Teatro Fondamenta Nuove

Incontro con Accademia degli Artefatti

Quello che si cerca è la sensazione di penetrazione fisica che confonde il proprio corpo con quello rappresentato,  al punto da da trasformare la relazione tra spettatore e attore in corpo a corpo. Non è un atto di voyeurismo ma di partecipazione e di collaborazione alla costruzione dell’identità del personaggio, perché penso che l’impossibilità latente di una interpretazione razionale di ciò che accade è lo spazio che fa nascere il desiderio che permette al personaggio di esistere.”                                                                                                                                                                           Fabrizio Arcuri

Fabrizio Arcuri e Andrea Porcheddu foto di Alvise Nicoletti

Fabrizio Arcuri e Andrea Porcheddu foto di Alvise Nicoletti

Andrea Porcheddu, critico e direttore artistico del Festival Teatri delle Mura di Padova, conduce l’incontro con Accademia Degli Artefatti, dopo lo spettacolo My Arm al Teatro Fondamenta Nuove.

« L’Accademia Degli Artefatti di Roma, che lavora da circa un ventennio, è una compagnia ancora giovane con una grande forza di rinnovarsi e presentare sempre delle strade nuove in Italia. Porta in scena Tim Crouch, autore che è esploso sulla scena contemporanea proprio con questo testo, My Arm, un monologo dalla forza dirompente, una grande vivacità di scrittura e originalità. Fabrizio Arcuri, regista e fondatore del gruppo, come sei incappato in questi testi? Come sei arrivato a Crouch, a Ravenil, autori in cui la parola e il linguaggio tornano prevalenti sulla scena e dove la presenza scenica dell’attore e l’essenzialità tornarono protagonisti.»

Fabrizio Arcuri: «La questione è sempre stata la stessa: il teatro è fatto di elementi fondamentali, l’attore, la scena, il testo. Quest’ultimo nei secoli si è declinato fino a sparire e a ricomparire in altre forme; è stato maltrattato, ridotto all’osso, è diventato scrittura scenica. Di fatto non ci si riesce a staccare da questi elementi fondamentali. Qualche anno fa siamo arrivati ad un punto del nostro percorso in cui siamo entrati in crisi perché  il teatro fatto fino a quel momento dimostrava una certa sterilità. In quel periodo ho visto un documentario su Stanislavskij, dove lui metteva in discussione il suo metodo, dichiarando che non poteva essere un metodo, perché quell’atteggiamento attoriale e quella costruzione introspettiva psicologica che lui applicava ai suoi attori, gli scaturivano dai testi di Cechov; tant’è che se lui applicava quel modello a Cechov gli restituiva una verità, ma se lo applicava ad altri testi, ad esempio l’Otello, non funzionava allo stesso modo. Questo evidentemente accadeva perché Cechov essendo un uomo del tempo di Stanislavskij aveva lo stesso bisogno, la stessa necessità e lo stesso linguaggio. Allora ho pensato  che fosse necessario  cercare quale poteva essere l’atteggiamento corretto di un attore contemporaneo che decide di mettere in scena testi contemporanei. Quindi abbiamo semplicemente iniziato una ricerca, e ci siamo imbattuti in testi come questo, come Martin Crimp, Peter Handke, che sono dei testi non di drammaturgia tradizionale, qualcuno li definisce dei post-drama: perché sono testi cha hanno bisogno d’essere agiti per essere capiti. Ed è nell’azione che si crea, che noi cerchiamo di costruire una rete di relazioni, che nel nostro caso significa anche tentare di rispondere alle domande: che significa oggi essere un attore e interpretare un personaggio, lasciandosi alle spalle la tradizione».

Quindi, Matteo Angius, qual’è il rapporto che hai con questo testo, questo personaggio non personaggio

Matteo Angius: «Credo che la parola che spiega un po’ quello che abbiamo fatto sia legittimità, una questione di leggibilità. Cosa mi legittima a fare uno spettacolo; con quale legittimità assumersi un personaggio, assumersi una credibilità. E lavorando abbiamo trovato una forma che fosse quella di credere a delle piccole relazioni, che possono essere costruite sul palco, ma per essere vere e credibili devono partire prima di tutto dalla persona, prima che dall’attore o dal personaggio. Questi sono i tre livelli su cui lavoriamo, persona, attore personaggio, e uno quando viene a teatro non può vedere solo la persona o solo il personaggio. Ed è da qui che parte il lavoro sull’attualità della replica, che è un paradosso, ma è proprio questa l’idea, far sì che la replica sia sempre attuale e non vada a riprodurre semplicemente una regia, un’interpretazione o un testo,  ma lo metta in crisi ogni sera. La realtà è che quello che abbiamo lavorato, ogni volta lo mettiamo lì in crisi e a nudo di fronte allo spettatore, è a partire da qui che si stabilisce la relazione di partecipazione. E ogni volta lo spettacolo è diverso».

