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Viaggio in Giappone con Toshiki Okada

Recensione a Super Premium Soft Double Vanilla Rich – di Toshiki Okada

foto di Christian Kleiner

foto di Christian Kleiner

Protagonista di Super Premium Soft Double Vanilla Rich è il “conbini”, un negozio giapponese aperto 24 ore su 24. Ci si può trovare di tutto: dal cibo al collegamento a internet, dal pagamento delle tasse alla posta. Per noi, è un po’ difficile da capire, anche se i piccoli market delle grandi città si avvicinano sempre più a un’idea del genere; però in Italia l’orario di apertura resta limitato (di norma non oltre la tarda serata), così come l’offerta (che si circoscrive alle merci di consumo e non sfiora i valori istituzionali). Sono negozi di emergenza, dove si può recuperare in corner il pacchetto di sale o di pasta, una bottiglia di vino in vista di una cena improvvisata. Un’eccezione, più che un’abitudine.
In Giappone, invece, il “conbini” è un’istituzione ed è dappertutto: dà luminosità al paesaggio metropolitano notturno e attira i clienti come fossero falene, si dice nello spettacolo; è una certezza e un rifugio, anche una scusa per uscire di casa, dal proprio isolamento. E si inserisce tatticamente nelle prospettive commerciali e finanziarie del Paese, in quanto questi negozi fanno parte di catene e strutture di caratura nazionale, con le loro progettualità di marketing e di crescita: creano i loro prodotti, studiano i loro clienti, cercando in ogni modo di soddisfarne i desideri e di attirarne sempre nuovi e ulteriori. La declinazione estrema e attuale della produzione di massa (alla faccia di tutti quei pensatori che decretano, di questi tempi, la fine di quel sistema economico e sociale).
Il “conbini” è uno spiraglio attraverso cui sbirciare nella società contemporanea giapponese e – nel bel lavoro di Toshiki Okada – anche nella sua ricerca teatrale. Drammaturgo, regista, scrittore poco più che quarantenne è considerato uno degli artisti più interessanti della sua generazione. Negli anni ha costruito e diffuso attraverso il teatro una serie di allucinanti e vibranti ritratti, mai realistici o mimetici, del Giappone dei nostri tempi (non a caso il nome della sua compagnia, Chelfitsch, è una deformazione dell’inglese “selfish”); di questa cartografia vivida e amara che prova ad afferrare l’estremo Oriente post-capitalista e post-consumista nella sua quotidianità, i “conbini” sono una tappa importante.

Super Premium Soft Double Vanilla Rich si svolge tutto all’interno di uno di questi negozi. Mizutami è una commessa neo-assunta ancora piena di ideali; per questo è vessata dai due giovani colleghi, ormai abituati alla situazione: un risibile ribelle che tenta atti di auto-sabotaggio (cliccando informazioni diverse sul genere e l’età dei clienti al momento del pagamento), un altro invece convinto che può migliorare la situazione lavorando bene. La loro vita è scandita da fatti ripetitivi e vuoti: i nuovi e vecchi prodotti, le ordinazioni, l’omologazione del modo in cui dare il resto, il terrorismo interno. La loro routine è interrotta da un capo rompiscatole, dalle incursioni dell’ispettore dell’azienda che sembra un anchorman e da una varia selva di clienti, dalla ragazza sola che torna ogni notte al pseudo-sindacalista che cerca di smuoverli senza comprare nulla.

