babilonia teatri

Nel luna park di Babilonia Teatri

Il pop rock punk di Babilonia Teatri gode di ottima salute. Questa geniale compagnia veronese ha sperimentato modalità differenti di andare in scena senza quasi mai abbandonare quel flusso-fiume di parole non interpretate, ma semplicemente dette, vomitate, che è diventato un vero e proprio marchio di fabbrica. Nel tempo ha rimodellato questo stile senza aver perso un briciolo di riconoscibilità e carica corrosiva, e oggi lo propone non più asettico, ma con maggiore foga, fino a diventare quasi rapsodico. E con Calcinculo – che ha debuttato al festival B.Motion di Bassano del Grappa per poi approdare a Short Theatre a Roma – i Babilonia compiono un ulteriore passo avanti nel loro percorso: si spingono verso un concerto pop.

Dopo alcune produzioni che li hanno visti alternarsi in scena o addirittura sottrarsi, Enrico Castellani e Valeria Raimondi tornano a calcare il palco insieme, affiancati dall’insostituibile Luca Scotton. Calcinculo sembra riportare la compagnia a quella drammaturgia taglia e cuci dello stile televisivo di Blob, con accostamenti tematici e linguistici paradossali, che contraddistingueva il made in italy delle origini: da questa istantanea ironica e contraddittoria del reale che parlava del Nord-est italiano, il focus della compagnia si è spostato e ampliato per guardare all’uomo immerso nelle sabbie mobili del presente, impossibilitato a guardare (o sognare) oltre i propri stretti confini. Se Valeria nel suo abitino rosa romantico, attenuato dal giubbino di jeans, canta con un sorriso stampato sul volto “voglio la mia libertà / no alla socialità / un numero verde per la felicità”, Enrico urla le sue paure “i miei figli devono stare al sicuro / non sono mai scesi dal letto / io voglio che mia madre ci sia sempre / io ho bisogno di certezze”; se le canzoni diventano da subito orecchiabili, il testo porta da tutt’altra parte: attraverso delle melodie allegre e spensierate entrano a gamba tesa dei macro temi/problemi della società odierna come la costruzione di muri, l’immigrazione, la precarietà del lavoro, l’apatia comunitaria. Grazie alla composizione musicale di Lorenzo Scuda degli Oblivion, che strizza l’occhio all’indie-pop di un certo Calcutta o del super pop Rovazzi, il tutto diventa una pillola indorata, un cavallo di troia travestito da unicorno contenente pensieri-macigni. E allora eccole, le sensazioni contrastanti che questo pop stridente riesce a tirar fuori dallo spettatore: si passa dall’ironia al ribrezzo, dalla felicità alla nausea; è come ricevere un pugno nello stomaco mentre l’altra mano ti porge lo zucchero filato. Nel luna park atipico e personalissimo di Babilonia Teatri gli orpelli scenici sono ridotti all’osso e ogni oggetto è una sineddoche che apre a molteplici interpretazioni, distanti – come le sensazioni che suscita continuamente lo spettacolo stesso – eppure così vicine tra loro.

foto di Eleonora Cavallo

Lo stesso titolo racchiude in sé le varie distorsioni della vita e della realtà, dipende da che punto di vista ci si pone rispetto a essa: il divertimento più sfrenato dell’intramontabile giostra del paese, con il suo senso di libertà e spensieratezza e il benservito che ti riserva la società spegnendo ogni entusiasmo, ogni fuoco, ogni sogno. Perché con gli estintori sempre lì pronti per eventuali incendi – che si accendono solo intimamente ma all’esterno non divampano mai -, Calcinculo brucia lentamente proprio allo stesso modo con cui si disgrega la nostra società, pezzo dopo pezzo, lasciando una scia inevitabile di brutture e controsensi. Come se avessimo perso una bussola da seguire, perdiamo il contatto con la realtà in cui viviamo dove accettiamo cose abominevoli e ci indigniamo per frivolezze; soprassediamo ad atti violenti e irrispettosi nei confronti delle persone e umanizziamo gli animali. E allora la stessa sfilata di cani, a cui il pubblico assiste divertito, scambiandosi sguardi inteneriti e allegri, accompagnata da un Enrico Castellani sopra le righe che presenta ogni concorrente con aggettivi superlativi, diventa l’ennesima contraddizione interna di un sistema in eterno cortocircuito.  E non basta il coro finale degli alpini per farci ritrovare una “unità di misura per la realtà”; neanche questa istituzione che ha attraversato un secolo e rappresenta, almeno nell’immaginario collettivo di una certa generazione, una certezza può salvare questo nostro mondo dal disfacimento sociale.