Una percezione sempre diversa quindi anche da parte del pubblico. Il teatro ormai lavora sempre più sulla percezione, è una delle frontiere che si sta attraversando…

Fabrizio Arcuri: « Il termine che userei non è percezione, nel senso che ci sono due cose fondamentali, una di queste è che gli spettacoli sono per gli spettatori. Quindi, quando noi facciamo teatro, lo facciamo per degli spettatori, è uno scarto che ci è accaduto nel corso degli anni. L’altro punto è l’importanza dell’inversione di rapporto di potere. Questo tipo di lavoro, pretende che lo spettatore parta da zero, e anche l’attore che sta in scena parte da zero, quindi la storia la costruiscono insieme. Normalmente a teatro siamo abituati a vedere delle persone che sanno delle cose e ce le rovesciano addosso, qui non è così.  Questo è il ribaltamento totale, è la decisione di consegnare il potere in mano allo spettatore. Un’apertura, una frantumazione dell’opera fondamentale. Perché se l’attore che sta in scena non fa in modo che il pubblico pensi con lui, ma possa anticiparlo, allora lo spettacolo non sta in piedi. La questione principale è partire da zero e costruire un pensiero comune che sostiene il testo, che è basato quindi, sulle relazioni che si vengono a creare, ogni sera diverse, ogni sera  come la prima.»

a cura di Camilla Toso

 

Un buon gioco dura poco

Wendy Houstoun

Wendy Houstoun

Recensione della prova aperta di Wendy Houstoun

“And dancing and dancing and dancing”: sono queste le parole che continuano a girare in testa in modo ossessivo non appena usciti dal Teatro Fondamenta Nuove, dove si è tenuta una prova aperta del nuovo lavoro di Wendy Houstoun. L’eclettica inglese, che spazia dal teatro alla danza coniugando i diversi aspetti in modo divertente, passa in rassegna tutte le azioni umane che, per compiersi, si servono del corpo. Un presupposto ambizioso, come dice inizialmente la stessa coreografa, dato il tempo limitato della sua performance e l’ampia gamma di movimenti possibili; ma che riesce in un modo curioso a raggiungere l’obiettivo prefissato.

Sola sul palco, la Houstoun trova nel Mac che l’accompagna il giusto strumento interlocutore per interagire con il pubblico in sala. In silenzio, seduta davanti al computer, gli affida i suoi pensieri, lasciando chesia la tecnologia a darle voce traducendo la sua scrittura in parole. Si crea un cortocircuito pieno di humour e la performer è bravissima a reggere il gioco: lo strumento sembra non funzionare bene, ripetendo ostinatamente alcune frasi; e perfetta è la tempistica calcolata dalla Houstoun nell’intrecciare la sua voce live con quella registrata che proviene dal computer in off. È come se fosse presente una specie di alter ego sul palco che dialoga con lei ma non si riesce a vedere. Sembra di trovarsi di fronte al corrispettivo femminile del coreografo francese Jerome Bel, che ha completamente scardinato le coordinate coreutiche tradizionali: non si assiste infatti semplicemente a uno spettacolo di danza, ma a un lavoro che utilizza trasversalmente altre forme espressive, come immagini, movimento e parole.
Proiettando un video sul fondale, che richiama dei movimenti specifici eseguiti in una sequenza del tutto originale, la Houstoun inizia a leggere velocemente un elenco di azioni che appartengono all’uomo e, precisamente, al suo corpo. Alcune definizioni tornano spesso, come ‘falling’ e ‘flying’ ma è il termine ‘dancing’ che si ripropone insistentemente e chiude la lunga lista. Tra le immagini che scorrono rapidamente anche le prime foto-studio intorno al movimento umano fatte da Muybridge all’inizio del XX secolo, oppure scene cinematografiche o assurde situazioni che sembrano appartenere al gioco dei guinness dei primati. Spesso ritornano in loop i volti sorridenti di alcune donne appartenenti agli Anni ’50 che ballano, e bellissimo è l’effetto che la Houstoun riesce a creare con la sua ombra: muovendosi davanti al fondale il suo corpo entra direttamente a far parte del video in bianco e nero attraverso la sua sagoma scura. L’interazione con le immagini avviene così tramite due piani che scorrono parallelli: quello fisico, dato dal corpo reale della coreografa, e quello immaginario della sua ombra.
La nota stonata di questa prova aperta sta nella parte finale del percorso: la voice off che insistentemente fa ascoltare al pubblico in loop il termine ‘dancing’, accompagnato a un movimento della Houstoun troppo casuale e inespressivo, si rivela ripetitivo.
Se lo scopo era quello di rispedire a casa lo spettatore costringendolo a pensare a uno dei movimenti principe del corpo, quello di danzare appunto, il risultato è stato ottenuto intelligentemente. Ma lascia l’amaro in bocca, se si pensa che a tutto si è assistito meno che a uno spettacolo di danza.

Carlotta Tringali

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia


 

Col braccio alzato e lo sguardo al pubblico

Recensione di My Arm – Accademia degli Artefatti

nella foto Matteo Angius

Il personaggio è un trentenne dell’isola di Wight che racconta la sua breve vita, segnata dalla scelta di sollevare un braccio,e le conseguenti cure psichiatriche, la fama artistica, la cancrena e la morte. Nella narrazione una bambola e altri oggetti, ripresi in diretta da una videocamera, lo supportano.
L’attore è doppio: alle sue spalle un video ne proietta l’immagine muta, con la quale crea un dialogo, ed insieme costruiscono la storia per il pubblico.
La persona è Matteo Angius, perfetto in questo ruolo per il suo sguardo profondo, a tratti, infantile, che attira subito l’attenzione e le simpatie del pubblico, ed il modo di fare spigliato, un po’ strafottente, completamente a suo agio tra platea e palco.
A fargli da “spalla” Emiliano Duncan Barbieri, che accompagna il racconto, ambientato tra gli anni ’70 e gli anni ’80, con interventi musicali dei maggiori successi rock di quegli anni. Con la chitarra elettrica ed un microfono, crea pause narrative ad alto volume, offrendo, inoltre, la possibilità al suo compagno di disparate gag.