foto di Christian Kleiner

foto di Christian Kleiner

I performer si muovono felpati, quasi sospesi in un ambiente astratto, caratterizzato attraverso leggere proiezioni che fungono da scaffali, merci, cassa, eccetera, dai colori tenui, quasi evanescenti: tre rettangoli di luci sul pavimento segnano diversi scaffali, mentre quelli di fondo, a L, sono evocati tramite un tulle stampato con le figure (sarebbe meglio dire “icone”, in piena logica post-pop) delle merci che dovrebbero contenere. Le azioni sono cadenzate da una partitura fisica che attinge con curiosità alla gestualità quotidiana, la assorbe e rimastica per poi restituirla al pubblico nelle forme di una coreografia altrettanto astratta ed evanescente, che intreccia ripetizione e variazione, disequilibrio e morbidezza. Senza azzardare eresie, si potrebbe parlare di un lavoro che strizza l’occhio all’appeal della biomeccanica, inventata da Mejerchol’d a suo tempo proprio a partire dai movimenti svolti dagli operai (e capace così di portarne a emergere l’alienazione quotidiana); una biomeccanica dei consumi, che punta il dito sulla ripetitività bulimica dei nostri giorni, tanto come lavoratori quanto come utenti o clienti.

Ma Super Premium Soft Double Vanilla Rich non è uno spettacolo di danza, non solo. È tanto, e corposo, il testo che viene detto dai performer in scena. Peccato non poter assaporare più in profondità l’approccio alla dimensione della parola e della verbalità sperimentata da questo giovane scrittore che viene dall’altra parte del mondo (per via della incommensurabile distanza linguistica, comunque limitata dai sottotitoli ben fatti) e che a quanto pare è noto per un lavoro di grande rigore sulle pieghe e vertigini del linguaggio comune. Da quello che è possibile intuire, si potrebbe ipotizzare che, su questo piano, accada qualcosa di simile a quello che si è detto per la dimensione coreografica: l’eloquio sembra normale, quotidiano, ma è continuamente deformato e riformato tramite interventi vocali, che ampliano le parole, le rendono quasi cantate, le ripetono con insistenza.
Tendenza ai limiti più sulfurei dell’astrazione combinata con un deciso incardinamento nella matericità del linguaggio (corporeo, testuale, ecc.), sembra questa la cifra che si esprime in questo spettacolo firmato da Okada, che si colloca all’incrocio fra un bel pezzo di teatro-danza di ricerca e un’indagine sociologica dal retrogusto brechtiano (complice l’immediatezza con cui gli attori si rivolgono al pubblico).
La direzione sembra la medesima anche sul piano dei contenuti: ci sono situazioni classiche, comuni – i commessi che parlano male del capo, il cliente che s’incazza e l’altro che disturba, il responsabile di zona che spinge per performance sempre migliori –, ma rese surreali dall’insistenza con cui vengono proposte, dal grande trasporto emotivo con cui vengono trattati temi di banale normalità, dall’esasperazione e dalla solitudine che stemperano i dialoghi più consueti.
Anche qui, c’è un trattamento di un certo spessore del materiale: dilatazione del tempo e dello spazio, ripetizioni e refrain, deformazioni di ogni genere che convertono situazioni e incontri comuni in mostruosi affreschi delle atrocità della vita contemporanea.

foto di Christian Kleiner

foto di Christian Kleiner

Super Premium Soft Double Vanilla Rich è il nome di un nuovo tipo di gelato. Sostituisce il vecchio Super Soft Vanilla, uscito di produzione a causa delle vendite scarse (come il 70% dei prodotti dei “conbini” ogni anno, ci tengono a sottolineare gli attori, lasciando intuire che una sorte simile possa riguardare anche i lavoratori). La traiettoria socio-economica e quella emotiva si trovano qui a cortocircuitare con forza incredibile: l’eliminazione del vecchio gelato provoca una crisi dilagante e inaspettata in una cliente che, ogni notte, sola, si recava al negozio proprio per comprare unicamente quel prodotto. Appena Mitzumani scopre che il gelato sarà rimesso in commercio con un nuovo nome, si fionda dalla cliente per rivelarglielo. La felicità è grande ma dura poco, perché il nuovo gusto non soddisfa la giovane, non è esattamente identico al precedente: protesta con i commessi, pretende di parlare con un superiore, li tratta malissimo e Mitzumani si licenzia, per non essere stata all’altezza dei desideri del cliente.
Lo scarto è potente, fra la piccolezza dell’evento e lo strazio che provoca nella ragazza, la tenera possibilità di avvicinamento fra lavoratore e consumatore e l’abisso che si apre quando si mettono in moto gli ingranaggi di potere, le strategie che alimentano il consumismo globale e l’isolamento cui sono destinati gli esseri umani.

