrebbero potuto facilitarmi sulla scena. Credo che se avessi continuato ad accanirmi senza frutti in greco e latino a scuola, con le assenze che mi si sarebbero presentate a causa delle imminenti turnée, avrei di certo perso l’anno e chissà quale altra opportunità, se non fosse stato per il fatto che cambiai indirizzo scolastico entro i primi 6 mesi della 4° ginnasio. Questo mi permise di continuare ad essere in scena negli anni successivi senza mai perdere un’anno di scuola e fare anche una bella figura coi professori! (in classe mi divertiva anche interpretare appieno il ruolo di studente interessato alla lezione!)
Marco mi chiese di accompagnarlo assieme a Roberto Magnani in Francia qualche giorno prima degli spettacoli, per assistere ad un laboratorio con adolescenti del posto (poi mi resi conto che fu il primo esperimento di non-scuola all’estero ed io ero presente!). Da allora ho sempre associato il metodo che usava Marco come un processo naturale e quasi scontato per mettere in vita uno spettacolo, per farlo mettere in vita, per riconoscere la “selvatichezza” universale che ogni ragazzo ha dentro di sè ed addomesticarla al linguaggio teatrale, per massacrare i grandi classici e ricostruirli in una dimensione più vicina ai fruitori, gli studenti stessi che partecipavano prima intimoriti, poi tranquillamente a loro agio, nel gioco.
Cambiare indirizzo scolastico, scambiare il greco antico con il francese mi facilitò in quello di cui avevo bisogno: comunicare con una lingua corrente e non una morta, un doppio senso di marcia, e avere gli elementi di una comunicazione completa: mittente, ricevente, messaggio, linguaggio, feedback.
Successivamente, per necessità di alchimie che solo Marco conosce e per mia grandissima gioia, entrai in scena con altre produzioni delle Albe e parallelamente, a scuola, per un’altra coincidenza astrale, cominciavo a frequentare dalla seconda superiore, i laboratori della non-scuola. E chi era la guida assegnata alla mia scuola per i primi due anni? Marco!con lui rivisitammo Le Troiane e Donne al Parlamento. Capii un pò meglio quello che vidi anni prima, quando ero bambino e senza coscienza e in scena c’era mio fratello.
Finite le scuole superiori ho intrapreso con la squadra tecnica del Rasi, di Ravenna Teatro, un percorso che viaggia parallelamente a quello che succede in scena: quello che succede Dietro alla scena! L’apprendistato come tecnico di palcoscenico prevedeva nell’addestramento, l’affiancamento alle tante squadre della non-scuola durante il giorno del debutto al Teatro Rasi per quello che riguardava le questioni tecniche a tutti i livelli: dalla scena, alle luci, all’audio, etc… Questo mi ha permesso di imparare a conoscere – a riconoscere – anche i diversi stili che le guide e i ragazzi avevano trascorso nei periodi della costruzione dello spettacolo, i diversi approcci con le questioni tecniche, le leggere sfumature e i decisi contrasti che ogni scuola e gruppo porta con sé, i tempi di lavoro, la pazienza necessaria, gli escamotages, le dinamiche drammaturgiche, i tempi comici, i ritmi funzionali, gli effetti scenici adatti, gli elementi ricorrenti che facevano della non-scuola la non-scuola!
Mi sembrava di avere affrontato l’esperienza non-scuola da parecchi punti di vista meno che da uno: quello della Guida.
La precarietà lavorativa, conseguentemente il tempo libero da dedicare al progetto, la curiosità di affrontare e disciplinare l’energia anarchica, senza influssi scolastici teatrali di una ventina di adolescenti e qualche altra coincidenza astrale, hanno fatto sì che, ancora una volta, ancora per caso, ancora come una stupenda sorpresa, mi trovassi quest’anno a fare per la prima volta da guida per questo progetto pedagogico universale che è oggi la non-scuola, vivendo un percorso che spero di poter percorrere ancora (se le coincidenze astrali lo vorranno), facendo tesoro dell’ascolto che ho imparato ad avere, colmando quella lacuna che da molto ormai pretendeva di essere colmata, conoscendo il processo alchemico da seguire avendo elementi allo stato puro che vengono offerti tramite i ragazzi, traducendo il linguaggio dei grandi autori teatrali nel linguaggio dei ragazzi; dal linguaggio dei ragazzi, in Esperienza Teatrale.