Forse viene da pensare che gli stessi Babilonia siano una contraddizione: mentre continuano a sperimentare sul linguaggio dimostrano sempre di più di imparare la lezione dei classici. Vedendo Calcinculo e la sua rappresentazione della normalità o meglio dell’ordinaria follia quotidiana del nostro presente viene in mente Molière e le sue commedie amarissime che mettevano in scena i vizi della borghesia che a sua volta rideva a crepapelle delle sue stesse nevrosi. Speriamo che Calcinculo evolva in un disco di hit e che lo spettacolo-concerto, in cui si strizza l’occhio al popolare e allo stesso tempo si affina la lama che affonda nello stomaco, ci faccia svegliare dal torpore in cui tutti sembriamo addormentati. E diventare così la “tradizione della innovazione” a cui auspicava Leo De Berardinis prima ancora che i Babilonia Teatri facessero capolino nel teatro italiano.

Visto a Bassano del Grappa nell’ambito del festival B.Motion

Carlotta Tringali

Biennale Teatro 2016: Drammaturgie dello spettatore

Negli ultimi anni l’attenzione della Biennale di Venezia si è aperta progressivamente al tema della formazione, facendo della sezione College – in teatro e non solo – una delle linee portanti della propria attività. Alla cerimonia di conferimento dei Leoni d’Oro e d’Argento 2016 (rispettivamente a Declan Donnellan e Babilonia Teatri), il presidente Paolo Baratta ha voluto attribuire – a parole – un Leone “virtuale” a Álex Rigola, al suo settimo e ultimo anno di direzione, per il contributo determinante dato alla declinazione del tema College.
In questi anni, infatti, il regista catalano è riuscito tramite la scelta laboratoriale e la programmazione di spettacoli di artisti internazionali a fare inaspettatamente di Venezia – e nonostante la collocazione agostana del festival – un punto di riferimento importante per il teatro italiano; un luogo di confronto, studio e incontro segnato soprattutto dall’apertura e dalla pluralità (di generazioni, geografie, culture e linguaggi, ma anche saperi e mestieri della scena).

Dal punto di vista di un osservatore continuativo e interno, come chi scrive, quella del 2016 si può considerare a tutti gli effetti un’edizione-summa di questo percorso: che ha visto avvicendarsi le polarità estreme della ricerca testuale e di quella performativo-visiva, insieme all’esplorazione di zone altre della scena contemporanea (quest’anno è stato il circo di Baro d’Evel, il teatro-cinema di Christiane Jatahy); maestri ormai consolidati e un’attenzione particolare alle generazioni più giovani (le scelte dei Leoni stanno a testimoniarlo); laboratori per autori, attori, registi e l’ormai consueto workshop di critica, che ha accompagnato tutte le edizioni con i suoi racconti e analisi.
Ad attraversare le tre settimane di Festival Internazionale 2016, tanti temi, questioni, stili e orizzonti di ricerca, ma – a posteriori – forse tutti si possono aggregare intorno a una questione centrale, che poi sembra essere tornata di fondo anche nel teatro del nostro tempo: quella delle drammaturgie – in senso stretto e lato – dello spettatore.

Dalla partecipazione alla critica (Roger Bernat/Yan Duyvendak e Stefan Kaegi)
Partecipazione: ormai in teatro non si parla d’altro. Da qualche anno la scena europea sta vivendo una riscoperta delle dinamiche di coinvolgimento dello spettatore che hanno segnato tanto Nuovo teatro del novecento, almeno dalle soirée futuriste e dada per passare al teatro secondo il suo “valore d’uso” degli anni settanta e arrivare fino a noi.