I “ritornelli” che tornano nello spettacolo (come il “grazie e arrivederci”) o gli interminabili elenchi dei prodotti in vendita, il senso di dispersione naif che generano e la nuvola di surrealtà che polverizzano intorno, la deformazione cui sono sempre sottoposti i diversi livelli drammaturgici in opera, autorizzerebbero a parlare di un neo-assurdo, come nel teatro di Ionesco, come nelle pitture di Chagall. Ma, l’amara verità che si cela dietro Super Premium Soft Double Vanilla Rich è che questa non è fantasia o simulazione, è la feroce assurdità quotidiana, campionata direttamente dalla realtà in cui oggi si vive.

Visto al Teatro delle Passioni, Vie Scenacontemporanea Festival, Modena

Roberta Ferraresi

Dal buio. Una tragedia dell’immaginazione

Recensione a Macbeth su Macbeth su Macbeth. Uno studio per la mano sinistra – di Chiara Guidi (Socìetas Raffaello Sanzio)

MACBETH Chiara Guidi (credits flashati)Forse, lo spettacolo di Chiara Guidi dal Macbeth che ha debuttato al Festival Vie di Modena, si chiama “studio” (nel sottotitolo) perché il senso che trasmette il lavoro è quello di una inesausta ricerca, che si svolge prima ma anche durante la messinscena stessa.
Fin dall’inizio. Quando, ancora con le luci accese in una sala pervasa di nebbia, tre “spettatrici” in nero (Chiara Guidi, Anna Lidia Molina, Agnese Scotti) si alzano e, guardandosi intorno, bisbigliano «Macbeth, Macbeth, Macbeth». «Non bramo altro che trovarlo», rivela una di loro. Quando, poco dopo, Chiara Guidi sparpaglia sul palco pagine e pagine di libri, cerca di riacciuffarle, le perde di nuovo, non si lasciano trattenere in un abbraccio unico. Più in genere, per l’assenza stessa, in concreto, del re shakespeariano: fantasma sempre invocato in scena, continuamente nascosto e celato (dimensione su cui insistono, fra l’altro, numerose scelte visive, a partire dai grandi quadrati di tela nera che man mano vanno a coprire oggetti, persone, azioni).

Macbeth su Macbeth su Macbeth. Il titolo rimanda piuttosto esplicitamente alla triplice invocazione delle streghe all’inizio della tragedia shakespeariana, che riverbera nella triplice attorialità in scena e nei modi in cui viene gestita, tanto a livello fisico-gestuale che sonoro-vocale.
Ci sono brandelli di frasi, parole morsicate, fiati, sussurri, bisbigli, versi d’ogni genere, dai più lievi e flautati a quelli più profondi e viscerali, glossolalie, tensioni inimmaginabili e affondi lunghissimi; una parola che è la carne che la dice, frutto estremo degli anni di ricerca nel campo dell’oralità di Chiara Guidi. Ma i pezzi di Macbeth in scena, attraverso cui è possibile seguire il precipitare della tragedia, non sembrano resti o residui del testo shakespeariano che si presenterebbe in quel caso per frammenti; mantenendo un legame esplicito con il testo da cui sono estratti (rivendicato, ad esempio, dalle progressive integrazioni agli stessi passaggi di testo), paiono piuttosto emergere da esso, come punte scoscese di un iceberg drammaturgico che si estende molto più in profondità, e, dopo essere state trattate dalla partitura vocale, si ergono a guida del senso e del ritmo della tragedia. Le tre voci a volte si sovrappongono, creando eco che si convertono in chimere di senso o amplificandosi in un tono unitario; altre, si passano parola, sia quando ciascuna aggiunge un pezzo, che quando ognuna va per la sua strada; in altri momenti, si giustappongono autarchiche, in altri ancora sono quasi la stessa cosa, la stessa voce, la stessa cavità da cui si origina il dramma. Qualcosa di simile accade con i corpi e i gesti cui danno vita: sul palco, c’è una presenza una e trina, che varia da una fisicità bestialmente deformata al polo della delicatezza e della precisione, attraversando diverse opzioni di interazione (con un’attrice che compie una propria azione, senza in apparenza interagire con le altre, oppure quando si influenzano a vicenda, o ancora se intervengono l’una sull’altra o, infine, nei passaggi in cui si muovono come un unico corpo).

