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Grecia / ex-Jugoslavia: solo andata?

Recensione a Antigone − Compagnia Lattoria

 

Antigone - Compagnia Lattoria

«I classici servono perché aprono ad un possibile futuro, in quanto sono lì a dichiararci, di fatto, che si può cambiare la vita e modificare il mondo»: con queste parole di Edoardo Sanguineti si apre il foglio di sala che accompagna l’ingresso degli spettatori accorsi al Teatro de LiNUTILE in occasione del Premio LiNUTILE del Teatro 2010. Sul palco, la Compagnia Lattoria presenta Antigone, la tragedia sofoclea che narra le gesta della figlia di Edipo, nata dalla madre di lui, Giocasta. Dopo il lavoro su L’isola degli schiavi di P. de Marivaux, Alessia Gennari, regista, e Sara Urban, attrice, proseguono il loro lavoro volto a «legare la contemporaneità alla cultura dei classici». La sala si riempie infatti di echi, di suoni di un nastro rovinato, collocando la vicenda dei personaggi in una ex-Jugoslavia devastata dalla violenza e dalla brutalità bellica: la voce ci ricorda i cinegiornali dell’Istituto Luce, con i suoi toni quasi squillanti, e rievoca nella mente degli spettatori un evento di cui tutti ricordano la portata e la violenza. Sin dall’inizio la tragedia viene così collocata in un tempo a noi prossimo, ma, che nonostante tutto, appare già lontano, remoto, forse addirittura rimosso. In questo scenario di guerra e di morte, rivive la tragedia di Antigone e della sorella Ismene, unite dall’omicidio reciproco dei due fratelli ma divise sulla necessità di trasgredire all’editto di Creonte, re di Tebe, per dare degna sepoltura ad uno dei due, Polinice, morto nel combattimento contro la propria patria, e quindi considerato dal sovrano un nemico.

L’Antigone sofoclea si contamina qui con la versione/traduzione brechtiana e con le parole del poeta bosniaco Izet Sarajlic, creando un universo che si situa a metà strada tra un Novecento appena passato e una dimensione al di fuori da ogni coordinata temporale. Solo il pubblico, assemblando i riferimenti cosparsi all’interno del testo, può orientarsi in questo mondo e guardare ad Antigone e Creonte come a simboli di un conflitto eterno, prendendo una posizione morale, ma soprattutto all’interno della storia, politica e civile. Tuttavia, se le parole di Creonte − rivolte da un luogo sopraelevato, che lo pone in una condizione di potenza e di solitaria vulnerabilità allo stesso tempo − colpiscono direttamente il pubblico, lo costringono ad elaborare un giudizio e a prendere consapevolezza del proprio punto di vista, poco incisivi rimangono gli interventi per collocare la tragedia in quella ex-Jugoslavia assunta come evento fenomenico per far germogliare il mito all’interno di una società potenzialmente pronta ad accoglierlo. I riferimenti alla Storia non hanno però la forza di porre in primo piano la contemporaneità delle tematiche trattate, nonostante si creino degli interessanti cortociruiti tra una dimensione simbolica e la realtà, concreta, amara, attuale.

Eppure è nel finale che, in seguito al susseguirsi di prove attoriali in grado di smuovere nei momenti più delicati la coscienza e l’interiorità dei “cittadini” presenti in sala, si completa quel percorso di coinvolgimento civile accennato sin dall’inizio della rappresentazione: gli attori abbandonano il palcoscenico, prendendo posto accanto agli spettatori. Il teatro intero rimane fermo a contemplare la scena, cosparsa delle sole macerie della tragedia, mentre gli eroi si spogliano del loro carattere mitico «per richiamare tutti alla responsabilità». Un movimento dal palco alla platea, orizzontale, tanto sconvolgente quanto necessario in un momento storico in cui l’umanità si trova immobile ad assistere al susseguirsi degli eventi, in una sorta di paralisi che sempre più viene forzata, e la cui solidità sempre più minata da atti di coscienza individuali.

Giulia Tirelli

Visto al Teatro de LiNUTILE, Padova