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Teatri, biografia, teatro. Da Contemporanea festival

L'immagine dell'edizione 2014 di Contemporanea

L’immagine dell’edizione 2014 di Contemporanea

Fine estate, autunno, giornate ancora lunghe ma tiepide. È il tempo del festival Contemporanea, che, organizzato dal Metastasio – Teatro Stabile della Toscana e diretto da Edoardo Donatini, si svolge ogni anno a Prato in questo periodo, quasi posizionato a chiudere il fermento intenso dell’estate dei festival e ad aprire gli orizzonti sulla nuova stagione in arrivo. Una condizione di soglia – sostenuta anche dalle frequenti aperture internazionali, dalla particolare attenzione riservata contestualmente ai maestri e alle esperienze più giovani, dalla ferma intenzione di presentare sia spettacoli compiuti che lavori ancora in progress –, che permette spesso di fare i conti con il passato recente della scena e con le progettualità che in questo momento vi si stanno modellando, sperimentando, verificando.
L’esito di consueto è quello multiforme e vibrante di un teatro affrontato nella sua irriducibile pluralità: dove si affiancano proposte performative o sperimentali a forme più tradizionali, dove si privilegia la ricerca senza però negare il piacere dello spettacolo compiuto; dove si possono incontrare vari tipi di teatri, linguaggi, approcci, dalla nuova danza al monologo, da pièce a dir poco post-drammatiche a esperienze urbane, partecipative e interattive; in cui ci sono artisti affermati e giovani compagnie, autori “di parola”, danz’autori, performer, musicisti e artisti visivi; è un festival che, infine, offre l’opportunità preziosa di toccare con mano diversi stadi di lavorazione del fatto spettacolare: da prime esposizioni in forma di studio, che consentono agli artisti di verificare le loro intuizioni insieme al pubblico, a montaggi di sperimentazioni diverse, a strutture più consolidate in fase di ultimazione, fino ovviamente a opere compiute e finite in senso stretto.

Ogni anno, l’opportunità è in questo caso (come in altre fortunate situazioni simili) di rintracciare qualche pressione diffusa nei teatri del nostro tempo, di intravvedere qualche filo rosso che attraversa le diverse proposte in programma, di individuare insomma qualche nodo intorno a cui sembra (il condizionale è d’obbligo) coagularsi al momento l’attenzione di diversi artisti della scena. E, di qui, verificarla con quel che accade nei nostri teatri, festival, palcoscenici.

Massimiliano Civica "Letture dal quaderno rosso" (foto di Ilaria Costanzo)

Massimiliano Civica “Letture dal quaderno rosso” (foto di Ilaria Costanzo)

Un filo comune che attraversa generazioni, linguaggi, stadi di lavorazione può essere quello stesso del teatrodel rapporto fra il processo di lavoro, la vita degli attori e degli autori e il prodotto che viene presentato al pubblico.
Si potrebbe parlare dell’apporto “biografico” che si riversa nel fare e fatto spettacolare; se con questo termine si intende però quel complesso di interazioni che la vita, professionale e personale, degli artisti intrattiene con l’opera – standovi a fianco, ma anche prima e dopo, e durante, anche proprio lì, nel momento in cui andiamo a fruire dello spettacolo. La “micro-società” degli attori (la definizione è di Ferdinando Taviani e Claudio Meldolesi), la sua irriducibile e preziosa separatezza rispetto al mondo che la circonda, i suoi ritmi e modi particolari, così estranei e irriconoscibili da parte delle persone “comuni”, rischia di uscire un po’ allo scoperto e arrivare a sfiorare il pubblico, il mondo, la realtà. Così, lo spettacolo si può considerare la punta di un iceberg che si sviluppa ben più in profondità, una soglia su una dimensione altra a cui lo spettatore può brevemente affacciarsi; e può convertirsi in un momento di incontro autentico fra il teatro e il suo pubblico, ben al di là della semplice e consueta giustapposizione che li vede confrontarsi fra scena e platea, perché consentirebbe alla vita del teatro di fluire (certo in parte e in modi diversi), attraverso lo spettacolo, nella realtà.
Quello della biografia, considerata in questo senso ampio e lato, si può afferrare come un filo tesissimo che attraversa diversi fra gli spettacoli in programma in questa edizione del festival Contemporanea; e non solo loro, a guardare a volo d’uccello le ultime produzioni della nostra scena. Così, l’attraversamento (pure parziale) del festival diventa anche quest’anno occasione di stimolo per riflettere sui modi, le tendenze, le sperimentazioni in atto più ampiamente nei teatri italiani di questi anni.