MACBETH Chiara Guidi (credits flashati) IVDal densissimo nero iniziale, si snoda uno spettacolo che segue le vicende del Macbeth, scegliendo come guida il profondo dualismo di cui è intriso il testo (e, sempre coerentemente con esso, facendosene anche ampie beffe con rovesciamenti in agguato dietro ogni angolo). «Il bello è brutto, il brutto è bello», cantavano le streghe di Shakespeare. Così, questo allestimento plasmato dal buio è sferzato da tagli di luce rari ma potenti, siano quelli soffici di una piccola candela o quelli più nitidi di un faro, il riflesso del metallo o le gradazioni terragne di un albero. Intanto, dal pieno del vuoto iniziale, ogni azione comporta un’integrazione visiva e di senso: gradualmente, il palco accoglie alcuni oggetti, mentre le parole si dispiegano mostrando quello che sta accadendo e le azioni le seguono aderendo allo sviluppo drammatico. Sembra quasi che il mistero degli inizi venga piano piano illuminato, almeno in alcuni punti, e possa così in parte essere svelato con maggiore nitidezza al pubblico.

È un teatro ferocemente minimalista quello creato da Chiara Guidi per il suo Macbeth, insieme a Francesca Grilli e alle musiche di Francesco Guerri e Giuseppe Ielasi (il primo anche violoncellista in scena). Il palco è un pieno di nero da cui si lasciano mostrare, di tanto in tanto, alcuni oggetti: un anello di metallo appeso a mezz’aria, una sedia-trono dorata, un pugnale sospeso, una trave, una porta, una mano, un’ombra. Come le parole del Macbeth, sembrano aver lottato a lungo fra loro per emergere dal posto da cui provengono; estratti dal loro contesto originario, sono oggetti sospesi nel buio della scena, quasi fantasmi di un tutto che non riesce o non può concretizzarsi integralmente.
In qualche modo, sono così anche le azioni: l’omicidio è addensato in un unico gesto di profilo (quello di una pugnalata), ripetuto fino allo sfinimento; il senso di colpa della Lady (e le sue famose mani indelebilmente segnate) è incarnato da una mano dorata dietro a una porta, che sporca di polvere brillante tutto quello che tocca; il bosco di Birnam è la radice secca e antica di un albero, sospesa in alto; la mano sinistra del titolo, tradizionalmente quella “sbagliata”, è continuamente occultata, legata, impedita alla vista e al movimento.
Tutti questi elementi – in diversi sensi e a differenti livelli estratti dal proprio contesto di appartenenza e riproposti su una scena scarna e tesa –, nella loro autarchica solitarietà, concretizzano sul palco una delle doti distintive del Macbeth: il fatto di essere soprattutto una tragedia dell’immaginazione, dove profezie, desideri, previsioni e sogni hanno la meglio sul reale, lo determinano e lo producono. Così, l’immaginazione dello spettatore è condotta a muoversi autonomamente fra i pochi e precisi elementi visivi e testuali, a cercare il “suo” Macbeth lì in mezzo, da sola.

