thom pain elio germano

Thom Pain secondo Elio Germano

Recensione a Thom Pain (Basato sul niente) – regia di Elio Germano

Nell’ampio panorama delle cosiddette nuove drammaturgie si va delineando sempre più un filone a cui molti attori e registi italiani iniziano ad attingere riscontrando anche grandi successi. Si tratta di un genere che porta in scena molte psicopatologie della società contemporanea: il singolo, la collettività, lo sradicamento dei rapporti, l’individualismo come disagio sociale.

foto di R.Baldassarre

Thom Pain, scritto dall’autore americano Will Eno, è uno di questi testi ed è stato scelto da Elio Germano per ritornare al teatro come attore e regista, dopo il successo televisivo cinematografico. Thom, il protagonista, si presenta attraverso solitudini e ossessioni. Si esibisce in un lungo discorso frammentato e discontinuo, nel quale si intravedono i brandelli di due storie – quella di un bambino che perde il suo cane (morto fulminato) e quella di un ragazzo che impazzisce per la fidanzata che lo ha lasciato. Un monologo estenuante e continuamente interrotto dallo stesso Thom che, nel ripetuto rivolgersi al pubblico con domande commenti e divagazioni, si perde nel corso dei suoi stessi pensieri. Basato sul niente, recita il sottotitolo, non vi è nulla in scena tranne l’attore, non vi è una vera e propria storia, tranne quella delle perdite e della frustrazione del personaggio. Germano è certamente un maestro nel trasmettere la nevrosi di Pain, una frenesia compulsiva che si scioglie in silenzi e sguardi, in tic ed espressioni. L’attore interviene appellandosi al pubblico, parlando dalla platea, facendo domande: tutto è scritto ovviamente, tutto è calcolato e volto a trasmettere quel fastidioso senso di inadeguatezza che perseguita il protagonista e che dovrebbe coinvolgere lo spettatore nella spirale joyceiana dei pensieri di Thom. Questo tipo di interazione ricorda molto quella di My arm dell’inglese Tim Crouch (dieci anni più giovane di Eno); il testo, pubblicato quasi contemporaneamente, ha come fuoco le vicende che accadono al personaggio dal momento in cui  – un giorno della sua infanzia – decide di alzare il braccio e di restare così per tutta la vita, in segno di protesta. Anche qui continuamente l’interprete chiama il pubblico e gli chiede di partecipare, donando oggetti personali, facendo domande aperte e aspettandosi una risposta. Anche qui tutto è calcolato, tutto è previsto, ma una differenza sostanziale separa le due opere: mentre in Crouch lo spettatore ha la netta sensazione che l’attore stia improvvisando e si aspetti una risposta agli stimoli che gli vengono posti, il testo di Eno sembra non lasciare spazio ad alcuna replica; il monologo di Pain è assolutamente introspettivo e volto alla fagocitazione di chi ascolta nel vortice di pensiero negativo che lo percorre.
Questo non ha niente a che vedere con l’interprete – Elio Germano ben sostiene questo personaggio così vero e tridimensionale – è piuttosto un gap, forse drammaturgicamente voluto, ma registicamente mal contenuto: ogni qualvolta egli si riferisce al pubblico anche con un certo slancio drammatico, dopo qualche secondo si smentisce e lo smentisce, cogliendolo in fallo. «Quando finisce l’infanzia?» (chiede Thom); esattamente quando inizia il disincanto, sembra volerci dire più e più volte. La ripetizione ciclica di battute e domande porta il personaggio in un loop che – nonostante sia costruito per stop e partenze – sbocca in un climax: mentre un finto spettatore siede in scena al suo posto, Thom/Elio di schiena, liberato dalla luce dei riflettori, si rivolge finalmente a se stesso sviscerando tutte le sue paure, riconnettendo i frammenti delle storie finora incomprensibili e tutto ad un tratto plausibili e chiare. L’attore esplode e scarica tutto il suo talento in un one-man-show che è un unico flusso di pensiero frenetico e farneticante. Germano sceglie un carattere calzante per il tipo d’attore che è, ma forse avrebbe potuto gestire in modo diverso la regia, che lascia insoddisfatti, leggermente sospesi, ancora increduli e incerti.

Visto al Teatro Universitario G. Poli, Venezia

Camilla Toso