La “terza apparizione” del Jesus  di Babilonia Teatri (al debutto a Modena per il festival Vie) potrebbe sembrare una sorta di trailer dello spettacolo che fra poco sarà presentato in forma completa: è composto di alcune scene di temperatura, impianto e impatto molto differenti mostrate in sequenza – un bimbo che corre in scena sulle note di Strauss (e di Kubrick); la famiglia Castellani al completo, Valeria, Enrico e i loro due figli; un doppio monologo frontale, detto da Enrico Castellani e Valeria Raimondi; un concitato frammento di basket; un gioco con grandi lettere luminose che compongono il nome di Gesù.

"Jesus" di Babilonia Teatri (foto di Marco Caselli Nirmal)

“Jesus” di Babilonia Teatri (foto di Marco Caselli Nirmal)

Vedremo come questi materiali e approcci si svilupperanno nello spettacolo finito (per il momento, appunto, si presentano nella frammentaria forma del “trailer”, che se pure possa lasciar intravvedere qualche ipotesi di montaggio, senza dubbio lascia in secondo piano i fili concettuali e formali che andranno a sorreggere l’intera struttura del lavoro). Nel frattempo, si può annotare un dato interessante a margine di questa “terza apparizione”, che fra l’altro potrebbe disegnare uno scarto rispetto al percorso artistico della compagnia: buona parte del contenuto del doppio monologo che vede affiancati i due performer frontali al pubblico comprende elementi estratti dal processo di ricerca per la realizzazione dello spettacolo (cosa piuttosto atipica nel lavoro dei Babilonia). Si parla dell’approccio: quando hanno cominciato a lavorare su Gesù, cominciano a vederlo dappertutto; quando si sparge la voce del loro nuovo progetto, tutti hanno qualcosa da dire a riguardo (un libro da consigliare, un film da vedere, della musica da sentire…).
Il testo, in certi punti, è un montaggio esplicito di brani di canzoni, citazioni di libri e film, elenchi di titoli più o meno famosi, da Madonna a Papa Francesco a Jesus Christ Superstar; come sempre, più e oltre che l’esplorazione di un oggetto in sé, il lavoro si presenta come un’indagine caleidoscopica delle costruzioni mediatiche e delle narrazioni che vi si sono costruite intorno, che da lì si irradiano per innervarsi in profondità nella nostra cultura. Al solito, l’esito assume le forme di un autoritratto vibrante, che comprende tanto noi spettatori che i performer (accomunati ad esempio dalla trasversale cultura cattolica che ci viene imposta fin dall’infanzia con il catechismo, le feste, eccetera).
Piano piano i Babilonia hanno scoperto che «la storia dell’uomo più famoso del mondo era di tutti» e in scena dichiarano i loro “debiti”: dando vita come di consueto a un’esplorazione dell’immaginario (da quello religioso a quello pop) che si è creato nei secoli intorno alla figura del Cristo, ma allo stesso tempo, contestualizzando questi frammenti all’interno del processo di ricerca, esprimono il senso e lo spessore di una autorialità collettiva (certo già presente in altri loro spettacoli, ma solo intuibile, mentre qui è sottolineata apertamente).
Dopodiché, il processo di lavoro – raccontano – è congestionato dai troppi “consigli” esterni. Serve uno scarto, una “tabula rasa” la definiscono. E così una sera appare loro Gesù; davvero; in persona (insieme a una pioggia di rane parlanti). Il che dona un inedito tocco surreale all’approccio dei Babilonia, che sembrano qui mantenere il doppio filo della finzione e del realismo: «se parli di lui, parli con lui», dicono, ed ecco che il protagonista (senza però voler comparire nei crediti in locandina) finisce col collaborare attivamente alla creazione dello spettacolo.
E la componente “biografica” entra anche quando i due parlano di Ettore, il loro figlio maggiore, che a soli quattro anni, interrogandosi sul rapporto fra il Gesù bambino del Presepe e quello del crocifisso, arriva a chiedere della vita e della morte, della finitudine e del suo senso. Certo, anche la pizzeria di made in italy esisteva davvero, ma che differenza faceva se fosse stata reale o immaginaria, una pizzeria vera o una qualunque, inventata a partire da una provincia qualsiasi? Qui, la componente reale si innerva esplicitamente nella dimensione fictional dello spettacolo, è sottolineata e dichiarata, dando vita a un intreccio di dimensione rappresentativa e presentativa già presente in latenza nel lavoro dei Babilonia ma mai così rivendicato apertamente.
Lo spettacolo è anche il processo di ricerca, creazione, lavoro compiuto per realizzarlo. Sembra una tautologia. Ma in questa “terza apparizione” di Jesus questo elemento va a ergersi fra i perni concettuali della messinscena; è campo tematico e strumento linguistico, contenuto e forma; è esplicitamente esposto, offerto, esibito al pubblico che, forse, attraverso queste informazioni, gli aneddoti, le spiegazioni e i racconti può fruire diversamente dello spettacolo, si potrebbe dire condividendolo più in profondità.