MACBETH Chiara Guidi (credits flashati) IILa deflagrazione drammaturgica di ogni scena si irradia comunque a partire da nuclei di senso ben precisi e lucidi, esposti sia a livello vocale che con le immagini. E, fra questi, ci sono dei semi che ritornano, che sembrano coordinare la messinscena e dischiuderne alcuni livelli di senso: tutte le volte che ripetono “re” o “malata” (per segnare il momento dell’omicidio o il sonnambulismo della Lady), tutte quelle che si appoggiano l’una alla spalla dell’altra, di fronte, tutte le altre in cui in scena prende vita un nodo (di corpi, di stoffe, di arti) e quelle, infine, in cui qualcosa è nascosto e svelato, per poi essere di nuovo inghiottito dal buio. Ci sono dei nodi (in concreto, ma anche di senso, di ritmo), tanti nodi, in cui si avviluppano insieme storie e linguaggi, ma a partire da cui lo spettatore può comunque immaginare ciò che accade prima, dopo, durante (e da lì, creare riferimenti e collegamenti, la scena successiva, il suo spettacolo).
La vicenda precipita progressivamente verso la sua conclusione, nel frattempo ha intrappolato lo sguardo e l’emozione di chi ha cominciato a seguirla. Il finale (che non si può rivelare) è qualcosa da togliere il fiato, ma è anche un brivido di speranza che sembra essere sfuggito da qualche crepa nel nero totale di cui è imbevuta la tragedia: un’aurora di luce sconvolge la scena prima che si chiuda il sipario.

In questo spettacolo, oltre il bruciante minimalismo, c’è anche tanta potente magia del teatro, una sapienza materica e materiale che trasuda da ogni scelta, sia a livello linguistico (corporeo, vocale, visivo, musicale…) che compositivo, che infine in un artigianato dell’attore e della scena scandito da ritmi che non lasciano un attimo di scampo.
Un allestimento nerissimo per la tragedia maledetta per eccellenza, dove potere e desiderio, umanità e magia continuano la loro lotta perpetua da secoli; un’opera di rara potenza in cui immagini, parola e musica si intrecciano a comporre situazioni di raro fascino, invitando lo spettatore a un coinvolgimento totale, fatto in pari misura di ascolto, visione, emozione; uno spettacolo, infine, che – probabilmente proprio per questa richiesta di presenza integrale al pubblico – fa paura e la fa davvero, in concreto, nel corpo. E, così, permette di ricordare un po’ perché e per come si vada ancora a teatro.

Visto al Teatro Ermanno Fabbri, Vignola (Vie Scena Contemporanea Festival)

Roberta Ferraresi

Le aperture di “A puerta cerrada”

Recensione di A puerta cerrada – di Serge Nicolaï

Tre personaggi morti si comportano come vivi e, chiusi in una stanza, senza conoscersi, raccontano le loro esistenze mentre ne vedono sgretolarsi gli ultimi barlumi vitali. Così, in eterno. È la trama di Huis Clos di Jean-Paul Sartre, messo in scena, durante il Festival Vie di Modena, nella sua versione argentina A puerta cerrada.

Il filosofo tesse le fila dell’ennesima ragnatela drammaturgica senza uscita, in una giostra di parole vorticose, portate da personaggi biograficamente connotati che possiedono un passato, enunciano concetti, ma soffrono subendo l’impossibilità della loro applicazione in quel tempo-non tempo, spazio-non spazio che è l’inferno. Non una condizione in cui rappresentare sulla scena l’uomo che compie scelte affermando la propria libertà, ma una situazione estrema in cui la morte corrisponde all’impossibilità di prendere decisioni che orientino un futuro che non c’è. «L’inferno sono gli altri», dice una famosa frase del testo, divenuta rappresentativa di una certa corrente dell’esistenzialismo, ma è anche l’assenza della Storia che rende di conseguenza impraticabile l’autonomia di una scelta di libertà.

