biennale teatro

Biennale Teatro 2016: Drammaturgie dello spettatore

Negli ultimi anni l’attenzione della Biennale di Venezia si è aperta progressivamente al tema della formazione, facendo della sezione College – in teatro e non solo – una delle linee portanti della propria attività. Alla cerimonia di conferimento dei Leoni d’Oro e d’Argento 2016 (rispettivamente a Declan Donnellan e Babilonia Teatri), il presidente Paolo Baratta ha voluto attribuire – a parole – un Leone “virtuale” a Álex Rigola, al suo settimo e ultimo anno di direzione, per il contributo determinante dato alla declinazione del tema College.
In questi anni, infatti, il regista catalano è riuscito tramite la scelta laboratoriale e la programmazione di spettacoli di artisti internazionali a fare inaspettatamente di Venezia – e nonostante la collocazione agostana del festival – un punto di riferimento importante per il teatro italiano; un luogo di confronto, studio e incontro segnato soprattutto dall’apertura e dalla pluralità (di generazioni, geografie, culture e linguaggi, ma anche saperi e mestieri della scena).

Dal punto di vista di un osservatore continuativo e interno, come chi scrive, quella del 2016 si può considerare a tutti gli effetti un’edizione-summa di questo percorso: che ha visto avvicendarsi le polarità estreme della ricerca testuale e di quella performativo-visiva, insieme all’esplorazione di zone altre della scena contemporanea (quest’anno è stato il circo di Baro d’Evel, il teatro-cinema di Christiane Jatahy); maestri ormai consolidati e un’attenzione particolare alle generazioni più giovani (le scelte dei Leoni stanno a testimoniarlo); laboratori per autori, attori, registi e l’ormai consueto workshop di critica, che ha accompagnato tutte le edizioni con i suoi racconti e analisi.
Ad attraversare le tre settimane di Festival Internazionale 2016, tanti temi, questioni, stili e orizzonti di ricerca, ma – a posteriori – forse tutti si possono aggregare intorno a una questione centrale, che poi sembra essere tornata di fondo anche nel teatro del nostro tempo: quella delle drammaturgie – in senso stretto e lato – dello spettatore.

Dalla partecipazione alla critica (Roger Bernat/Yan Duyvendak e Stefan Kaegi)
Partecipazione: ormai in teatro non si parla d’altro. Da qualche anno la scena europea sta vivendo una riscoperta delle dinamiche di coinvolgimento dello spettatore che hanno segnato tanto Nuovo teatro del novecento, almeno dalle soirée futuriste e dada per passare al teatro secondo il suo “valore d’uso” degli anni settanta e arrivare fino a noi.

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BiblioTK

Pensare ai festival ci fa venire in mente dei libri, pensieri che abbiamo letto, pagine che abbiamo solo sfiorato, viaggi di cui abbiamo sentito parlare o che ci hanno raccontato.
Un modo diverso per parlare dei festival, del loro modo di essere, di venire creati, visti e vissuti, di quello spazio-tempo d’eccezione che offrono ad artisti e spettatori. 

Altri mondi, altre storie.


1. Fiesta (Il sole sorgerà ancora), di Ernest Hemingway (1926)

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“Magari andando avanti s’impara qualcosa. A me non importava sapere cosa fosse tutta la faccenda. Forse però se scoprivate come viverci, potevate anche capire che cosa l’intera faccenda fosse […]”.
PERCHÉ: È un esordio; il Festival di Pamplona è pur sempre un festival; è un capolavoro per la costruzione dei dialoghi
APPROFONDIMENTI: La recensione sul “New York Times” (31 ottobre ’26) →


2. Città in festival. Nuove esperienze di marketing territoriale,
a cura di Marco Paiola e Roberto Grandinetti (2009)

libro “[…] è sempre più forte il richiamo esercitato da occasioni di incontro nelle quali la moltitudine, la folla, il caos sono una delle componenti dell’evento, a sottolineare il senso dell’appartenenza a un rito collettivo di fruizione da parte di una massa che si auto-seleziona condividendo un comune interesse”.