"La recita dell'attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto" con Claudio Morganti e Elena Bucci (foto di Ilaria Costanzo)

“La recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto” con Claudio Morganti e Elena Bucci (foto di Ilaria Costanzo)

Qualcosa di simile si può dire per La recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, testo di Gianni Celati letto (e performato) al Magnolfi da Claudio Morganti (Vecchiatto) e da Elena Bucci (sua moglie Carlotta). E non solo perché attraverso la vicenda di Vecchiatto –  un tempo leggenda d’oltreoceano e finito abbandonato da teatri e impresari a recitare in una sala vuota di provincia – è possibile afferrare tanto di quel mondo separato e strano che è quello degli attori, delle loro vite professionali, artistiche, intime, delle interazioni che intercorrono fra esse; le prove, il debutto, il lavoro sul testo, il lavoro dell’attore, in scena e fuori; le relazioni con teatri, impresari, colleghi e con gli spettatori; la quotidianità fatta di fatiche e gli orizzonti vividi di ambizioni, la foga delle tournée e l’insofferenza dell’esilio in provincia, il successo e l’amarezza, la gioia di stare in scena e la rassegnazione di fare un mestiere che ormai interessa a pochi. I teatri di oggi e di ieri, i loro artisti e attori, il loro pubblico sono destinati a incontrarsi nelle parole dolci e amare di Vecchiatto e della moglie.
E la dimensione (in senso lato) “biografica” non rientra in questo lavoro neanche soltanto perché, facendo un passo più oltre, nelle invettive di Vecchiatto contro il teatro che l’ha emarginato, abbandonato, escluso passa in filigrana un attacco ai tempi che cambiano, maciullando tutto a gran velocità negli ingranaggi di un (presunto) progresso che omologa ogni cosa, costringendo l’umano a ritmi folli e frantumandone la dimensione sociale (riassunto ad esempio nell’aneddoto in cui l’attore si scaglia a prendere a ombrellate le automobili).

"Crash!" di Katia Giuliani (foto di Ilaria Costanzo)

“Crash!” di Katia Giuliani (foto di Ilaria Costanzo)

A guardare bene, un altro nodo di interesse in merito, si trova nel lavoro stesso di Claudio Morganti. Ancora una volta, invita il pubblico (poche persone, circa una trentina) a un teatro particolare, intimo e da camera, allestito (come il Mit Lenz dello scorso anno) nei sotterranei del Magnolfi: accomodati intorno ai tavolini, con un po’ di frutta e un bicchiere di vino, questi spettatori danno il senso di una piccola comunità che si riunisce intorno al fatto teatrale, che ascolta insieme un teatro che è più del teatro fatto di spettacoli, proscenio, poltroncine imbottite e sipari; è forse un teatro che unisce, che si rifrange in pochi sguardi, in cui le parole impregnano i soffitti bassi e l’oscurità, in cui è possibile scambiare un’occhiata o un cenno col proprio vicino e rendersi conto che quando si è spettatori non si è soli (come capita magari di pensare nella fruizione consueta di uno spettacolo) ma si è pubblico, al singolare e al plurale, in quanto parte di una (seppure momentanea) comunità.