Foto di Belen Caputo

Foto di Belen Caputo

Nel testo di Sartre ci sono Pirandello e gli sguardi di Mattia Pascal, ci sono Beckett e l’esasperazione della logica, ci sono Brecht e le necessità della storia, ma, soprattutto, c’è lo stallo dell’azione. Così, sulla scena, non succede nulla, se non azioni piccole e senza conseguenze, violenze verbali mostruose ma senza ripercussioni, perché la colpa maturata in vita impedisce qualsiasi movimento in avanti. Solo l’iniziale, apparente disinvoltura dei personaggi – Garcin (Nikolas Sotnikoff), Inés (Maday Méndez), Estelle (Josefina Pieres) – si evolve diventando una disperazione profonda e senza via di scampo. «Io sono il pensiero che ti pensa», dice Inés a Garcin sintetizzando la disumanizzazione progressiva alla quale Sartre condanna gli uomini.

Questo è il testo che, alla lettura mentale, risulta, a tratti, antiquato, anacronistico, lento, seppur con delle appassionanti tirate monologiche e dei, tutt’altro che scontati, riferimenti didascalici alle traiettorie fisse disegnate dagli attori, ma, in conclusione, un testo da pagina, “a tavolino”.

La scena dello spettacolo è semplicissima: tre pareti grigie circoscrivono l’area in cui possono muoversi gli attori, tre sedie sono l’unico oggetto presente insieme a un campanello che funziona in modo imprevedibile e alla porta che, immancabile, divide questo interno (nel testo, un interno borghese) dall’esterno. Un inserviente conduce i tre personaggi, uno alla volta, nell’antro infernale dall’apparenza innocua. I tre iniziano a dialogare, a definire i rispettivi ruoli, si raccontano, mentono agli altri e a se stessi, finché l’inferno non li inghiotte in una sincerità inevitabile. Garcin, Inés, Estelle si confessano specchiandosi negli occhi altrui, in quei pensieri che li penseranno in eterno e si rivelano per quello che sono realmente. Garcin è un codardo mascherato da pacifista, Inés è una donna meschina nei panni di una libertina, Estelle è una bambina dai capricci crudeli che si è finta signora per una vita. A scandire questo tempo che non c’è, le note sceltissime e incalzanti di Jean-Jacques Lemêtre – storico compositore del Théâtre du Soleil.

Foto di Belen Caputo

Foto di Belen Caputo

La messa in scena è essenziale, quasi assente, il testo, come si è detto, una drammaturgia dai toni classici. Ciò che rende vivo lo spettacolo è quella relazione fondante, la stessa che, a volte, si dimentica o si sbilancia in rapporti squilibrati, tra il regista e i suoi interpreti: un attore alla guida di attori. Serge Nicolaï, dalla Cartoucherie di Arianne Mnouchkine, ha tenuto un laboratorio a Buenos Aires con gli attori della compagnia di Claudio Tolcachir Timbre 4 e da questa felice collaborazione è nato A puerta cerrada, su un testo francese, diretto da un francese, con attori argentini che recitano spagnoli di diversa provenienza (da Buenos Aires alle Canarie). Nicolaï è di una modestia luminosa quando, durante l’incontro che segue lo spettacolo, afferma che l’unica cosa che conta sono gli attori e le loro reazioni alle condizioni date – non molto più di una sedia scomoda e di un’indicazione di intenzione – perché il loro lavoro è un rito in atto che si compie sotto gli occhi di tutti. Serge sorride sincero, mentre li ringrazia senza buonismo e rifiuta – con fare un po’ semplicistico ma genuino – le interpretazioni intellettualistiche del testo o del suo taglio di regia. Lavorare, per gli altri, con gli altri, con una dose moderata di narcisismo e l’assenza totale di individualismo, come insegna il modello della creazione collettiva.

Se, in Huis clos l’inferno dell’uomo sono gli altri, in A puerta cerrada gli attori all’inferno fanno da antidoto e se, nel primo, la relazione vincola e ingabbia, nel secondo è fonte di aperture e possibilità. Il testo diventa uno spazio, un argine di cui servirsi in modo funzionale e, pur rimanendo nei suoi confini formali, di cui negare i contenuti, per renderlo parte integrante di un processo creativo che nasce e si porta avanti insieme.