PERCHÉ: Alla fine del primo decennio 2000 si faceva il punto su cosa fosse un festival e cosa potesse diventare. Cosa è cambiato?
APPROFONDIMENTI: L’introduzione del libro sul sito di FrancoAngeli →


3. Teatro nel Rinascimento. Roma 1450-1550, di Fabrizio Cruciani (1983)

pagina“Teatro è un luogo metaforico concretizzato in un tempo e in uno spazio trasformato, non quotidiano, reso più che reale, all’interno del quale ci si pone o si viene posti; teatro non è una forma specifica di espressione ma una situazione in cui si celebra una cultura (anche nel senso antropologico del termine) nelle sue forme ideali, dove il possibile assume realtà e il pensabile diventa espressione”.

PERCHÉ: L’idea di festa come filtro per capire il teatro, in un capolavoro di Cruciani dedicato al Rinascimento che però sa parlare (e tanto) anche del nostro tempo
APPROFONDIMENTI: La bibliografia di Cruciani sul sito di “Teatro e storia”  →


4. Laboratorio ’75, a cura di Franco Quadri (1979)

lab75 “La data dell’estate ’75 diventa un crocevia […]. Mentre il laboratorio uscito dagli anni sessanta cerca la via della comunicazione più diretta, il nuovo laboratorio risale questa comunicazione a analizzarla. Nell’uno e nell’altro caso è il concetto di rappresentazione che salta”.

PERCHÉ: La Biennale di Ronconi: uno spartiacque nel Nuovo Teatro italiano e per il concetto, il modo, il senso dei festival
APPROFONDIMENTI: Lo spettacolo Utopia sul sito di Luca Ronconi →

5. Organizzare teatro a livello internazionale. Linguaggi, politiche, pratiche, tecniche, a cura di Mimma Gallina (2008)

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“(…) un festival è una particolare concentrazione nello spazio e nel tempo di spettacoli e manifestazioni connesse, legati a specifici generi, temi, tendenze, o comunque ad un progetto culturale esplicitato”.
PERCHÉ: è il vademecum dell’organizzatore teatrale che imposta azioni culturali.
APPROFONDIMENTI: L’introduzione al libro sul sito di Franco Angeli →

6. Fêtes et civilisations, di Jean Duvignaud (1973)

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“I muri parlano. Si viene investiti dall’assembramento casuale di gruppi che si riuniscono, si incontrano, vanno e vengono ( … ) Nessuno è davvero attore e nessuno è solo spettatore: lentamente, nascono parole e gesti che non si rifanno a forme più o meno stabilite”.
PERCHÉ: il Festival, come la festa, modifica le comunità che vi prendono parte, alterando relazioni, forme, modalità partecipative.
APPROFONDIMENTI: La bibliografia di Jean Duvignaud sul sito della casa editrice Actes Sud →

7. Il valore degli eventi. Valutare ex ante ed ex post gli effetti socio-economici, esperienziali e territoriali, di Sergio Cherubini, Enrico Bonetti, Gennaro Iasevoli, Riccardo Resciniti (2009)

libro “(…) l’evento culturale, per la sua stessa natura, ha come principio ispiratore quello di favorire lo sviluppo della “cultura” a vantaggio della collettività verso cui l’evento si rivolge. In tal senso, la naturale distinzione in effetti positivi (benefici) e negativi (costi) risulterebbe limitata se non si applicasse anche quella in ritorni ‘tangibili’ (…) e ‘intangibili'”.

PERCHÉ: Dallo sport al festival culturale: una ricerca scientifica sulla capacità di creazione di valore degli eventi; un approccio metodologico in grado di coinvolgere il lettore alla scoperta dei diversi livelli legati al processo e alle strategie insite nell’organizzazione di un evento.
APPROFONDIMENTI: La recensione di Lucio Argano sulla rivista Economia della cultura (condivisa da FrancoAngeli) →

8. Considera l’aragosta, di David Foster Wallace (2006)

libro “Potrebbe essere benissimo che noi spettatori, privi dei doni divini degli atleti, siamo gli unici a essere davvero in grado di vedere, esprimere e animare l’esperienza del dono a noi negato. E che coloro i quali ricevono e mettono in pratica il dono del genio atletico debbano, di necessità, essere ciechi e muti al riguardo, e non perché la cecità e il mutismo siano il prezzo di quel dono, ma perché ne sono l’essenza”.