Lo spettacolo diventa così molto divertente, e la storia acquisisce veridicità perché viene costruita di fronte ai nostri occhi, ci viene raccontata con una sincerità così disarmante da non sembrare mai assurda o irreale: viene quasi voglia di alzare il braccio per fare una prova. Questo perché Fabrizio Arcuri realizza una regia completamente aperta al pubblico, e dedicata ad esso, all’interno di un panorama teatrale di ricerca che ha spesso, ultimamente, relegato gli spettatori in poche file di sedie, concedendogli il privilegio di assistere al lavoro a patto che non disturbino l’”artista all’opera”.

Assitendo a My Arm ci si sente, invece, necessari: perché la necessità di cui parlava Antonin Artaud ne Il teatro e il suo doppio non appartiene solo a chi fa teatro, ma anche a chi lo guarda. La fame di ascolto, visione, rende consapevoli che senza i nostri occhi e le nostre orecchie lo spettacolo non sarebbe stato lo stesso: la splendida sensazione di assistere ad un evento unico ed irripetibile, che, pur appartenendo per statuto al teatro, in questo caso si fa più evidente e potente.
Con una forma teatrale che predilige il contenuto, il pensiero, la parola all’estetica, l’allestimento dell’Accademia degli Artefatti offre sessanta minuti di teatro puro, essenziale ma innovativo e carico di energia che non può lasciare indifferenti.

E lo stesso Artaud, in Vivere è superare se stessi, può venirci in aiuto per capire un po’ di più l’atto di sfida del trentenne narrato da Crouch:
Bisogna fare uno sforzo per risalire il corso delle cose, e capovolgere gli eventi. Con purezza e sincerità di fronte a noi stessi… perché vivere non è seguire come pecore il corso degli eventi, nel solito tran tran di questo insieme di idee, di gusti, di percezioni, di desideri, di disgusti che confondiamo con il nostro io e dei quali siamo appagati senza cercare oltre, più lontano. Vivere è superare se stessi, mentre l’uomo non sa far altro che lasciarsi andare.


Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Silvia Gatto

Uno spettacolo fatto ad arte

Recensione di My Arm – Accademia degli Artefatti

foto di Alvise Nicoletti

foto di Alvise Nicoletti

In un silenzio che sembra portare con sé qualcosa di sacro, una vecchia pellicola proietta sul fondale del palco del Teatro Fondamenta Nuove le immagini di un bambino cicciottello, felice e senza pensieri, circondato dall’affetto famigliare. Si prova una dolce sensazione malinconica, consapevoli di vedere un frammento di un passato gioioso, di una piccola storia che non è più e che non tornerà. Ma se lo spettatore si stava già crogiolando nella tristitia è subito costretto a rimescolare le sue sensazioni: le luci si accendono e il protagonista della serata, seduto comodamente in platea, scatta in piedi chiedendo se ‘vogliamo iniziare’. Strano modo di partire per uno spettacolo. Ancora più folle se l’attore chiede direttamente agli spettatori di dar libero sfogo ai loro pensieri, creando delle associazioni con ciò che si è appena visto, e per lo più se si fa consegnare degli oggetti personali per farli diventare complementari alla scena. Tutto previsto dal testo My Arm del drammaturgo inglese Tim Crouch che, riproposto dall’impeccabile compagnia dell’Accademia degli Artefatti, lascia spiazzati e spiazza continuamente, diverte e fa sorridere rendendo partecipe il pubblico alla storia personale, e assurda, di un ragazzo trentenne morto e vivo allo stesso tempo. È infatti un brillante Matteo Angius a dare vita a questo monologo che racconta di come da bambino abbia deciso di tenere il braccio sollevato sopra la testa per poi non tirarlo più giù, incuriosendo e irritando insegnanti dapprima, facendo disperare i genitori e i medici poi, per finire con il divenire un richiesto soggetto artistico e protagonista di opere d’arte. Ma la ‘Signora oscura’ si insinua dentro quel suo braccio atrofizzato, distruggendo i suoi organi interni e portandolo lentamente alla morte: lo spettacolo così si svolge come un paradosso, dal momento che chi narra dovrebbe trovarsi già nell’aldilà. Sospeso tra verità e finzione, Matteo persona-attore-personaggio esce da se stesso, declinando la sua parte e affidandola a un pupazzetto ripreso da una telecamera live e proiettato in un piccolo schermo alle sue spalle: continuamente veste e getta i panni del protagonista, creando una situazione assurda e cercando la complicità di chi sta in sala, con sguardi e battute ad hoc. Geniale la trovata dello schermo sul fondale del regista Fabrizio Arcuri, fondatore storico della compagnia: un video registrato mostra Matteo che con la sua gestualità dialoga con il protagonista in scena, commentando in silenzio ciò che viene raccontato. L’altro da sé, presente già nel pupazzetto col braccio alzato, continua a moltiplicarsi in modo schizofrenico: sulla scena si hanno così ben tre rappresentanti dello stesso personaggio ma sempre un unico attore bravissimo a far combaciare il suo mondo fatto di parole con quello delle immagini dato dal video – curato da Lorenzo Letizia – che continua a scorrere, battendo il tempo come un metronomo. Tempo che è anche scandito dalle musiche suonate con la chitarra elettrica da Emiliano Duncan Barbieri: dei brani rock inconfondibili come Knockin’on heaven’s door, Anarchy in the UK, Smells like teen spirit riportano a degli anni specifici, accompagnando Matteo nella rievocazione di alcuni episodi della sua vita.
Lo spettacolo, che insieme ad An oak tree fa parte del progetto Ab-uso, consegna un gioiellino impeccabile, un orologio svizzero fatto ad arte che si mette in discussione ogni sera, proponendo delle continue ipotesi, creando nello spettatore uno spiazzamento in grado di mettere in crisi il suo punto di vista e confondere il piano della realtà con quello della finzione. Un teatro che sorprende e lascia piacevolmente perdere le coordinate.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Camilla Toso