Visto al Teatro Pubblico di Casalecchio di Reno, Vie Scena Contemporanea Festival

Nicoletta Lupia

La retina frustrata di “Memento mori”

Recensione a Memento Mori – di Pascal Rambert

"Memento mori" di Pascal Rambert

“Memento mori” di Pascal Rambert

Come recensire uno spettacolo non visto?

Come recensire uno spettacolo mai visto?

La retina, colpita dalla luce, attiva i centoventicinque fotorecettori posizionati sulla sua superficie, i quali rispondono generando una serie di impulsi elettrici. I micro-impulsi vengono convogliati nel nervo ottico e poi inviati al cervello, in cui si trasmettono i potenziali dell’azione alle differenti regioni visive con diverse funzioni (banalizzando la biologia!).
La pupilla, al buio, si dilata, quando la colpisce la luce, si restringe.
Anche nell’oscurità, qualcosa, dentro di noi, nel nostro cervello, si sta muovendo e ci sta muovendo.
Uno spettatore di teatro partecipa all’esperienza dello spettacolo ascoltandola, vedendola, percependola, muovendo qualcosa dentro di sé, commuovendosi, subendo un crollo, una scossa, vivendo una perturbazione dell’animo – anche quando l’esperienza non risulta gradevole.
Si tratta delle acquisizioni delle neuroscienze tanto à la page negli ultimi tempi e tanto affascinanti, se funzionali alla comprensione o alla pedagogia del teatro.

Cosa succede all’uomo prima della comparsa del movimento? Cosa succede al movimento prima della comparsa dell’uomo? Sono le ambiziose domande di partenza di Memento mori, spettacolo per cinque danzatori in scena al festival Vie con la coreografia del drammaturgo, attore, regista francese Pascal Rambert – già ospite della precedente edizione con uno spettacolo, Clôture de l’amour, dal testo densissimo.

Masaccio, "Cacciata dei progenitori dall'Eden"

Masaccio, “Cacciata dei progenitori dall’Eden”

L’immagine di ispirazione, dice il coreografo, è stata la Cacciata dei progenitori dall’Eden del Masaccio, eppure, a guardare lo spettacolo, viene in mente Giacometti: figure tridimensionali ma tanto filiformi da sembrare inesistenti, a-corporee. Così appaiono i danzatori nei rari momenti di penombra nebulosa (il disegno luminoso è di Yves Godin): corpi senza arti definiti, fuori fuoco, asessuati, senza testa, deformati da posture anomale e dall’utilizzo di altri oggetti irriconoscibili – poi identificati, dall’odore, come ortaggi. Eppure, fantasmi pulsanti, come pulsante è la retina durante il meccanismo ombra/penombra. Corpi avvinghiati in un ammasso di carne del quale non si distinguono braccia, gambe, testa, ma solo oscillazioni, come fossero palpiti di cuore e come se il pavimento si facesse lava o acqua, materia liquida che culla e inghiotte.

Come recensire uno spettacolo non visto?
Basandosi su ciò che lo spettacolo stesso ha suscitato nell’immaginazione, fondando lo scritto sulle sensazioni corporee provate, tentando di appigliarsi a quelle poche immagini concrete balzate alla mente e davanti o dietro gli occhi sfiniti dal tentativo di guardare.

Come recensire uno spettacolo mai visto?
Mettendone in rilievo gli indubitabili caratteri di originalità e sperimentazione e alludendo al tentativo, forse riuscito, di rispondere alle domande: a cosa serve questa relazione biunivoca tra chi espone il proprio corpo su un palcoscenico e chi sta dall’altra parte? Quali traiettorie compie il movimento del performer prima di incontrare il vettore ottico dello spettatore? Cosa succede quando le due prospettive non si incontrano mai, ma condividono un tempo, un luogo, una logorante frustrazione?

Memento mori è un’allucinazione e sollecita l’immaginazione a riciclare frammenti di vita e ad assemblarli dando origine a nuove percezioni.

Visto al Teatro delle Passioni, Vie Scena Contemporanea Festival, Modena

Nicoletta Lupia