Questi sono soltanto due esempi (tracciati grazie al festival Contemporanea) che possono rappresentare quanto e come si possa riversare una dimensione “biografica” (sempre nell’accezione espansa che abbiamo disegnato) nei teatri del nostro tempo. Aprendo lo sguardo al resto del programma di Contemporanea, si potrebbero richiamare altri lavori e, con essi, arricchire il discorso di ulteriori prospettive e direzioni: dal doppio performativo prepotentemente in gioco nei monologhi shakespeariani di Tim Crouch portati in scena da Accademia degli Artefatti (Io Calibano Io, Cinna), che richiedono apertamente la partecipazione del pubblico e tanto investono sul quell'”Io” di fronte al titolo, che rivendica un punto di vista personale e minore dando vita a una sorta di spinoff dalle grandi opere del Bardo; a Crash! di Katia Giuliani, in cui il pubblico è invitato catarticamente a distruggere oggetti; fino alle Letture dal quaderno rosso di Massimiliano Civica, in cui l’artista estrae frammenti dai propri appunti, in cui ha annotato citazioni e riflessioni e di qui parte per costruire un discorso o, meglio, un personalissimo viaggio all’interno della storia del teatro.

Accademia degli Artefatti "Io, Cinna" (foto di Ilaria Costanzo)

Accademia degli Artefatti “Io, Cinna” (foto di Ilaria Costanzo)

Non sono gli unici lavori a muoversi in queste direzioni, sia che si guardi a quelli che si concentrano sui rapporti fra processo e prodotto spettacolari, che invece ad altri che lavorano sui rapporti fra il teatro e il mondo che lo produce e fruisce; che si guardi alle modalità di coinvolgimento del pubblico o all’apporto strettamente biografico dell’artista.
Qualche tempo fa, Lorenzo Donati, intervenendo in merito ai rapporti fra teatri del nostro tempo e autobiografia, scriveva che queste tendenze si potevano forse leggere come «segno probabilmente di un più generale bisogno di fare i conti con il presente» (il testo è compreso nel volume curato da Stefano Casi ed Elena Di Gioia Passione e ideologia). In effetti, a ripensare alla scelta di Morganti di portare in scena la lettura della vicenda di Attilio Vecchiatto firmata da Celati, a quel teatrino di provincia e a quello invece sotterraneo e intimo ricavato al Magnolfi, alle invettive contro il teatro e contro la realtà; a ripensare a come Babilonia Teatri riversa la propria ricerca nel prodotto-spettacolo; è sì possibile provare a chiudere il cerchio, tirando il lungo filo che abbiamo dipanato in questo discorso, e, alla fine, intravvedere in questi diversi tipi di esperienze performative delle forme di teatro che provano irriducibilmente a fare i conti col proprio tempo (teatrale e non).

Roberta Ferraresi

Short Theatre 9: quale rivoluzione?

«Quali le parole che possono raccontare il nostro domani imminente (quello che sarà e quello che vogliamo)?» Se lo chiede, e ce lo chiede, Fabrizio Arcuri nel presentare l’ultima edizione di Short Theatre, che sceglie come leit-motiv La Rivoluzione delle parole, e intende porsi come occasione della domanda e della risposta, e come luogo che genera ulteriori domande.
A manifestazione finita, con un bagaglio di spettacoli visti e rivisti, proviamo a interrogarci sulle parole che sono scivolate via e su quelle che sono rimaste. In un percorso che non vuole restituire tutto, ma soffermarsi su alcuni momenti, forse costruire un arco temporale, che inizia con vicende universali per concludersi con episodi particolari.

