motus animale politico

Tre atti pubblici in cerca di “animale politico”. Intervista a Motus da We Folk!

La presenza di Motus a We Folk! Drodesera 2012 è legata alla ricerca per il loro nuovo progetto: il percorso verso animale politico, che si concluderà nella primavera 2013, a Fies prende il nome di W. e si «spacca in tre». When, Where e Who, tre “atti pubblici”, sono performance in cui ancora ribolle l’urgenza del processo creativo, in un’esplorazione sui dispositivi di controllo (ma soprattutto sulle modalità per eluderli e innestarvi nuovi processi di vita e di lavoro) capace di coinvolgere diverse questioni, persone e linguaggi.

Nel vostro lavoro avete sempre avuto una dialettica aperta con l’oggi. In questo momento cosa vi interessa di più indagare?
Enrico Casagrande
: …Noi stessi? Non è facile dare una risposta, perché coinvolge una dimensione anche estremamente personale. Parto dal lavoro che abbiamo presentato qui, che è l’ultima cosa che abbiamo fatto, la più fresca. In particolare per me c’è l’aspetto della velocità – parlo personalmente perché ancora non abbiamo iniziato una riflessione assieme su quello che è accaduto – che è uno degli interessi d’indagine: come si riesca, dallo spavento iniziale e tramite dei processi velocissimi, a mettere a fuoco delle domande sul qui e ora; ma non per dare delle risposte, quanto piuttosto per porle anche al pubblico.
C’è la volontà di condividere – come la chiamate voi – un’indagine su quello che ci sta accadendo intorno (come può essere stata la Grecia nella vicenda di Alexis o come in questo caso è il controllo), ma c’è sempre anche una domanda sul futuro, su cosa accadrà adesso. Certo non per drammatizzare il discorso sulla crisi/non-crisi, che può essere un bene o un male secondo il modo in cui la affrontiamo – non è detto che la crisi porti solo del male, può forse portare anche del bene, nel senso di sconvolgimento, di cambiamento, di trasformazione.
Daniela Nicolò
: La parola “crisi” viene da “krino”, dalla rottura. Le rotture sono sempre importanti per ripensare le forme. In questo momento è proprio quello che stiamo cercando di fare rispetto alla messinscena, aprendo quelle forme anche a modalità che non avevamo ancora esplorato: non abbiamo mai lavorato come in Who, una performance così aperta di cui non abbiamo il controllo, non si sa cosa succeda né come vada a finire. È una riflessione sul controllo, sulle strategie per sfuggirvi e per trovare altre forme di organizzazione – ma non soltanto dal punto di vista drammaturgico, per noi i piani si intrecciano sempre: a livello politico e sociale abbiamo voluto invitare questi gruppi che si stanno organizzando per tentare di ripensare con altre modalità la comunicazione, l’organizzazione del tempo, la produzione artistica. Ma tutto questo vogliamo poi travasarlo dentro la drammaturgia di Motus… Partiamo da quello che respiriamo nelle zone marginali – perché sono situazioni al margine, fuori dal mainstream e dal mercato – per trovare quelle energie che molte volte mancano nei luoghi di creazione e produzione, perché non c’è quel tipo di slancio. È uno sguardo su queste forme utopiche e il desiderio di portare questa immaginazione utopica al centro, proprio adesso, in un momento in cui si è smesso di produrre utopie e si parla piuttosto di distopie, di visioni catastrofiche del futuro. Forse c’è anche un po’ di romanticismo in questo, ma non mi spaventa: non è solo romanticismo ma anche una scelta programmatica, quella di non volersi far trascinare da questo fiume negativo e trarre energie proprio da questi tentativi…
Enrico: …da questo momento storico…
Daniela: …e stando con queste persone di energia ce n’è arrivata veramente una montagna!

Nella presentazione di W. però non si parla solo di indagine, ma anche di “ri-situare l’oggi”: nel vostro lavoro attualmente c’è anche il desiderio o l’intenzione di provocare un cambiamento? Il teatro può intervenire sulla realtà?
Daniela
: Sì, io ci credo, credo che questo sia possibile, anche se molto difficile. Ci sono vari modi che si possono tentare: c’è chi esce dai teatri e fa un’azione diretta, però si può interagire anche a livello intellettuale. Ponendo delle questioni sulla potenza che il teatro stesso possiede – quando si mette in relazione con certe questioni, le ingloba in sé e trova il modo di farle esplodere e di condividerle con gli spettatori – qualcosa avviene. Questo però è un livello più di sollecitazione, di invito, di slancio… non saprei come definirlo…
Enrico: …comunicativo.
Daniela: Sì, comunicativo. L’azione diretta è invece quello che stiamo cercando di fare ad esempio in alcuni di questi luoghi che abbiamo invitato in Where: dopo e al di là della fase di occupazione, di essersi riuniti intorno a alcuni luoghi dove si ospitano persone e situazioni, tutti oggi avvertono una tensione, interrogandosi sulla possibilità che da queste situazioni possano nascere anche nuove forme artistiche.
Enrico: Credo che nel tentativo di riuscire a decodificare questo intorno, il teatro possa essere uno strumento efficace – forse più di altri, forse al pari, ma quanto lo sia non è importante – per prendere la realtà e trasformarla nel proprio seno, processandola e mostrandola. Questa mutazione crea un codice o un linguaggio, che può rendere la realtà intellegibile a chi la sta vivendo in questo momento, contemporaneamente a noi.
 Quindi il nostro tentativo – ma credo sia in generale una condizione alla base dell’arte – è proprio quello di mostrare ciò che esiste in un’altra ottica, un’altra luce, un altro riflettore. Questo può essere un luogo di trasformazione reale che il teatro può avere – io direi “deve” avere, ma non voglio categorizzare perché c’è anche chi porta avanti una propria indagine con un altro tipo di intimità, sollecitando altre emozioni e immaginari che sono altrettanto interessanti. L’importante è che teniamo alta la cultura – direi una banalità in questo paese – per l’essere umano, come possibilità di altro.
Daniela: Adesso abbiamo l’esigenza di lavorare su alcune criticità di questo momento: è la nostra urgenza e sentiamo che con il teatro c’è la possibilità – che non c’è con il cinema o altri mezzi che hanno costi, tempi e mezzi di produzione diversi – di agire in modo molto veloce e di sollevare le questioni del momento, ponendo il dito nella piaga e gettando sale sulle ferite. È un aspetto che sentiamo molto: è sempre stato così, ma non è sempre stato lo stesso.