Di una “malnata” poesia

Recensione di Poetry Event – Carolyn Carlson

Foto di Alvise Nicoletti

Foto di Alvise Nicoletti

La forza e la magia del gesto di Carolyn Carlson sono inconfondibili. Quando mette piede sulla scena tutti gli sguardi degli spettatori si focalizzano su quel corpo alto e ossuto, di una bellezza unica. Agile e intenso, nonostante oggi non appartenga più alla giovane ragazza che ha cambiato la storia della danza, è stato fulcro di Poetry Event, uno spettacolo unico che la coreografa e danzatrice americana, qui inoltre in veste di poetessa e calligrafa, ha creato appositamente per e nel luogo destinato ad ospitarlo. Venezia e nello specifico il Teatro Fondamenta Nuove fanno parte di quei luoghi che hanno avuto l’onore di essere stati scelti dalla Carlson come fonte di ispirazione poetica, essendo portatori di una malinconia assimilabile a quella di un poeta romantico, perché testimonianza architettonica del passato rigoglioso di una città ora “decadente”.

Martedì scorso sul palcoscenico del Teatro Fondamenta Nuove, grazie anche alla presenza del musicista e compositore Paki Zennaro e ai danzatori Simona Bucci e Luca Zampar, da anni collaboratori della Carlson, hanno preso vita i pensieri tradotti in poesia dell’artista americana, in un continuo gioco tra movimento, musica e voce.

La volontà di trasporre in gesto ciò che era stato prima di tutto pensato per essere scritto sulla carta e poi declamato, ha reso la coreografia eccessivamente didascalica, troppo legata al significato del significante, malamente espressione ridondante di corpo che solitamente agisce in modo asciutto e netto. La poesia letta e la poesia dei gesti non sono riuscite pienamente ad amalgamarsi, anzi, per la maggior parte del tempo si sono perse, sono sfuggite dalle mani dei tre danzatori che cercavano continuamente, imperterriti, di afferrarle. Di certo però non si è persa la magistrale bravura di Carolyn Carlson, capace ancora, dopo anni di esperienza, di scivolare in sviste ed errori espressivi: sintomo di una personalità che non si sente ancora arrivata, quindi umile, e continuamente alla ricerca dell’irraggiungibile forma perfetta.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Rossella Placuzzi

 

Ritorno a un passato presente

Recensione di Blue Lady – Carolyn Carlson, Tero Saarinen

Carolyn Carlson, Tero Saarinen

Carolyn Carlson, Tero Saarinen

Con il passato bisogna sempre fare i conti e, per quanto si cerchi di sfuggire alle sue braccia, arriva sempre un momento in cui riaffiora. Riappaiono ricordi, pensieri, immagini di un ieri ancora molto presente, toccante, da riprendere in mano e quindi da rigiocare, da amalgamare con un contemporaneo vivo e vissuto.

Con questo tipo di passato si è rapportata Carolyn Carlson, straordinaria danzatrice e coreografa americana, scegliendo di rivisitare il suo più importante assolo, Blue Lady (1984), adattandolo alle forme e all’espressione corporea di Tero Saarinen, favoloso ballerino, nonché suo ex allievo, con il quale condivide l’amore per la Finlandia, per il Giappone e per una danza che rende visibile l’energia invisibile.

Lo spettacolo, che ha debuttato a Civitanova Marche il 18 marzo scorso ed è poi approdato a San Marino al Teatro Nuovo di Dogana il 20 marzo, era l’espressione dell’interiorità di una donna appena diventata madre, era il frutto di un lungo lavoro su se stessi, sul proprio corpo, cercando di capirne i limiti e le possibilità. Tutto questo ha portato Carolyn Carlson ha fare un ulteriore lavoro sulla e della memoria per la rivisitazione di Blue Lady; il movimento e il corpo di Tero Saarinen costituiscono il mezzo per rievocare tale ricordo, lo strumento che permette il ritorno alla carne di un gesto affascinante. Insieme sono riusciti a rimettere in piedi questa “coreografia-mondo”, questo contenitore di gesti profondamente personali, che avendo una precisione adamantina, riesce ad arrivare a chi assiste alla performance.

