via col vento antonio latella

Francamente me ne infischio di Latella, o dell’euforia infelice

Recensione a Francamente me ne infischio (1. Twins, 2.Atlanta, 3.Black) – di Compagnia Stabile/Mobile Antonio Latella

"1.Twins" - foto di Brunella Giolivo

“1.Twins” – foto di Brunella Giolivo

1936, Margaret Mitchell pubblica il romanzo Via col vento, che diventa immediatamente un caso: 180.000 copie vendute in quattro settimane. 1939, Victor Fleming trasforma il romanzo nel film campione di incassi, tuttora imbattuto nella storia dei botteghini degli Stati Uniti e vincitore di dieci premi Oscar. Via col vento è una porzione della storia e della cultura americane e, in quanto tale, assorbe e rifrange, amplificandoli, i limiti, le aspettative, la crudeltà e le contraddizioni di una nazione. Dopo Un tram che si chiama desiderio – altro saggio teatrale sugli Stati Uniti e la loro decadenza (leggi la recensione) –, Antonio Latella torna sul soggetto: ancora l’America, ancora Vivien Leigh, ancora uno spettacolo ispirato a un film. In un impianto scenico semplice – che vede l’allitterazione di gabbie/casine bianche, in cui si accendono grappoli di lampadine, e di bandiere a stelle e strisce che diventano siparietti, vestiti, coperte –, Latella muove i suoi personaggi sovrascrivendoli a una drammaturgia ragionatissima.
Francamente me ne infischio si articola in cinque movimenti indipendenti ma coerenti e liberamente fruibili, ai Teatri di Vita di Bologna, nel modo che si ritiene più adeguato (uno di cinque, tre di cinque, l’intera maratona): Twins, Atlanta, Black, Match e Tara. Chi ne scrive ha optato per la seconda formula.

Tre Rosselle e tutte in una sola: l’America.
Il primo episodio, Twins, ricorda la filastrocca sospirata da una bambina. La giovane Rossella (Valentina Vacca), Alice nello spaesamento delle meraviglie, abito a pois e scarpette rosse, sogna. Sogna due Bart Simpson – mascherine di paillettes –, due Marilyn – vestite di bandiera, nelle pose delle sue foto più famose –, Neil Armstrong che gioca alla conquista degli Stati Uniti, lui così fiero di aver fatto sua la Luna, e perde. Imbronciata, Rossella cerca il suo Ashley, mentre i gemelli Tarleton, in rima, le raccontano il suo stesso fallimento. E l’America scorre languida, quasi ancora docile e divertita, ma già capricciosa e irragionevole nella sua aspirazione alla grandezza (alla maturità?).

"2.Atlanta" - foto di Brunella Giolivo

“2.Atlanta” – foto di Brunella Giolivo

Il secondo movimento, è un canto funebre stonato da una vedova allegra. Rossella (Candida Nieri) è una moglie sopravvissuta a un marito mai amato, mosca che si immagina farfalla, madre senza volerlo essere, ancora monella indisponente, eppure malinconica. Ad Atlanta c’è il ballo, si finge il benessere e lei vuole essere bella, con il suo vestito verde-dollaro e il cavaliere che invita, invadente, dal pubblico. E l’America diventa una donna che finge dietro grandi occhiali alla Audrey Hepburn. Avida, cinica, lugubre, tinge di nero il suo vestito bianco di bambina in un catino di bronzo.
Black è un grido terrorizzato abbaiato da un rifiuto, una belva umana ferita divenuta incendiaria. Rossella, una straordinaria Caterina Carpio, è reietto – come l’indiana e la “serva negra” che la accompagnano –, le è stata usata violenza, le è stato dato un movente per far esplodere la sua furia. Non più infantile, ma essere umano maturato nel peggiore dei modi, sceglie la vendetta e, finalmente, fa emergere la sua anima nero-petrolio che, intravista fino a questo punto, ora tracima. Aver perso l’ingenuità, però, non vuol dire aver acquisito lucidità, anzi: la belva Rossella non ha più criteri, né valori, né affetti; la guidano solo la ricerca del suo benessere, l’espiazione delle sue colpe, il superamento del suo dolore. E l’America brucia, è a pezzi, è vulnerabile, eppure fa la voce grossa, si impone, pistola alla mano, sulle minoranze della sua Storia e prevale.

"3.Black" - foto di Brunella Giolivo

“3.Black” – foto di Brunella Giolivo

Non è difficile riconoscere i segni disseminati sul palcoscenico di Francamente me ne infischio da Antonio Latella, non lo è leggerli: il ritratto degli Stati Uniti è fin troppo esplicito, a volte, volutamente puerile, spesso paradossale, eccessivo, come la nazione stessa. E il fatto che Rossella se ne faccia metafora è manifesto. Ma ciò che veramente sconvolge, l’asse portante sul quale si avvita l’intero spettacolo, dal delineamento dei personaggi a quello della protagonista – ancora una volta, l’America –, è la drammaturgia. L’opera compiuta da Federico Bellini, Linda Dalisi e dallo stesso Latella è estremamente sottile e consapevole e prevede, oltre alle evidenti citazioni del romanzo e del film – alcune delle quali materialmente lette come didascalie –, una serie di innesti originali, come il discorso di ringraziamento dell’attrice che interpreta Mummy, vincitrice di un Oscar speciale, o le massime di grandi intellettuali di colore, in un preciso dialogo con eterogenei e originali materiali testuali all’insegna della decostruzione. Il tessuto verbale, insieme ad alcune felici soluzioni sceniche – rimane memorabile, nel terzo episodio, il cumulo di bandiere americane imbevute di Jack Daniel’s intorno alle quali, come in un sabba pop, si dimena per un tempo indefinito Caterina Carpio – sottraggono lo spettacolo alla facile accusa di parossismo di chi si domanda: non sarà troppa, tutta questa America?

Visto ai Teatri di Vita, Bologna

Nicoletta Lupia