A.H. ph Claudia Pajewski

A.H. – foto di Claudia Pajewski

Rimandano alla grande storia le parole di A.H., alla guerra, ai campi di concentramento, allo sterminio, alla dittatura, eppure in nessun momento questi vocaboli vengono pronunciati (da DreamCatcher2013 visioni e sonorità di A.H.). Perché non è un lavoro sul Terzo Reich, tanto meno sul Führer, è un lavoro sul male e sulla sua origine, è un lavoro sulla menzogna e il suo potere. È un solo in cui l’azione la fa da padrona, è un solo in cui la drammaturgia è calibrata, in cui i lemmi sono isolati, ripetuti, enumerati, fino a farsi suono, fino a sciogliersi nel corpo e lì dentro continuare a vivere.
Apre e chiude lo spettacolo menzogna, che rimanda alla falsità del linguaggio, e alla lingua come strumento di comando. Riecheggia Io, accostato a Europa – “Io sono Europa, Io ero Europa, Io sarò Europa” – a significare l’influenza di un unico uomo su un intero continente, con l’arco verbale e temporale che rende conto dell’ostinazione del male, della sua permanenza, e dei suoi, infiniti, strascichi. Sciabola. Balestra. Bombarola. Schioppo. Mitragliatrice. Sono elencate, una dopo l’altra, le armi che hanno minacciato, quelle che hanno ferito, quelle che hanno ucciso, una descrizione per oggetto che è determinazione ‘strumentale’ della guerra. Parole, quelle di Bellini e Latella, che stimolano una sorta di esercizio della memoria, per una necessaria, e collettiva, consapevolezza di ciò che è stato.

È un testo novecentesco quello scelto da Roberto Latini, I Giganti della Montagna, opera pirandelliana, metateatrale, mai finita. Campeggia al centro della scena, in uno schermo, immaginazione, come stimolo ad andare oltre un limite non fissato. Il primo atto di questo lavoro affascina per bellezza scenica, per abilità attoriale – perché Latini con la sua voce e la sua presenza è capace di evocare mondi –, stimola la nostra capacità immaginifica, ma forse non è la morbidezza di un campo di grano ciò che cerchiamo.

E allora ci risuonano nelle orecchie le parole di Handke, «non abbiamo bisogno di illusioni per farvi vedere delle illusioni». E in effetti non si vede niente in Insulti al pubblico dell’Accademia degli Artefatti –  nuova edizione di un lavoro del 2006 –  piuttosto si ascolta. Perché il dialogo tra due attori che non andranno mai in scena si nasconde dietro un sipario, o, quando è scoperto, ci arriva filtrato da un megafono. Non personaggi in una scena che non c’è, Daria Deflorian e Pieraldo Girotto discutono di ciò che potrebbe accadere, senza mai farlo accadere. La parola di Handke, parola politica di un tempo e di un luogo che non è il nostro, ci dice molto –  ancora adesso –  del rapporto tra palco e platea, tra spettatore (insultato) e attore (insultante); pone il pubblico, e necessariamente anche l’artista, in una condizione di attesa, di dubbio, e in una possibile (ri)definizione del rapporto.

Mio figlio era come un padre per me

Mio figlio era come un padre per me

E poi ci sono lavori incollati al nostro tempo, spettacoli che parlano una lingua vernacolare, talvolta cantilenante, spesso imprecante.
«Tedio domenicale, quanta droga consumare, quanti amori frantumare»: si apre con una nenia Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via, che partono dal microcosmo di Tonezza del Cimone (di cui, peraltro Diego Dalla Via è sindaco) per fotografare uno spaccato del nordest. C’è il miraggio del lavoro e della ricchezza, c’è il fallimento dei padri trasmesso –  come un virus –  ai figli, perché «il miracolo del nordest è la fotocopia smarrita del sogno americano», perché «la prima generazione ha lavorato. La seconda ha lavorato e risparmiato. La terza ha lavorato, risparmiato e sfondato… poi siamo arrivati noi».
I vincitori dello Scenario 2013 (qui una conversazione con Marta e Diego) ci raccontano, con cinismo e non senza un’amarezza di fondo, quella condizione perenne di figli che i 30/40enni di oggi conoscono molto bene, l’inabilità a decidere delle proprie vite, e la frustrazione dei padri, che finiscono per togliersi di mezzo gettandosi sotto un treno, gesto che è ulteriore privazione di azione, ultima etichetta di incapacità apposta sulla fronte dei figli.