PERCHÉ: Fra le altre cose, Wallace ci ha insegnato il reportage: tante volte ha messo su carta esperienze immersive e intensive, cronache da progetti, festival, manifestazioni, tracciando equilibri sorprendenti fra giornalismo ed etnografia, analisi e racconto, coinvolgimento e distacco, particolare e generale (in questo libro: gli Oscar del porno, campagne elettorali itineranti, sagre dell’aragosta).
APPROFONDIMENTI: Audio-intervista sul volume a Wallace →

 

Ubu Roi di Donnellan: cena con risvolti patafisici

«Merdre» esordisce Père Ubu nel capolavoro di Jarry. «Merdre» si fa sfuggire dalle labbra il Père Ubu di Christophe Grégoire, mentre intrattiene chiacchiere da salotto con ospiti in giacca e cravatta, gonna a pieghe e filo di perle. Invade un contemporaneo interno borghese l’Ubu Roi di Declan Donnellan: comodo il divano, apparecchiata la tavola, pieni i bicchieri, garbate le risate, per una cena dai risvolti patafisici. Due porte nascondono il resto dell’appartamento: cucina traboccante di cibo e coltelli, corridoio lungo con muri lindi, bagno candido, con sanitari lucidi e tappeto bianco. Il lercio s’infila negli interstizi, catturato dalla telecamera del principe, svogliato, All Stars ai piedi, smorfia perenne sul volto, e restituito sulla parete del salotto, occasionale grande schermo per proiezioni domestiche.
??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????C’è Mère Ubu che si trucca davanti allo specchio, c’è una tavoletta da sollevare, c’è carne da affettare, una sveltina da spiare, cavità da scandagliare. C’è il pallore della normalità, la pacatezza di voci sopite, e – d’improvviso – l’acidità della follia, declinata nei toni del verde, che squarcia l’armonia bon ton. Posseduti dai personaggi di Jarry, i commensali indossano coperte come mantelli, impugnano spazzoloni come scettri, detergenti come armi e un minipimer che funge da macchina decervellatrice. Affondano le unghie nella carne dei nemici e affilano le lame per la corsa al potere, spietata, meschina, grottesca. Nell’atmosfera composta, quel ‘fascino discreto della borghesia’ è interrotto – con cadenze irregolari – dalle avventure di Ubu, ‘capitano dei dragoni, officiale di fiducia di re Venceslao’, ingordo, arrogante, ridicolo.
??????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????Il messaggio, politico, sociale, resta lo stesso, pur nell’ambientazione parigina e odierna, e mette in evidenza la trasversalità della pièce, traslabile in ogni epoca, e in ogni luogo. Se il meccanismo di alternanza, tagliente, efficace, risulta – alla fine – eccessivamente insistito, non si può non apprezzare il ritmo, sostenuto, la precisione, aguzza, e quella giustapposizione di immagini, che rende tutto più minaccioso e deforme, a partire dalle ombre mostruose che si ingigantiscono sullo sfondo, per continuare con i video del giovane Bougrelas, che accentuano la crudezza, il disgusto, la volgarità. Alla fine della battaglia, alla fine della cena, resta lo sporco, impossibile da pulire anche con lo sgrassatore Chanteclair. Il marcio è vecchio e nuovo, è oggi e ieri, è sulla tovaglia e sui vestiti, sui cuscini e sulle porte, in Polonia e a Parigi, ovunque ovvero in nessun posto.

