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Stare nella realtà, aprirsi al mondo: conversazione con Daria Deflorian

Dal 2012 a oggi ha toccato la Grande Mela e la Città Eterna, Rotterdam e Anversa, Utrecht e Monaco di Baviera. Le parole di Rob de Graaf, sulla bocca di cinque attori diversi, in cinque lingue differenti, hanno solcato Times Square e la stazione centrale di Bruxelles, Piazza Dam e le rive della Senna. Il progetto di Lotte van den Berg – nel nostro paese inserito nella rete di Finestate Festival – ha coinvolto spettatori informati, presenti fisicamente e collegati telefonicamente, e casuali, passanti ignari di ciò che accade. È una protesta in piazza, è un appello alla società, è un individuo solo che incontra un’umanità varia, ponendo domande che restano senza risposta, facendo richieste spesso disattese, scoprendo, ogni volta, qualcosa della città e degli abitanti, qualcosa di sé e dell’altro. Come ci racconta Daria Deflorian, prima donna coinvolta dalla regista olandese, performer che ha vissuto le tappe italiane di Agoraphobia, dal debutto a Santarcangelo Festival a B.Motion, da Castel dei Mondi a Short Theatre, dal Terni Festival a Contemporanea fino ad Approdi, festival cagliaritano alla sua prima edizione. Ubu 2012 come Migliore Attrice per Reality e L’Origine del mondo, ancora in tournée, fino al 10 novembre al Palladium per Romaeuropa Festival con il debutto di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, Daria Deflorian ha appena ricevuto il Premio Hystrio-Anct 2013, per “il coraggio di scelte non sempre facili, tese verso la bellezza dei percorsi meno scontati, delle discese ardite”. Ed è in questo solco che s’iscrive la sua immediata adesione al progetto di Lotte van den Berg, la condivisione di alcuni interrogativi, e quel riconoscersi negli sguardi, perché “tutti rischiamo di fare i barboni nella vita”.

Foto di Ilaria Scarpa

Roma, Piazza del Popolo – Foto di Claudia Pajewski

«In maniera un po’ scaramantica, è una frase che ho pronunciato diverse volte, negli anni. Quando incontro alcune persone per strada mi rifletto in loro, mi mettono paura, inevitabilmente, ma la difficoltà di stare nella realtà non mi è lontana. Molti elementi di questo lavoro mi appartengono, è stato interessante essere guardata in un certo modo, ho allargato la mia capacità di ascolto».

“Aderirò allo sguardo che voi mi rivolgerete”, scrive Rob de Graaf. Quali espressioni hai incontrato? Indifferenza? Compassione?
Mi ricordo di un anziano sulla panchina, durante una prova a San Lorenzo, a Roma: luglio, caldo, mi siedo accanto a lui, gli parlo ma non direttamente, e lui si allaccia la scarpa. Se io, in quel primo approcciarmi non avevo la forza di guardarlo, lui non aveva la forza di ascoltarmi e basta; allacciarsi la scarpa era una scusa per non muoversi di lì. C’era tutta una piccola storia meravigliosa tra me e lui in quel momento.

Senza mai guardarvi…
Senza mai guardarci. Gli anziani soli, come i bambini, hanno delle buone chance come ascoltatori. In Piazza del Popolo un bimbo, un po’ impaurito, ha stretto la mamma mentre dicevo “Dobbiamo osare un abbraccio”, mi ha aiutato a dirlo. C’è stata una signora a Bassano che mi ha seguito fino alla fine, manifestando la sua preoccupazione anche dopo aver capito che si trattava di una performance, o quella che a Campo de’ fiori non ha neanche poggiato le buste della spesa, è rimasta là, in semplice apertura, in puro ascolto. Poi ci sono indifferenze interessanti, gli sguardi di chi non ha paura, il disinteresse di chi pensa che non gli capiterà mai.

Facciamo un passo indietro. Quali sono state le fasi? Come si è evoluto il lavoro?
Io e Lotte ci siamo sentite via Skype, quando ho ricevuto la prima traduzione del testo (a cura di Michelle Davis e Elisa Cuciniello, ndr), ma la preparazione è stata con la tutor, Francesca Cutticca. Lotte mi aveva dato una serie di istruzioni possibili, sullo stare in piazza, sul guardarmi intorno. E poi, il giorno del nostro primo incontro, siamo uscite per le prove. Quando Lotte arriva in una piazza ha un che di animale, sente le coordinate del luogo, sente il modo in cui le persone solcano quello spazio. E indica solo le porte da attraversare, i percorsi sono affidati a me, ho totale fiducia e libertà di rinnovamento.