Ci interessava il passaggio di Fies all’interno di questo percorso. Con cosa siete arrivati qui e che impronta ha dato questo luogo? Anche, beh, cosa porterete via con voi?
Enrico
: Io sono contento, adrenalina a mille. Siamo arrivati qui con un concept molto chiaro a livello di contenuto, mentre la forma è stata sviluppata qui. Devo dire che questo festival dà una possibilità – che non si trova in altri luoghi – di lavorare in modo molto libero: non c’è pressione rispetto al risultato, quello che conta è il processo e il pubblico è stato educato a cogliere e rispettare la transitorietà (e la fragilità) di questi momenti.
 Per quanto riguarda il percorso del progetto: stiamo molto in tournée e per il momento ci possiamo permettere – mi dispiace anche dirlo – soltanto delle piccole bolle di creazione e di riflessione. Avere periodicamente queste tappe ci porta in spazi-tempo come quello di Fies, dove è possibile fermarsi a riflettere su quello che stiamo facendo, sul nostro percorso in divenire.
Daniela: E qui si incontrano anche le persone. Uso l’esempio di Who perché è quello più eclatante: c’è stato un incontrarsi con Luigi De Angelis di Fanny&Alexander, che è stato con noi e abbiamo lavorato insieme per…
Enrico: …per mettere insieme tutti gli elementi.
Daniela: Poi Eva (Geatti, ndr) e alcuni ragazzi di Dewey Dell. Ma anche molti volontari del Festival hanno partecipato e naturalmente Michele di Stefano di MK, che con la sua proposta di “occupazione” degli spettacoli altrui è per noi diventato un elemento di “disturbo” fondamentale.
 Qui c’è anche questa compenetrazione fra realtà diverse: si crea un dialogo molto bello fra i gruppi, fra gli artisti presenti. È una condizione in cui le compagnie non sono chiuse nella propria rete di protezione e non c’è quella competizione che a volte si crea altrove. Qui la questione davvero importante – in assoluto una cosa unica di Dro – si trova in tutte le conversazioni dopo, fuori o anche durante i lavori.
Enrico: Anche l’anno scorso siamo stati qui molto tempo, perché presentavamo l’intero progetto su Antigone. In questi ultimi due anni sono stato molto bene, l’ho vissuta con felicità: qualcosa è cambiato rispetto al passato, quando magari all’interno del festival c’era una dinamica – naturalmente nell’accezione positiva del termine – più tradizionale.
Daniela: Non c’era questa atmosfera, lo spazio non permetteva neanche tutte queste aree dove ti incontri, ti fermi… Sicuramente poi la presenza della Factory ha molto influito su questa trasformazione.
Enrico: Devo dire che per me hanno lavorato molto bene: il migliorarsi del luogo rispetto all’architettura interna e il non avere una dispersione rispetto alla città ha creato una maggior concentrazione e naturalmente anche migliori condizioni di lavoro. Stanno facendo un bellissimo investimento sul luogo, lo spazio è diventato una potenza incredibile. Penso ad esempio a questa possibilità di utilizzo invernale o a tutto quello che sono riusciti a racimolare – torniamo a questo periodo difficile – a livello di denaro pubblico per rimettere a posto la Centrale in modo che gli artisti possano lavorare meglio… C’è una grande voglia di accoglienza in questa direzione… fa una grande differenza rispetto a altri Festival che ancora continuano a essere concepiti come vetrine, supermercati del teatro…

A Fies quest’anno il Festival è We Folk! Cos’è per voi “folk”?
Daniela
: Io forse richiamerei la definizione più classica: lo associo alla parola tedesca, al “popolo”…
Enrico: Anche in America è così: a New York è usato per dire “gente”…
Daniela: Anzi, lo associo alle popolazioni. E questo “we” ha un aspetto duplice: da un lato non è esclusivo – non è un chiudere, quanto piuttosto un’apertura alla molteplicità, a tante popolazioni e possibilità diverse – e penso che qui questo lo stiano rendendo in modo abbastanza evidente. Però c’è anche un “we” che puoi leggere comunque come un “noi”: più inclusivo, come essere parte di. È in questa tensione fra un sentirsi parte, ma al tempo stesso parte di qualcosa che è fatto da tante diversità che sta forse l’aspetto interessante del folk.

Questo contenuto fa parte del progetto DreamCatcher: TK + WorkOfOthers per We Folk! Drodesera 2012 – Centrale Fies

Le immagini sono di Alessandro Sala (B-Fies)