Nello scorso Romaeuropa Festival 2013, Jan Fabre ha riproposto con un cast rinnovato di giovani performer due spettacoli degli esordi al Teatro Eliseo di Roma: The power of theatrical madness e This is theatre like it was to be expected and foreseen, rispettivamente del 1984 e del 1982. Ne segue non una recensione, ma una riflessione sociale sul senso dell’arte nel contesto della realtà contemporanea, ospitata dai Quaderni del Teatro di Roma in un dittico con Simone Nebbia, il cui articolo è ora anche su Teatro e Critica.
Ossessiva ripetizione. Eterna mutazione. Dualismo oppositivo. Reiterazione del movimento, geminazione delle immagini, serialità delle azioni. Crudele, violenta, iperbolica, l’estetica di Jan Fabre si muove sui binari dell’iterazione e della contrapposizione, s’incentra sulla trasformazione e la rigenerazione, del mondo come dell’uomo, e s’incide sul corpo, assoluto protagonista, soggetto e oggetto di una ricerca totalizzante, che esplora limiti e confini, che indaga passaggi e condizioni. È decostruzione e ricostruzione, potente drammatizzazione e costante tensione, esplorazione della condizione fisica, che è specchio di quella esistenziale.
Collimano, etica ed estetica, nel pensiero dell’artista belga, pittore, scultore, coreografo, performer, per il quale la bellezza è vulnerabilità antropica che non conosce tempo né luogo. È distruzione e ricostruzione che attiene alla natura e all’uomo in quanto animale, è fuga dalla soluzione, circolarità, esaltazione del conflitto. Non per niente Fabre chiama i suoi perfomers “guerrieri della bellezza”, e la lotta è tema di alcune azioni, Virgin Warrior, realizzata con Marina Abramovich nel 2004, Lancelot, lavoro in cui Fabre combatte se stesso, e Sanguis/Mantis, costrizione fisica in un’armatura da mantide religiosa, performance che racconta una passione entomologica, il rapporto tra uomo e arte, e la dicotomia tra eros e thanatos. Opere che fanno parte di Stigmata – Actions & performances 1976-2013, ampia esposizione che ripercorre il cammino visivo e performativo dagli anni Settanta a oggi. Un atto sacrificale, come descritto da Germano Celant, che cura la mostra. Un’operazione che si può definire archeologica negli spazi del Maxxi, su 92 tavoli di vetro, quasi un laboratorio scientifico che espone strumenti, materiali, oggetti, accompagnati da disegni, film, sculture. E un’operazione di re-enactment sul palco dell’Eliseo, per Romaeuropa 2013, con The power of theatrical madness e This is theatre like it was to be expected and foreseen, riallestimenti dagli originali del 1984 e del 1982, spettacoli – della durata di quattro ore l’uno e di otto ore l’altro – che mettono a dura prova la resistenza fisica e psicologica del nuovo cast. In scena e in video, nella logica di una consilience tra arte e teatro, il corpo, materia di carne, è schiaffeggiato, solleticato, disegnato, sculacciato, scartavetrato.
Un’indagine sulla corporeità che affonda le radici nella tradizione fiamminga, che deve ai pittori di Bruges e ai loro cristi crocefissi, flagellati, morenti, la sperimentazione dello strazio, la prova di una sofferenza senza catarsi, tra verità e simbologia. Una nudità esposta, martoriata, una classicità dissacrata, spunti favolistici, citazionismo che va dalla pietà michelangiolesca – cara all’artista di Anversa – al poverismo di Kounellis, che ritroviamo nei ganci da macellaio, nelle fiamme ossidriche, perfino nei pappagalli. Scompone la temporalità, Jan Fabre, destruttura le sequenze, moltiplica le azioni, trapassa la pelle per spremere emotività. Copre con pantaloni neri e camicie bianche fisionomie maschili e femminili, rendendole uguali. Archetipi dell’umano che arranca, ride, corre, bacia, balla, urla, ingoia, soffoca, striscia, vomita. Cerca la natura fuori e dentro di sé, chiamando in causa uno spettatore che non sia solo ricettore di immagini ma parte attiva del farsi, incanalatore di percezioni, di fastidi epidermici e di tormenti visivi. E se è difficile sostenere lo sguardo davanti ai gesti provocatori, come la scarnificazione di Me dreaming, a parlarci, oggi, sono le azioni comuni, quel rincorrere, quell’arrancare, quell’affannarsi senza arrivare da nessuna parte.
Rossella Porcheddu
Questo contenuto è stato originariamente pubblicato sui Quaderni del Teatro di Roma
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