Ecco perchè eravamo nello stesso luogo nello stesso momento, il 21 e 22 aprile dopo quel 20 aprile di esito unico ed irripetibile del percorso non-scolastico che ho vissuto per la prima volta da guida.
Vorrei raccontare, avrei da raccontare più nello specifico il processo dell’opera coi ragazzi ma non possiedo l’uso di una scrittura corrente di periodi affrontabili, credo. Manco di sintassi e correttezza grammaticale. Questo mi affligge mi intimidisce e mi inibisce.
Ho cercato di fare del mio meglio sperando di non essere stato noioso. Vi ringrazio per l’interessamento della mia esperienza, spero di essere stato d’aiuto.

Massimiliano Rassu

 

Un coro sul riso tra forma e coscienza

Homo Ridens - locandina di Rojna Bagheri

Nell’ultimo fine settimana di Santarcangelo 41, in linea con il susseguirsi di cori che hanno costituito il programma del Festival (sotto la direzione artistica di Ermanna Montanari), una pluralità di voci apre ad una riflessione attorno al riso: dall’atto inteso come reazione del singolo tanto alla Storia quanto agli accadimenti politici, culturali e sociali dell’oggi, all’azione del ridere in sé, con le sue modificazioni tonali e facciali. Ad inaugurare questo momento – così in successione come visto – è stato Teatro Sotterraneo con Homo Ridens, la nuova produzione della compagnia fiorentina che ha debuttato lo scorso giugno a Castiglioncello. Il lavoro si presenta come creazione site-specific sul tema della risata: ogni tappa rinnova lo spettacolo interagendo e confrontandosi con il precedente. Homo Ridens è un test sul pubblico, sulla sua reazione di fronte a immagini e scene crudeli e violente: fotografie di un mondo arido e povero, tragedie che conosciamo solo perché trasmesse e rese note dalla televisione; realtà così distanti o non appartenenti a questa frazione di Terra tali da scontrarsi con il cinismo e l’indifferenza dell’uomo. I quattro performer in scena ricercano – e sembrano sollecitare – questa reazione, una risata incondizionata e superficiale che dovrebbe caratterizzare le nostre vite. La provocazione lanciata da Teatro Sotterraneo è intelligente ed efficace nella messa in discussione del limite tra teatro e vita. Dal test che definisce gli spettatori come “obiettori di coscienza imperturbabili” alla sequenza in cui Sara Bonaventura sperimenta molteplici modi per morire o essere uccisa, la scena si struttura nel continuo altalenare tra ciò che potrebbe essere la realtà e ciò che invece è finzione, stiamo assistendo solo ad una rappresentazione. Ma a fare quasi da contraltare, il lavoro presenta soluzioni più semplici che fanno uso di luoghi comuni o stilemi popolari come la barzelletta sul bunga bunga (intenzionalmente non divertente!); elementi che affievoliscono la struttura drammaturgica e limitano il linguaggio poetico del gruppo pur considerando l’aspetto performativo di Homo Ridens. In questo momento storico si fa sempre più necessario lo sviluppo di un pensiero che sostituisca all’alternativa una possibilità non più circoscritta in quanto contraria ad altro ma aperta anche nella più modesta constatazione di un fatto, smettendo così di alimentare un sistema che procede secondo i concetti di giusto e sbagliato.