Visto alla 42° Biennale Teatro di Venezia

Rossella Porcheddu

Questo contenuto è stato originariamente pubblicato su Che teatro fa

Mi gran obra: uno spettacolo in miniatura

Recensione a Mi gran obra (un proyecto ambicioso) – ideazione e regia David Espinosa

«Cosa farei se avessi un budget illimitato?» È la domanda che si è fatto David Espinosa, tra i protagonisti della Biennale Teatro 2013, domanda che sta alla base di Mi gran obra, presentato in prima nazionale dal 3 al 10 agosto. La risposta? «Il più grande teatro del mondo, 300 attori in scena, un’orchestra militare, una rock band, gli animali, le auto e un elicottero». Questo è ciò che vorrebbe il regista catalano. Questo, in tempi di crisi, e con carenza di fondi, è un lusso. Ma Espinosa non rinuncia, porta avanti il suo ‘proyecto ambicioso’, mette in scena la sua utopia. Lo fa, però, in scala: ci invita a pensare di essere in uno spazio grande quanto tre campi di calcio e di vedere esibirsi centinaia di attori, anche se siamo in una piccola sala e i personaggi sono alti poco più di un’unghia.

Ci vengono a prendere all’ingresso di Ca’ Giustinian, siamo solo in venti, ci portano al primo piano, troviamo una valigia, rigida, un meccanismo, retrattile, una sorta di passerella per entrare in scena, e attori, tanti, in miniatura. Una voce registrata esce dall’altoparlante di gomma di un iphone per raccontarci il progetto, introdurci allo spettacolo. Nessun sipario, nessuna poltroncina, nessun palco: sediamo su panche, sedie, puff, abbiamo binocoli in dotazione. Davanti a noi un tavolo bianco, due casse, due mani a muovere i fili, le dita a comporre le scene.

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Espinosa sistema l’orchestra, da un lato, e la band, dall’altro, la musica parte, e la vita di una coppia pian piano è tracciata, dalla nascita alla morte. Una striscia obliqua attraversa il tempo e taglia lo spazio scenico, un tappeto adesivo tiene i piccoli attori coi piedi ben saldati al suolo. C’è un ballo da fare stretti stretti, il primo bacio sulla panchina, al parco, il sesso sul divano, l’abito bianco, passeggini da spingere, figli che crescono e se ne vanno, una panchina da condividere in vecchiaia, la stessa, nello stesso parco, e infine la solitudine, lapidi bianche, un cimitero. L’età che avanza, la vita che scorre.
E poi suonatori mariachi, marito e moglie che soccombono sotto chicchi e chicchi di riso, palme sulla spiaggia, l’abbronzatura integrale, gli Eagles di Hotel California. Il peso del consumismo, targato Coca Cola, gli astronauti sulla luna, la polizia, il controllo, il corpo in vendita, la violenza che segna la quotidianità, Cristo in croce, uno stadio e una partita di calcio, qualcuno che attenta alla vita del Presidente. La morte e la falce, uomini e donne sull’orlo dell’abisso, l’ombra della dittatura, un cumulo di corpi inerti, e un uomo, solo, che va via mentre la luce di una lampada da ufficio scema.

Tante le trovate, dal phon che simula il vento e fa muovere le pale di un elicottero, al martello che battendo produce un su e giù per coppie di amanti, al chiodo come palo da lap dance. Molti i rimandi, sociali, religiosi, politici, storici. Tante le figure, dagli alti gradi dell’esercito al pontefice, dagli operai a Obama, dai personaggi noti di oggi agli ignoti di sempre.

Grandi numeri, fondi illimitati, ampie strutture, tanti attori, sono sempre sinonimo di grande opera? O piuttosto sono l’idea, l’originalità del meccanismo creativo, i temi messi in campo a fare la differenza? Riesce, Espinosa, a trascinarci su spiagge tropicali e in grandi piazze, a farci vedere matrimoni e funerali, a far volare elicotteri e fluttuare astronauti. Passa dalla nascita alla morte, da Betlemme a Babbo Natale, dalla Via Crucis ai genocidi in un batter di ciglia. Supera limiti spaziali e temporali, affronta, con una sola immagine, grandi tematiche, dal consumismo alle logiche del potere, dalle credenze religiose alle dinamiche dell’amore. Uno spettacolo da tavolo, un teatro in miniatura, che in un piccolo spazio tratteggia grandi eventi, attraversando la storia, e con piccole, anonime figure, mette in scena l’umanità.

Rossella Porcheddu