Non si possono non mettere a confronto i due spettacoli, quello del 1984 e quello del 2009, poichè è nettamente visibile la differenza tecnica ed espressiva che sta alla base dei due danzatori interpreti: lei lavora sui nervi e sui muscoli trasmettendo attraverso la frantumazione del gesto un’intensità e una tensione potente ed esplosiva; lui invece rielabora la tensione del gesto attraverso la fluidità e la naturalezza del movimento. Queste diversità fanno sì che la coreografia non sia l’esatta riproposizione di qualcosa di passato, che non corrisponde più al sentire presente dell’interprete e della coreografa, ma creano qualcosa di nuovo, rielaborato sulla base dei ricordi di oggi.

La memoria e il ricordo sono inoltre riproposti dall’atmosfera visiva e sonora che viene ricreata in Blue Lady, completamente intrisa di malinconia veneziana, rievocata dalle enormi tende veneziane appese davanti al boccascena e dalla musica composta da René Aubry. Perché è proprio a Venezia che la coreografa americana aveva ideato lo spettacolo. Infatti, dal 1980 al 1984, era stata invitata dall’allora direttore del Teatro La Fenice, Italo Gomez, a creare e guidare, sul modello del GRTOP (Groupe de Recherches Théatrale de l’Opéra de Paris), un gruppo di giovani danzatori. Parte di questi in seguito ha costituito la compagnia Sosta Palmizi e offerto il primo esempio di Teatrodanza italiano.

A Venezia Carolyn Carlson è molto legata: dal 1999 al 2002 è stata direttrice del settore danza della Biennale, aprendovi l’Accademia Isola Danza, un’accademia di danza contemporanea con sede nell’isola di San Giorgio; nel 2006 ha ricevuto il Leone d’oro istituito ex novo dalla Biennale. Ed è nella città lagunare che riapproderà il 14 e 15 aprile prossimo, assieme a Simona Bucci e Paki Zennaro, con un nuovo progetto formativo: L’Oriente, visibile e invisibile, un corso intensivo di due giorni rivolto a danzatori professionisti che si terrà alla Fondazione Cini. Si esibirà inoltre il 14 aprile al Teatro Fondamenta Nuove in Poetry Event, sua performance inedita.

Visto al Teatro Nuovo di Dogana, San Marino

 

 

Una città in bilico

Recensione di WBNR: What Burns Never Returns – Ooffouro

In un viaggio di ricerca, in otto tappe, che parte dalla lontana Cina per tornarvi a conclusione dei lavori, gli Ooffouro, per la settima platform di WBNR approdano nella città lagunare, da sempre ponte tra quell’occidente nel quale il gruppo nasce  – a Cagliari – e quell’oriente che da tempo stanno scoprendo. Presentato in forma di prova aperta al Teatro Fondamenta Nuove, la coreografia di Alessandro Carboni  ha tutto l’aspetto di uno spettacolo realizzato, a lungo elaborato e di grande effetto.

Sul palco una sorta di plastico urbano, ma dall’equilibrio precario, perché i 3293 rettangoli di legno che vanno a stilizzare una città come tante, sono appoggiati in equilibrio sul pavimento, in fila, come i pezzi di un domino. Gli elementi sono raccolti in un quadrato, e sono di tre misure diverse a rappresentare la divisione del lavoro, condotto in scena da Matteo Garattoni, in tre parti.

Rettangoli piccoli, i più numerosi: il corpo si muove orizzontalmente, rasentando il pavimento. I gesti sono lentissimi, fluidi, rispettosi, ma con garbo spezza la geometria perfetta della costruzione, scansa con un braccio i tasselli per cercare uno spazio adatto a sé. Si sdraia, poi subito torna in ginocchio a osservare lo spazio, e crearsi il suo. Il corpo trova sempre nuove posizioni, e quindi ogni volta deve dar vita a un vuoto in cui creare una nuova forma. Per un attimo tenta di entrare anch’esso nella geometria rigida del plastico, con i palmi delle mani e dei piedi che divengono elementi verticali della città, ma il tentativo fallisce: la fluidità e l’energia del corpo non riescono a essere cristallizzati in una simmetria immobile. L’unica soluzione è celarsi dietro i ‘palazzi’ più alti della scenografia.

Rettangoli medi, in legno chiaro: man mano che si fa spazio tra essi, il corpo sembra ricevere una nuova spinta che lo porta verso l’alto. I movimenti si fanno un po’ meno lenti, dal chiaro sapore orientale, portandolo spesso in posizione verticale. Ogni pezzo di legno abbattuto genera in lui una coreografia sempre più articolata, viva.

Rettangoli grandi: li si sente cadere ad uno ad uno, nel buio più completo. Il risultato di questa ultima fase di ‘occupazione’ di quello spazio limitato e limitante costruito con tanta perizia è svelato solo per un istante di luce finale: il corpo è pienamente vitale, rapido, libero di muoversi, in verticale, nell’aria, ma fermo sul posto. Come se, ora che non ha più bisogno di conquistarsi uno spazio, non trovasse più la necessità di muoversi davvero. Il corpo umano diviene così pura energia, fluido vitale, ma senza direzione né condivisione: questo atto finale avviene interamente svolto dando le spalle al pubblico.  D’altronde, What Burns Never Returs: ciò che brucia non fa più ritorno. All’interno del suo percorso il corpo ha lentamente preso vita, togliendola, in qualche modo, alla struttura perfetta della costruzione, che vediamo lentamente distrutta a seguito del passaggio umano. Ma, alla fine, anche il corpo, dopo l’ultima vampata, si smaterializza.