Ridere - foto di ©Marc Domage

Lontanissimo dal linguaggio di Teatro Sotterraneo è il lavoro dell’artista Antonia Baehr. Ridere è il titolo dello spettacolo che la coreografa e filmmaker tedesca ha presentato a Santarcangelo, portando nuovamente noi spettatori a indagare la materia “riso”. Baehr adotta un approccio totalmente tecnico, ripensa all’atto in sé liberandolo da ogni accezione relazionale e slegandolo da meccanismi di causa-effetto. Sulla scena in abito e posa da concertista, l’artista esegue una serie di partiture sulla risata (scritte per lei da suoi conoscenti) concependo questa esternazione unicamente come suono e forma. La creazione, di grande virtuosismo vocale e attoriale, può divertire l’osservatore, ma lo stimolo è involontario, non finalizzato e la performance si inserisce nel programma del Festival come a fornire un’ampia gamma di possibilità dell’atto puramente materiale, una dichiarazione poetica incisiva e a tratti ironica anche se percettivamente limitata dall’operazione di autoriflessione.
Molteplici modi per approcciarsi al riso, ai fattori che lo hanno generato e a ciò che comporta quest’espressione. Eresia della felicità è un lavoro che non tocca direttamente la tematica ma in qualche modo la possiede intrinsecamente. Una creazione a cielo aperto per Vladimir Majakovskij (come recita il sottotitolo) guidata da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari che, con il Teatro delle Albe, hanno chiamato a raccolta a Santarcangelo 200 dei giovani che hanno preso precedentemente parte a laboratori della non-scuola nei diversi paesi d’Italia e non solo (da Scampia a Mazara del Vallo, da Diol Kadd in Senegal a Rio de Janeiro in Brasile). Eresia della felicità è energia pura e semplice che non genera grasse risate ma sorrisi che il corpo non riesce a trattenere di fronte alla manifestazione di un’emozione. Eresia è incontro e confronto di culture, è amore e apertura verso l’altro: ce lo dicono le grida sincere dei ragazzi quando reclamano Caffè, un adolescente brasiliano, quale propria guida nella sequenza del Diluvio (tratta dalla scena I del Mistero Buffo di Majakovskij) in cui il rumore della pioggia viene simulato con il solo, e poetico,  movimento corale di mani e piedi, in un crescendo che porta il gesto a trasformarsi in danza; così come  il candore della voce di Egle mentre ripete «Risplendi sole nel buio, ardete stelle di notte, ghiaccio sotto di noi spezzati». Caffè, Egle, Franceschino, sono solo alcuni dei nomi dei partecipanti; Martinelli lascia che ognuno di loro si presenti al pubblico riunito – o capitato – allo Sferisterio; una scelta che a prima istanza risulta quasi eccessiva, ma che nel suo svilupparsi consente di cogliere la stratificazione culturale dell’incontro e la distanza che intercorre tra i vari ragazzi fino a rendere evidente quanto la cultura mediatica del nostro Paese influenzi la gestualità e le parole della “tribù” italiana.

Eresia della felicità - foto di Claire Pasquier

Giunti al decimo giorno di lavoro (pubblico) su Eresia, Martinelli coordina le azioni conservando tutta la freschezza di quegli adolescenti in calzoni neri e blusa gialla – come recitano i versi di Majakovskij ripetuti dai ragazzi. A noi, che finora ci siamo sentiti osservatori, viene chiesto di avvicinarci allo spazio in cui si sviluppa l’azione (come a evidenziare l’insita volontà dell’uomo a mantenere una certa distanza),  i loro occhi si rivolgono direttamente ai noi, le parole  penetrano i nostri corpi. Diveniamo testimoni di una creazione, acquisiamo un ruolo e veniamo infine chiamati a partecipare, a unirci a loro «per essere tanti, ma tanti».

Contenitore esplosivo dei temi finora affrontati è Orazi e Curiazi dell’Accademia degli Artefatti. Il dramma didattico di Bertolt Brecht recupera, con la regia di Fabrizio Arcuri, uno stato di necessità di messinscena; la battaglia tra i due gruppi è fatta di parole e racconti come a rifuggire da una violenza dalla quale siamo mediaticamente anestetizzati, è uno scontro in cui si procede grazie alla corruzione e all’astuzia, lasciando risuonare ininterrottamente un sottofondo sullo stato di azzeramento di ideologia (di sinistra) che domina a questi tempi e alla quale sappiamo rispondere unicamente con una risata. Ma che cosa c’è da ridere? A battaglia chiusa una voce fuoricampo spezza il divertimento, interrompe la nostra fuga verso una vittoria, un correre che non può portare da alcuna parte. «La vita, la morte, tutto senza motivo…  E si ride. Perché abbiamo così paura di stare seri? Stiamo seri, guardiamoci in faccia. Basta ridere».

Visto a Santarcangelo 41, Festival Internazionale del Teatro in Piazza

Elena Conti