brugole

Quando l’unica certezza è una Billy

Recensione a Brugole di Lisa Nur Sultan ed Emiliano Masala

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

La piccola sala assoli del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, asettica eppure accogliente, ha dato una perfetta cornice a questa rappresentazione breve ma intensa. È facile e banale descrivere le problematiche quotidiane, soprattutto in un contesto socio-culturale difficile come quello attuale e soprattutto ponendosi dal punto di vista di due giovani ragazzi, ma quando ci si trova di fronte ad una scrittura così immediata, pungente e ironica nella sua semplicità, come quella di Lisa Nur Sultan, è impossibile non farsi coinvolgere. Il testo si costruisce attraverso un dialogo serrato, apparentemente confuso, che sfiora l’assurdo beckettiano: botta e risposta lucidi che condensano in sessanta minuti le ansie di una vita. Due protagonisti, Marta, ragazza pragmatica e composta, interpretata da Elisa Lucarelli e Giulio, più sognatore, reso con grande simpatia dall’espressività quasi caricaturale di Leonardo Maddalena. Tra loro le assi di una Billy, libreria dell’Ikea. Lo spettacolo si ispira a L’angelo sterminatore di Buñuel (a sua volta tratto da Los naufragos di Bergamin) che sbeffeggia la borghesia riducendola all’immobilismo. Ma oggi non è concesso stare fermi, sviluppo incessante, mille opportunità e poche occasioni, sanciscono l’imperativo del carpe diem. In questo caso, la regia di Emiliano Masala e Lisa Nur Sultan mantiene i personaggi intrappolati nelle convenzioni ma li costringe ad un lavorio continuo intorno alla libreria con le loro brugole, tipiche chiavi a elle. E sarà proprio Masala ad incarnare tali convenzioni, presentandosi come il signor Brugola, nelle vesti di un dipendente dell’Ikea, con cui i due si confrontano come fosse il loro grillo parlante. Tra intermezzi musicali, che accentuano il tono dissacratorio e brevi momenti di silenzio, si è continuamente stimolati da spunti di riflessione che trovano una chiosa nelle assi della libreria, vero e proprio oggetto metamorfico. È proprio quello che Flaszen aveva così ben definito parlando di Akropolis di Grotowski, un oggetto il cui «valore consiste nella possibilità di applicazioni multiple, giovando alla dinamica del dramma e non ad illustrarne il significato». Il mobile, infatti, non solo viene smontato e rimontato ossessivamente, ma soprattutto viene trasformato di volta in volta in qualcosa di diverso, funzionale o no, una metafora o solo un gioco, scrivendo la scena parallelamente all’azione verbale dei due che si snoda tra speranze e ipotesi, minime ambizioni e grandi sogni.

Visto al Nuovo Teatro Nuovo, Napoli

Stefania Taddeo