recensione biennale teatro

Ubu Roi di Donnellan: cena con risvolti patafisici

«Merdre» esordisce Père Ubu nel capolavoro di Jarry. «Merdre» si fa sfuggire dalle labbra il Père Ubu di Christophe Grégoire, mentre intrattiene chiacchiere da salotto con ospiti in giacca e cravatta, gonna a pieghe e filo di perle. Invade un contemporaneo interno borghese l’Ubu Roi di Declan Donnellan: comodo il divano, apparecchiata la tavola, pieni i bicchieri, garbate le risate, per una cena dai risvolti patafisici. Due porte nascondono il resto dell’appartamento: cucina traboccante di cibo e coltelli, corridoio lungo con muri lindi, bagno candido, con sanitari lucidi e tappeto bianco. Il lercio s’infila negli interstizi, catturato dalla telecamera del principe, svogliato, All Stars ai piedi, smorfia perenne sul volto, e restituito sulla parete del salotto, occasionale grande schermo per proiezioni domestiche.
??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????C’è Mère Ubu che si trucca davanti allo specchio, c’è una tavoletta da sollevare, c’è carne da affettare, una sveltina da spiare, cavità da scandagliare. C’è il pallore della normalità, la pacatezza di voci sopite, e – d’improvviso – l’acidità della follia, declinata nei toni del verde, che squarcia l’armonia bon ton. Posseduti dai personaggi di Jarry, i commensali indossano coperte come mantelli, impugnano spazzoloni come scettri, detergenti come armi e un minipimer che funge da macchina decervellatrice. Affondano le unghie nella carne dei nemici e affilano le lame per la corsa al potere, spietata, meschina, grottesca. Nell’atmosfera composta, quel ‘fascino discreto della borghesia’ è interrotto – con cadenze irregolari – dalle avventure di Ubu, ‘capitano dei dragoni, officiale di fiducia di re Venceslao’, ingordo, arrogante, ridicolo.
??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????Il messaggio, politico, sociale, resta lo stesso, pur nell’ambientazione parigina e odierna, e mette in evidenza la trasversalità della pièce, traslabile in ogni epoca, e in ogni luogo. Se il meccanismo di alternanza, tagliente, efficace, risulta – alla fine – eccessivamente insistito, non si può non apprezzare il ritmo, sostenuto, la precisione, aguzza, e quella giustapposizione di immagini, che rende tutto più minaccioso e deforme, a partire dalle ombre mostruose che si ingigantiscono sullo sfondo, per continuare con i video del giovane Bougrelas, che accentuano la crudezza, il disgusto, la volgarità. Alla fine della battaglia, alla fine della cena, resta lo sporco, impossibile da pulire anche con lo sgrassatore Chanteclair. Il marcio è vecchio e nuovo, è oggi e ieri, è sulla tovaglia e sui vestiti, sui cuscini e sulle porte, in Polonia e a Parigi, ovunque ovvero in nessun posto.

Visto alla 42° Biennale Teatro di Venezia

Rossella Porcheddu

Questo contenuto è stato originariamente pubblicato su Che teatro fa

Mi gran obra: uno spettacolo in miniatura

Recensione a Mi gran obra (un proyecto ambicioso) – ideazione e regia David Espinosa

«Cosa farei se avessi un budget illimitato?» È la domanda che si è fatto David Espinosa, tra i protagonisti della Biennale Teatro 2013, domanda che sta alla base di Mi gran obra, presentato in prima nazionale dal 3 al 10 agosto. La risposta? «Il più grande teatro del mondo, 300 attori in scena, un’orchestra militare, una rock band, gli animali, le auto e un elicottero». Questo è ciò che vorrebbe il regista catalano. Questo, in tempi di crisi, e con carenza di fondi, è un lusso. Ma Espinosa non rinuncia, porta avanti il suo ‘proyecto ambicioso’, mette in scena la sua utopia. Lo fa, però, in scala: ci invita a pensare di essere in uno spazio grande quanto tre campi di calcio e di vedere esibirsi centinaia di attori, anche se siamo in una piccola sala e i personaggi sono alti poco più di un’unghia.

Ci vengono a prendere all’ingresso di Ca’ Giustinian, siamo solo in venti, ci portano al primo piano, troviamo una valigia, rigida, un meccanismo, retrattile, una sorta di passerella per entrare in scena, e attori, tanti, in miniatura. Una voce registrata esce dall’altoparlante di gomma di un iphone per raccontarci il progetto, introdurci allo spettacolo. Nessun sipario, nessuna poltroncina, nessun palco: sediamo su panche, sedie, puff, abbiamo binocoli in dotazione. Davanti a noi un tavolo bianco, due casse, due mani a muovere i fili, le dita a comporre le scene.

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Espinosa sistema l’orchestra, da un lato, e la band, dall’altro, la musica parte, e la vita di una coppia pian piano è tracciata, dalla nascita alla morte. Una striscia obliqua attraversa il tempo e taglia lo spazio scenico, un tappeto adesivo tiene i piccoli attori coi piedi ben saldati al suolo. C’è un ballo da fare stretti stretti, il primo bacio sulla panchina, al parco, il sesso sul divano, l’abito bianco, passeggini da spingere, figli che crescono e se ne vanno, una panchina da condividere in vecchiaia, la stessa, nello stesso parco, e infine la solitudine, lapidi bianche, un cimitero. L’età che avanza, la vita che scorre.
E poi suonatori mariachi, marito e moglie che soccombono sotto chicchi e chicchi di riso, palme sulla spiaggia, l’abbronzatura integrale, gli Eagles di Hotel California. Il peso del consumismo, targato Coca Cola, gli astronauti sulla luna, la polizia, il controllo, il corpo in vendita, la violenza che segna la quotidianità, Cristo in croce, uno stadio e una partita di calcio, qualcuno che attenta alla vita del Presidente. La morte e la falce, uomini e donne sull’orlo dell’abisso, l’ombra della dittatura, un cumulo di corpi inerti, e un uomo, solo, che va via mentre la luce di una lampada da ufficio scema.

Tante le trovate, dal phon che simula il vento e fa muovere le pale di un elicottero, al martello che battendo produce un su e giù per coppie di amanti, al chiodo come palo da lap dance. Molti i rimandi, sociali, religiosi, politici, storici. Tante le figure, dagli alti gradi dell’esercito al pontefice, dagli operai a Obama, dai personaggi noti di oggi agli ignoti di sempre.

Grandi numeri, fondi illimitati, ampie strutture, tanti attori, sono sempre sinonimo di grande opera? O piuttosto sono l’idea, l’originalità del meccanismo creativo, i temi messi in campo a fare la differenza? Riesce, Espinosa, a trascinarci su spiagge tropicali e in grandi piazze, a farci vedere matrimoni e funerali, a far volare elicotteri e fluttuare astronauti. Passa dalla nascita alla morte, da Betlemme a Babbo Natale, dalla Via Crucis ai genocidi in un batter di ciglia. Supera limiti spaziali e temporali, affronta, con una sola immagine, grandi tematiche, dal consumismo alle logiche del potere, dalle credenze religiose alle dinamiche dell’amore. Uno spettacolo da tavolo, un teatro in miniatura, che in un piccolo spazio tratteggia grandi eventi, attraversando la storia, e con piccole, anonime figure, mette in scena l’umanità.

Rossella Porcheddu