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Aure di Teatropersona: vivono oggi le presenze del tempo perduto

Recensione a AURE – di Teatropersona

Il tempo perduto ha sempre quella qualità intimamente percepibile di evocazione, si avvale dei sensi che ne rintracciano la pensosa attiguità col presente, riportandone in luce sensazioni nascoste e che si credevano dimenticate, nella densa melassa della memoria. Non è un caso dunque che proprio attraverso le presenze – le sagome fuggevoli di vite odierne che ombreggiano vite passate – Alessandro Serra e Teatropersona compongano questo debutto di Aure, immaginato seguendo la linea proustiana di Alla ricerca del tempo perduto, ricerca letteraria tra i simboli più netti dell’intero Novecento.

Il loro intento è dunque intessere l’evocazione nello spazio che ad oggi pertiene, esprimendo quanto questa appartenga a chi ricorda, non al ricordo stesso, componendo quindi le presenze come marionette inanimate che tuttavia, d’improvviso, iniziano a seguire un percorso autonomo. Lo spazio scenico è invaso da una suggestione pittorica che rende la riconoscibilità della compagnia, quell’atmosfera di eleganza stilistica che traccia linee spesse e di colore denso, impenetrabile, tenendo fede a una capacità di comporre immagini cariche di consapevolezza significante; da tre aperture bianche nel nero diffuso, porte di una percezione sbiadita eppure viva, entrano ed escono le presenze, i corpi che restano installati in quel ricordo, almeno quanto il ricordo è in loro installato.

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L’architettura dell’interno secondo Teatropersona

Recensione a AURE – di Teatropersona

Ph. Alessandro Serra

Prosegue e si conclude con AURE la trilogia del silenzio e della memoria di Teatropersona, opera che ha debuttato a Bassano del Grappa durante B.Motion 2011 e coprodotta da Operaestate Festival Veneto. Un lavoro complesso e raffinato, in grado di aprire porte su mondi che conosciamo, ma di cui è impossibile restituire un quadro e una struttura razionali. La mente umana e la sua immensa capacità di rappresentazione – che assomigliano a quelle reali, senza tuttavia esserne una copia o un riflesso – si ergono sulla scena a protagonisti assoluti di un immaginario che non si serve di parole o racconti, ma di visioni fatte di corpi che oltrepassano l’umano. Nessuna narrazione (o perlomeno nessuna esplicita) governa quello che sul palcoscenico si trasforma in un universo intimo e personale, fatto di violenze celate e passioni dirompenti.

Come nei precedenti lavori della trilogia (Beckett box e Il trattato dei manichini) la parola regala la sua assenza per lasciare che siano gli altri elementi scenici a guidare lo spettatore in un antro che – nonostante abbia le fattezze di una stanza – si discosta dalle forme quotidiane per far scivolare il pubblico in una dimensione fatta (per dirla con le parole di Shakespeare) della stessa sostanza dei sogni e del ricordo. Alessandro Serra – regista e drammaturgo della compagnia – fa proprie le riflessioni sul tempo di cui si serve lo scrittore francese Marcel Proust ne Alla ricerca del tempo perduto, per animare lo spazio mentale in cui si muovono con disinvolta precisione e rigore Valentina Salerno, Francesco Pennacchia e Chiara Michelini, dando vita a quadri da cui si sprigionano emozioni che stringono lo spettatore in un abbraccio mai confortante. Durante lo spettacolo si sprofonda perdendo la percezione di quanto a fondo si stia andando: la potenza della rappresentazione – intendendo con questo termine la capacità di dipingere corpi in movimento, senza necessariamente tessere una fabula – si scatena in un moto verticale che crea un interessante accostamento tra una continua tensione verso il basso, l’inconscio, e il librarsi di immagini legate alla propria memoria, andando a sovrapporsi a ciò che si disegna di volta in volta sulla scena. Lo spettatore è quindi chiamato ad abbandonarsi per poter danzare con le presenze che si palesano in una stanza dai tratti ibseniani, sulla quale si aprono e chiudono bianche porte che celano segreti e a volte minacce, mai provenienti da qualcosa che sta “al di fuori”: barriere che richiamano più i meccanismi di autodifesa (la rimozione, giusto per citarne uno) che il cervello attiva per proteggerci dal passato, da noi stessi. Ed è in questa dimensione che si è chiamati a forzare i limiti che ostacolano il recupero di ciò che si pensava perduto in uno spazio e in un tempo irraggiungibili: al pari della figura austera che dispone sulla scena corpi-bambola dalle giunture scricchiolanti, fino a trovare la giusta combinazione in grado di far esplodere le mura che segregano i traumi e gli eventi rimossi, lo spettatore è spinto a ridare forma alle proprie reminiscenze. Necessari veicoli per poter suggerire al pubblico la via da percorrere, la drammaturgia gestuale e il ritmo (determinato più dall’alternanza di suono e silenzio che dalla musica in sé) ricostruiscono perfettamente le condizioni necessarie al riaffiorare del ricordo: note dolci, pause e rumori quasi strazianti si sposano perfettamente con l’apparire/scomparire – a volte improvviso, a volte suggerito – delle aure ospitate dalla scena.

La sottigliezza e l’eleganza del lavoro consiste nella maestria con cui vengono disseminati indizi e dettagli necessari non tanto a leggere l’intero spettacolo, ma a farlo proprio, innestando un’immedesimazione mai psicologica, quanto strutturale: lo spettatore è complice del processo in scena, nel momento in cui è chiamato a immergercisi per poter completare quelli che altrimenti potrebbero rimanere solamente degli splendidi squarci sul vuoto. Un invito che corre però il rischio di non essere còlto se non si abbandona la necessità di ricercare una traccia narrativa, che colleghi gli episodi che si susseguono sul palcoscenico: suggestioni ispirate alle opere di Vilhelm Hammershøi, pittore danese nelle cui rappresentazioni d’interni – dichiara Teatropersona – «il tempo fluisce come fatto luminoso» dove «tutto è al contempo immobile e vibrante». In questo ultimo capitolo, Serra dimostra ancora una volta di possedere una eccezionale abilità di plasmare la luce, al punto da farla divenire l’elemento in grado di conferire agli attori/danzatori una matericità straniante e che richiama alla mente i “corpi di vetro” delle allucinazioni del Solaris tarkovskijano. Complice l’uso di un suono mai naturalistico, capace di scatenare associazioni destabilizzanti che rimandano ad una artificiosità che – forse – si fa metafora del fare teatrale stesso.

Visto a B.Motion 2011, Bassano del Grappa

Giulia Tirelli