Contribuiscono enormemente all’atmosfera di tutto il complesso lavoro coreografico le sonorità realizzate dal vivo al vibrafono da Stefano Tedesco. Lo strumento viene percosso, accarezzato con un archetto, strisciato con lime di ferro; i suoni sono campionati e immediatamente riproposti, amplificati, ripetuti. Alle note dello strumento di uniscono in un gioco di eco i colpi dei legni che cadono in scena, creando una sorta di concerto parallelo e complementare allo spettacolo di grande efficacia ed indiscussa bellezza.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

 

Muta Imago da non dimenticare

Recensione di Madeleine  Muta Imago

Una soglia da attraversare, un ricordo da cancellare, un’ombra che non si può neanche sfiorare: la prima tappa di Madeleine, ultima fatica dei Muta Imago, sembra avere tutte le carte in regola per diventare il giusto successore di Lev, spettacolo che ha consegnato il giovane gruppo romano al successo. La prova aperta di questo nuovo progetto è andata in scena al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia riuscendo a stupire con una semplicità scenica carica di intensità, seppur per una manciata di minuti.

Immersi in un’oscurità totale, crescono ansia e paura in uno spazio dove tenebra e silenzio dominano: è come se il tempo si fosse fermato, pochi istanti di buio sembrano durare un’eternità. Lentamente, al centro, prende forma una sorta di grande finestra che apre verso un ‘altrove’, verso uno spazio non definito; ma tutto rimane avvolto in un manto di nebbia che impedisce allo sguardo di scorgere qualcosa di familiare. È come l’illuminazione spettrale di cui parla Conrad in Cuore di tenebra, quel chiarore lunare che rende visibili gli aloni oscuri intorno allo stesso satellite celeste: ugualmente sul palco, attraverso questa finestra, si ha un fioco barlume, di cui non si conosce la provenienza, continuando ad essere immersi nel buio. Nel sottofondo un vento sibila, quasi impercettibilmente e attraverso un bellissimo gioco di specchi, delle immagini frammentate di un corpo femminile vengono riflesse sopra il pannello-finestra: sembra di trovarsi in un’atmosfera onirica e sognante, precaria, sospesa nel buio misterioso, a cui è impossibile accedere.

Una piccola luce si accende e il suo fascio investe solo la donna che, camminando, trascina la lampada appesa sopra di sé: sembra di essere entrati nella sua intimità, lo sguardo è concentrato su di lei, sulle sue azioni. Ma dalla quiete data dai suoi piccoli gesti quotidiani – come il vestirsi –, si ha di nuovo un ribaltamento di emozioni: il pannello-finestra diventa una porta scorrevole e confine che separa la donna da un’ombra maschile di qualcuno che sfugge, di una persona di cui non riusciamo a vedere la fisicità perché al di là di questo limen. Corpo e ombra danno vita a un inseguimento concitato, non riescono a toccarsi: la soglia quasi celaniana da attraversare, non è qui un passaggio tra un dentro e un fuori, ma tra una condizione di essere ancora e non essere più, di qualcosa che è e di ciò che è stato, di ciò che permane, ma in maniera sfocata, come un ricordo. Oltrepassare quel pannello significa addentrarsi in una oscurità enigmatica, dove piccole luci che appaiono confusamente non riescono a illuminare il buio calato di nuovo violentemente in teatro; un buio in cui la donna si immerge senza sapere dove la porterà: forse nel labirinto dei ricordi che Madeleine vorrebbe cancellare, ma su cui non ha alcun potere e che, come la figura maschile, si presentano sotto forma di ombre che sfuggono al suo controllo.

Terzo anello di una trilogia della separazione, iniziata con (a+b)³ e proseguita con Lev, Madeleine assorbe in sé le figure incontrate durante questo percorso partito nel 2006: se b trova il suo corrispettivo identitario in Lev, a si rispecchia nella protagonista, dal nome proustiano, dell’ultimo anello del progetto. Ma i due amanti separati nel primo spettacolo a causa della guerra si contrappongono: Lev attraversa tempo e spazio per cercare di recuperare una memoria che non tornerà, Madeleine tenta di lasciare i suoi ricordi al buio, illuminando solo se stessa e il suo presente.