E ancora di padri e di figli si parla nella prima apparizione di Jesus, dove ritroviamo Enrico Castellani e Valeria Raimondi alle prese con le domande dei figli, o meglio di Ettore, il più grande, interrogativi che hanno a che vedere con l’educazione, con la religione, che hanno a che vedere con la morte, e con la vita. Nel tentativo di spiegare c’è la difficoltà di mentire, lo sforzo di dire la verità, c’è lo scontro con la società cattolica, ma soprattutto quello che cogliamo (almeno in questa prima apparizione) è la bellezza e la fatica di essere genitori, oggi come ieri.

I Giganti della montagna

I Giganti della montagna – foto di Simone Cecchetti

Come si può pensare il futuro? Con un piena coscienza delle menzogne del passato? O con l’amarezza delle miserie dell’oggi? Ci salveremo con l’immaginazione? O sarà il disicanto a tenerci in piedi? Pirandello nei Giganti ci dice che «non bisogna aver paura delle parole». Latella ci racconta tutta un’altra storia.
Accanto a vocaboli secchi, diretti, violenti, che abbiamo voluto evidenziare, restano le sagome di due uomini (Roberto Latini, Francesco Manetti) accartocciati sul proprio corpo, che nella nudità si fa inerme. E questo ci parla di declino, di deterioramento, e, ancora una volta, di crisi.
A dare un senso di trasformazione, di rivoluzione se vogliamo, sono i corpi svestiti di Valeria e Enrico (Babilonia Teatri) che nell’abbraccio generano la vita.

Rossella Porcheddu

#appuntidiunfestival pt.10: Babilonia Teatri

«Chi sono
ditemi chi sono
voglio saperlo
Sono le codine che mi hanno fatto
le gonne che mi hanno messo
gli orecchini che mi hanno appiccicato»

Undici anni e due spettacoli con i Babilonia, Olga Bercini non ci attende in scena. Capelli sciolti e gonna di jeans, percorre la platea con un monopattino. Sul palco stavolta c’è un microfono e la voce di Valeria Raimondi, a interrogarsi su chi sia Lolita, a chiedersi cosa pensa, come parla.
Cambia, rispetto alla prima nazionale al Napoli Teatro Festival, il nuovo spettacolo dei Babilonia Teatri, Lolita. Si muovono in due nello spazio scenico, cantano in playback, sfilano, giocano. Una salta la corda, l’altra appiccica post-it con frasi d’amore.
I pensieri, da confessare a un diario segreto, da chiudere a chiave in un cassetto, scorrono sul grande schermo, scritti a mano con pennarello verde su foglio bianco. 

«Sono il divieto di saltare che ti si alzano le gonne
di correre che ti si scombinano i capelli
di andare sull’erba che ti si sporcano le scarpe
sono l’ordine di incrociare le gambe che ti si vedono le mutande
di non giocare con la terra che ti si rovina lo smalto
di non fare la lotta che sembri un maschiaccio»

Ragazzina come tante, Lolita è cresciuta tra divieti che le hanno imposto e frasi che le hanno sussurrato. Ha sognato principi azzurri, si è imbattuta in lupi.

«Mia unica speranza di riscatto è lui
rischierò la vita per lui
per un ballo con lui
per essere sua»

Lolita è un corpo non ancora formoso, un’adolescente non ancora donna. Lolita può essere ferita. Lolita può essere adorata. Lolita può essere spogliata. Lolita può essere violata. Lolita si è suicidata.

«Mi hanno trovata impiccata in garage.
Nuda.
Ero truccata pesantemente.
Due segni neri di matita intorno agli occhi. Mascara. Rossetto deciso»

lolita 1

*La redazione di b-stage 2013 è composta da Elena Conti, Roberta Ferraresi, Rossella Porcheddu, Carlotta Tringali