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Titus, le consunzioni della vendetta

Recensione a Titus / Studio sulle radici – Piccola Compagnia della Magnolia

foto di Riccardo Polignieri

Radiografia su moti interiori. Ripescaggio in superficie degli abissini resoconti, viscerali, alimentati come feti portati in grembo. Eco da pozzi profondi dell’io incarnati senza maschera. È il teatro. O un certo tipo di fare teatro. Di sicuro, la Piccola compagnia della Magnolia, fa parlare di sé per l’imponenza scenica con la quale nutre questa attitudine teatrale. Indagando l’individuo e le sue metamorfosi da essere pensante, senziente, provvisto d’anima, catapultandolo sulle tavole del palco come bestia feroce poco prima in gabbia.

Lo spettacolo Titus / Studio sulle radici ispirato a Titus Andronicus di Shakespeare, andato in scena al Teatro Elicantropo nel cuore verace e magico della Napoli popolare, è la terza creazione della trilogia dell’individuo messa su dalla compagnia torinese con dna mitteleuropeo. Giorgia Cerruti, regista dello spettacolo e spirito dell’ensemble, si forma teatralmente a Parigi. Delle atmosfere “bluette” della città della Senna, sono speziate le cifre stilistiche del suo comporre scenico.

Titus, ovvero il dramma della vendetta. Immaginifico di quella consunzione a nervi e muscoli conseguenza dello sbranare di questo sentimento più simile a punti di sutura su una ferita aperta che alla determinazione esistenziale. Davide Giglio, in cerone, manta imperiale (trasposta da reduce con una vestaglia in flanella) e bastone della gloria, figura il condottiero romano al quale più che gli onori in patria  toccano i commiati per le dolorose perdite di battaglia. Seguiti da delittuosi botta e risposta quali anelli di una catena che solo la morte spezza e tiene in vita… Riducente a un albero spoglio reciso delle radici. Tranciate quelle si resta mutilati. E tutto il delirio, la furia folle dell’angoscia sofferente, l’unico attore in scena la calca sulla pelle degli spettatori senza alcuna parete invisibile. Un contatto diretto, immediato, penetrante come lama su carne tenera. Claustrofobico. Tutti i corpi in platea sono mappe di dolore, parafrasando l’intercalare con cui si scandiscono i ritmi di scena preso in prestito dal bardo. Coinvolgimento osmotico. Endemico.

Si potrebbero scomodare erudite citazioni e dejavù per connotare cifra stilistica, trovate e linguaggi, studio sul personaggio, lavoro d’attore, soluzioni registiche. Ma preferiamo porre il grassetto sulla traduzione della carica emotiva strizzando l’occhio a primordiali rituali scenici dove l’energia e la fisicità dei protagonisti materializzano le sensorialità degli astanti. Grotowski con fattezze da nouvelle vague. Artaud in camicia di forza, libero solo del fraseggiare. Estetismi accennati e tratteggi funzionali all’andare di scena. Dove azione, narrazione, parola, purezza emotiva si fondono e si delimitano ombreggiando i trucchi. Dove feticci post-moderni mimati o resi evidenti sublimano strutture semantiche arcaiche.
A onore del vero, la lima non farebbe male sulla pastosità di alcune scene e toni talvolta in “loop”.
Sciocchezze, rispetto al resto. Giglio è un animale da palco. Onda d’urto. Dermica.

Visto al Teatro Elicantropo, Napoli

Emilio Nigro