Visto al Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

ABQ: Le meccaniche invisibili

Alessandro Carboni foto di Alvise Nicoletti

Alessandro Carboni foto di Alvise Nicoletti

Recensione di ABQ: Mechanical extention in four arithmetic operations – Ooffouro

Un uomo, un piano di sabbia, quattro metronomi e un pendolo. La prima immagine è l’assenza, un corpo ranicchiato su se stesso, illuminato dall’alto, sulla cui testa pende un peso. Poi il primo movimento, un tremito, un lento spostarsi, da movimenti minimi nasce una danza: precisa, codificata, fatta di rette e diagonali. Il pendolo inizia ad oscillare, un movimento che ricorda gli esperimenti di Focault sulla rotazione del globo terrestre. Ma a spostarsi non è la scena bensì il danzatore che delimita uno spazio in funzione del movimento del pendolo. Tutto nel silenzio più assoluto, poi si attiva il primo metronomo: si scandisce un tempo, poi un altro, poi un altro. In tutto quattro tempi sovrapposti che vanno a fare da contrappunto ai movimenti. Una scena essenziale per una danza essenziale: quella che compie Alessandro Carboni, coreografo e unico interprete di ABQ: Mechanical extention in four arithmetic operations. L’operazione è complessa, lo spettatore si ritrova a essere osservatore di un esperimento quasi scientifico, è chiaro che i movimenti sono creati in base ad un codice, che la danza si è spinta oltre la coreografia tradizionale per raggiungere ambiti non convenzionali. Ma non sappiamo a quali materie si fa riferimento, non viene data una chiave di lettura per risolvere il problema. Il risultato è un’ immagine a volte suggestiva, ma vuota; come se al quadro avessero tolto la cornice e insieme ad essa tutto il contesto storico. Perplessi i volti del pubblico all’uscita dallo spettacolo. Peccato, perché dietro questo lavoro ci sono un pensiero ed un’esperienza molto ricchi, c’è una ricerca filosofica e intelletuale molto interessante. Il lavoro coreografico infatti è basato sullo studio del testo Quad di Beckett: un algoritmo performativo per quattro interpreti, che si muovono lungo il perimetro e le diagonali di un quadrato seguendo le traiettorie stabilite da un numero limitato di variabili matematiche. Legato a questo è lo studio di pattern e sequenze di movimento di alcune danze classiche del sud dell’India. Carboni indaga in profondità la relazione tra il numero e il processo di composizione coreografica, prendendo come riferimento lo zero, e iniziando una ricerca basata sullo zero come non-numero, come entità spaziale nulla.
Uscita dallo spettacolo chiedo un foglio di sala, qualcosa che mi aiuti a decifrare, a decodificare il tutto, perché, purtroppo, i riferimenti sono molto lontani dalla cultura media di uno spettatore, anche per quanto possa essere interessato. Ci si chiede allora perché tanto studio e fatica se poi tutto questo risulta non arrivare al pubblico; la ricerca alla fin fine sembra perdersi, diventare autoriflessiva, ripiegarsi su se stessa.

Visto a Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Memorie liquide: Intervista a Claudia Sorace dei Muta Imago

Intervista a cura di Silvia Gatto, Carlotta Tringali

Claudia Sorace
Claudia Sorace

Dal 13 al 18 marzo i Muta Imago sono rimasti in residenza al Teatro Fondamenta Nuove per iniziare il nuovo progetto “Madeleine”, dopo aver presentato al pubblico veneziano “Comeacqua”.

Sulla locandina di Comeacqua l’ideazione del progetto è attribuita a 6 persone. Ci spieghi meglio come avviene il vostro processo creativo e la composizione del gruppo.

Il progetto e la regia sono miei, la drammaturgia è di Riccardo Fazi: ideazione di gruppo significa che c’è un processo di improvvisazione che prevede una partecipazione attiva e propositiva di tutte le persone coinvolte. Si arriva a una definizione del lavoro attraverso un progressivo avvicinamento alle tesi che sono state poste alla base del progetto, e che devono essere confermate dal prodotto finale. Non è un modo a mio parere vecchio di concepire la regia come “vigile urbano” – ovvero imponendomi nei confronti degli altri con indicazioni indiscutibili.
C’è l’idea di sfruttare la creatività di ognuno utilizzando una divisione del lavoro ben precisa; non siamo infatti un collettivo – di cui ho una grande paura – ma, al contrario, un gruppo strutturato e per questo la strada da seguire viene indicata in partenza. 
È qualcosa forse ancora difficile da capire. Nella danza si usa molto di più questo processo, c’è un coreografo ma la partecipazione alla creazione da parte dei ballerini è diversa, chi sta in scena si assume la responsabilità di quello che sta facendo. In questo senso c’è un lavoro di gruppo. Allo stesso modo, i miei attori sono qualcuno su cui fare un lavoro per far scaturire delle proposte che siano inerenti a una strada che sia già data.
Comeacqua, essendo il primo lavoro, è il più estremo e il meno strutturato. La creazione è stata molto stratificata negli anni ed è per questo che nel cartellone l’ideazione è attribuita a un gruppo piuttosto numeroso; lo spettacolo nasce infatti anche in collaborazione con Simona Frattini e Fabio Ghidoni, che in passato hanno fatto parte del progetto e che ora, per vari motivi, si sono allontanati dalla compagnia teatrale. Ma la loro partecipazione ha lasciato delle tracce, e quindi i loro nomi rimangono perché hanno fatto parte del percorso.

E, come avete dichiarato, il percorso ha avuto inizio da una frase di Conrad…

Sì, da una frase tratta da Cuore di tenebra. È bellissimo il passo in cui l’acqua porta il protagonista sempre più dentro l’ignoto. Comeacqua è stato composto in maniera un po’ differente rispetto agli altri perché c’è una grandissima componente di suggestioni eterogenee letterarie. C’è Conrad, ci sono la Trilogia della città di K., Le città Invisibili di Calvino…

Mentre per quanto riguarda più specificatamente il processo creativo, come si è sviluppato soprattutto in rapporto con l’elemento?