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Roma, Piazza del Popolo – Foto di Claudia Pajewski

Città diverse, piazze differenti, spettatori inconsapevoli e spettatori consapevoli. Se i primi sono necessari, i secondi possono nuocere al meccanismo?
A Santarcangelo, ad esempio, c’è stata eccessiva vicinanza da una parte e poco passaggio dall’altra. In generale, può esserci la tendenza a spegnere il cellulare e seguirmi, o anche un meccanismo di imitazione, se alcune persone stanno vicine tutti tendono ad avvicinarsi, c’è un effetto a cascata. Anche se il mio desiderio è di non aprirmi al pubblico, ma alla piazza, Lotte mi ha invitato a non evitarlo, ad accoglierlo se entra nel mio spazio visivo, perché, dice lei, “è tutto mondo”. E in effetti è così. Ho sempre una grandissima paura prima di iniziare, la performance mi sembra impossibile da affrontare, e durante, invece, vivo una condizione di divertimento interno. Capisco delle cose di me, della vita, è un’opportunità che lo spazio neutro del teatro non dà.

Lotte van den Berg in un’intervista del 2012, descrive i performer come “uomini che parlano nel modo più esplicito possibile”. È con questo intento che ti rivolgi alla piazza?
All’inizio il testo mi sembrava troppo retorico, ho fatto a pugni con la mia parte critica e un po’ cinica. È stato interessante coprire questa distanza, è bellissimo dire “sappiate che siete amati” o “osiamo un abbraccio”, cose semplici che abbiamo bisogno di sentire.

Parole che possono stare sulla bocca di tutti. Non c’è una storia, il testo è quasi un contenitore da riempire di significati, da completare col proprio proprio vissuto.
Credo che la biografia sia più grande della storia personale, perché è fatta di libri, di film, di cose viste, di incontri casuali, di pensieri e non solo di vissuto. Per me corrisponde a tutto ciò che amo, che mi abita, da cui prendo nutrimento. Quando dico “potevo essere qua, brandire un coltello” penso a una donna alla quale ho chiesto l’ora a Londra, molti anni fa. Mi sembrava squilibrata, ma non mi sono mossa mentre rovistava dentro la borsa, cercando qualcosa che io credevo fosse un orologio. Sono scappata solo quando ha tirato fuori un coltello lunghissimo. Ecco, quando dico quella frase quella donna mi abita, senza che io l’abbia deciso.

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Roma, Campo de’ Fiori – Foto di Claudia Pajewski

La performance è passata per Terni, Andria, Prato, Bassano, Cagliari, e Roma, la città in cui vivi. Oggi guardi le piazze della capitale in maniera differente?
Passare in quei luoghi non è più la stessa cosa. In una delle prove, a Termini, sul lato di Via Marsala, è venuto giù un mare d’acqua. C’erano uno scenario quasi apocalittico e una solidarietà legata al momento. È stata un’esperienza intensa, e dal quel giorno, ogni volta che mi capita di passare lì, rivedo i visi, rivedo la pioggia. E solo adesso riesco davvero a osservare le piazze, cerco le strade d’accesso, le statue, i gradini, vedo se è un luogo chiuso, come Campo de’ Fiori, o un crocevia, come Piazza del Popolo. Le piazze a Roma sono diventate luoghi per comunità non italiane, l’ho sempre visto, ma adesso mi parla. Sento che il mondo mi parla e devo prendermi quell’attimo di tempo per capire che cosa sta dicendo. Sento che la piazza non è più un luogo di discorso collettivo, non ne siamo i padroni, ma quasi ospiti, seduti al tavolino di un bar, o di passaggio per andare a prendere la metro. Ma quello spazio è ancora pubblico, può ancora essere il luogo per chiacchierare, per commentare, per protestare. Agoraphobia ci ricorda che possiamo farlo, possiamo parlare e possiamo ascoltare.

Intervista a cura di Rossella Porcheddu