All’inizio il lavoro era molto più estremo ma non ce lo hanno fatto fare. L’idea era di utilizzare tutti gli stati dell’acqua – solido, liquido, gassoso -: in scena un grosso blocco di ghiaccio che, con un fornelletto elettrico, lentamente si scioglieva andando a scivolare su una piastra bollente dalla quale evaporava. Ovviamente, per motivi di sicurezza, siamo stati bloccati.
Più in generale, soprattutto per questo lavoro, semplicemente sono stati buttati in prova tutti questi elementi: capire cosa si può fare con il ghiaccio come materiale, per esempio. Comeacqua parla anche della trasformazione della materia, questo è il suo filo conduttore, e da una parte soffre di questa continua distrazione e dall’altra è la sua ricchezza. È veramente un continuo andare e tornare, un processo che li porta a fare anche cose apparentemente inutili, forse un po’ folli, ma che hanno una verità per chi è in scena: sono tasselli fondamentali nella costruzione dello spettacolo. È un lavoro, da questo punto di vista, difficilissimo: non ci sono appuntamenti fissati, siamo tutti in ascolto, abbiamo dei riferimenti precisissimi, ma che non devono mai divenire meccanici o standardizzati, elemento che svilupperemo tantissimo negli altri lavori. Comeacqua è un po’ un nucleo iniziale. 
Il grande tentativo è quello di creare sempre corpi vivi in scena, e per far questo il movimento, le azioni non devono divenire mai meccaniche.

Ma l’effetto è quello di un gioco coreografico assolutamente perfetto, grazie proprio all’ascolto e alla complicità che si percepisce tra gli attori.

Sì, e non è coreografia, non è danza, perché non c’è la formalizzazione della coreografia, ma c’è un lavoro attoriale dietro, un lavoro sulla presenza che secondo me appartiene più al teatro che alla danza. Anche se, dato che non usiamo la parola in scena, i nostri spettacoli rientrano in automatico sotto la categoria danza.

Passiamo a Madeleine: come si inserisce nel vostro percorso artistico e, in particolare, qual è il suo legame con Lev?

Madeleine, di cui stasera vedrete un’ipotesi, una piccola prova aperta di un embrione, nasce in reazione a Lev. Tutto ha inizio con (a+b)³, perché quella storia è diventata l’inizio di un percorso che poi viene portato avanti con Lev.

C’è un piccolissimo nucleo di storia molto banale: a e b sono due amanti che vengono separati da una guerra. Poi, per caso, ho trovato un libro del fratello di Riccardo, che studia medicina, in cui si parlava di Lev Zasetky, ferito alla testa da un proiettile: l’uomo, in seguito all’incidente, ha perso completamente la memoria. Leggendo la prima pagina di questo libro ho capito che Lev era b, che non era morto in guerra, ma semplicemente aveva dimenticato, e quindi non riusciva a tornare dalla sua lei.
Per questo, allargando il tema dal plot narrativo di partenza, in Lev il vero argomento di analisi è una riflessione sulla memoria; la domanda di base è: un uomo è dato dalla somma dei suoi ricordi, oppure un uomo esiste a prescindere dal suo passato? Lev è la storia della lotta di un uomo per ricostruire se stesso. Madeleine parte invece dall’ipotesi opposta: è una donna che vuole dimenticare. C’è qualcosa di latente in lei, l’idea di qualcosa che non si può mettere a tacere; per questo ci aspetta un lungo lavoro sull’incubo, sull’aspetto onirico.
L’obiettivo è quello di approfondire l’associazione irrazionale, la possibilità di aprire la realtà e di scoprirne le sue pieghe, che spesso noi chiamiamo senza capire che sono ciò che costituisce la struttura profonda della realtà in cui viviamo.
Per ora l’idea della scena è quella della soglia, muri che chiudono uno spazio creando un dentro e un fuori. Il racconto di una pressione tra un esterno che preme e un interno che cerca di rifiutare questa intrusione. Infatti ci sono due persone in scena: non c’è solo lei, Madeleine, ma c’è anche lui, che, tra l’altro, è lo stesso attore che ha interpretato Lev: ci riallacciamo così al nostro piccolo plot. Forse tra chi vuole ricordare e chi vuole dimenticare c’è un dialogo, ci sono dei punti di contatto.

Anche Madeleine ha un testo o un passo letterario di partenza?

No, Madeleine non parte da un testo, come del resto neanche (a+b)³, anche se c’è un riferimento a Proust: soprattutto abbiamo scelto questo titolo pensando che potrebbe essere un nome adatto per un tornado, che hanno quasi sempre nomi di donna. Come Katrina, ci può essere Madeleine.
C’è la possibilità di porsi delle domande su questo personaggio, anche per lo spettatore stesso: la partecipazione può essere attiva perché Madeleine non è un personaggio già dato, lineare.

E’ un caso che colei che vuole dimenticare sia una donna e colui che vuole ricordare sia un uomo?

Forse il fatto che Madeleine sia costretta, nella quotidianità, a rapportarsi alla realtà e quindi ad agire, è una condizione più femminile. Un grande riferimento che sta uscendo nel lavoro con forza è rappresentato dalle donne in esilio, donne che sono depositarie della cultura e della tradizione, ma che devono fare i conti con la vita quotidiana e pratica; e forse, proprio per questo, hanno maggiori obblighi: la lotta della donna lontana dal suo mondo non è diretta come forse quella degli uomini, ma fatta più di resistenza. Il lavoro ci sta portando verso questa storia collettiva, a partire da quella individuale di Madeleine, che è probabilmente uno dei temi dominanti della nostra epoca, l’esilio. Un esilio che forse stiamo iniziando a vivere anche noi in prima persona.