Motus: quale comunità in un panorama in movimento?

In vista del debutto europeo della nuova produzione firmata Motus Panorama, che andrà in scena il 14 e 15 marzo (2018) al Vooruit Kunstencentrum, Daniela Nicolò e Enrico Casagrande condividono uno spazio di riflessione sui temi dello spettacolo durante il periodo di prove a New York, lo scorso inverno. Nato dall’invito della direzione artistica de La MaMa a collaborare con il gruppo interetnico di attori residenti della Great Jones Repertory Company, il lavoro ne adotta le biografie come asse drammaturgico, ricavando un percorso attorno alle esperienze diasporiche legate a scelte artistiche. E il nomadismo, già affrontato da Motus in diversi spettacoli precedenti come Nella Tempesta, appartiene alla biografia collettiva della compagnia stessa. Abbiamo allora domandato cosa comporta essere sempre in movimento e stranieri in ogni luogo, se esiste un posto da chiamare casa e un insieme comunità.

In Panorama avete lavorato sulle storie del gruppo di attori della compagnia de La MaMa, da dove nasce il vostro interesse per la biografia come elemento drammaturgico?

Daniela Nicolò: C’è sempre stato in tutto il nostro lavoro, anche quando avevamo altri testi di riferimento, come in Antigone o Nella Tempesta. Abbiamo sempre chiesto agli attori di connettere il lavoro a dei momenti precisi della loro storia. Mentre poi con MDLSX abbiamo fatto uno step ulteriore creando un gioco di auto-fiction tale in cui tutti credono che si tratti della biografia di Silvia [Calderoni, ndr] ma in realtà non c’è una sola parola sua, tutto viene dal romanzo [Middlesex di Jeffrey Eugenides, ndr] o da altri estratti letterari.
Nel lavoro verso Panorama appena abbiamo cominciato a sentire frammenti dei percorsi biografici degli attori che abbiamo intervistato, ci sono sembrati talmente straordinari – forse anche per il fatto di essere stranieri rispetto al loro mondo – che abbiamo deciso di volerne fare l’asse portante. C’erano tanti temi che volevamo trattare, il tema della migrazione, del rapporto col trumpismo… ma non volevamo affrontarli in modo diretto, con il solito “discorsetto”.
Quindi questo lavoro è divenuto l’opposto di MDLSX: tutto quello che è scritto è vero, tutto viene da loro, ma presentato in modo tale che sembrerà fiction.

Enrico Casagrande: Queste persone hanno delle storie straordinarie, come tutti noi. Penso che ognuno sia unico (abbiamo a lungo discusso con gli attori del termine snowflake mutuato da Fight Club che ora è al centro di una polemica densissima e controversa negli Stati Uniti rispetto alle nuove generazioni…).
Partendo dalle biografie del gruppo stiamo cercando di trarre dei principi che possano poi convertirsi in specchi, diventare un momento condiviso, per parlare con il pubblico con degli elementi di verità che sono toccanti proprio perché di non-fiction.

Nel video di presentazione di Panorama viene chiesto agli attori del progetto: «What is acting?». Vorrei porvi la stessa domanda, considerando la doppia connessione tra acting/recitare e acting/fare, tra quello che accade sul palco e fuori.

D.N.: La domanda che abbiamo fatto agli attori – modulata proprio in questo senso – per noi è la chiave, perché innanzitutto abbiamo sempre pensato a un teatro che fosse anche pragmatico; che, come Nella Tempesta, cercasse di far accadere qualcosa sul palco, con gli spettatori, non necessariamente con il coinvolgimento fisico. E in alcuni casi si trasformava anche, quando abbiamo lavorato con Judith [Malina, ndr] o in altre performance, in un’azione in una piazza o qualsivoglia spazio pubblico. In questo caso la domanda è molto legata all’acting teatrale perché le persone che abbiamo coinvolto sono tutti attori, ma l’idea di acting che hanno è diversa da quella che c’è in Europa. Innanzitutto fanno subito una distinzione tra cinema e teatro, e anche con loro è nato subito questo parallelismo con il “fare”; qui siamo nella società del “fare” per eccellenza, siamo nella società del pragmatismo, c’è una ossessione per il “fare” nel modo corretto: continuamente fanno classi, in cui insegnano o seguono corsi di aggiornamento, c’è molta preoccupazione per la tecnica.
Infatti abbiamo deciso di utilizzare il dispositivo del casting in cui loro ri-attivano, ri-creano la dimensione dell’audizione. Chiediamo: come riesci a presentare te stesso? Loro faranno… non so quante audition a settimana, sia per cinema che per teatro, e devono capire in base a chi hanno di fronte come rapportarsi, e trovare il miglior modo per “vendersi”. Stiamo lavorando su questo, riutilizzando le registrazioni che hanno fatto con noi – perché abbiamo fatto finta di fare queste audition per dei ruoli immaginari – al momento del casting per uno spettacolo che alla fine non esiste.

E.C.: E dall’altra parte – tornando anche alla domanda di prima sulle biografie – ovviamente è recitare se stessi, e qui si scatena il corto circuito. Ci chiediamo come questa parola acting entri e si trasformi nell’essere se stessi e nel raccontare se stessi: in che modo viene declinata? In questo caso è acting o non lo è? In cosa si trasforma? Questa è stata ed è una grande questione che stiamo aprendo anche in sala prove: in che modo ri-rappresentare se stessi, con se stessi? In un gioco di specchi che, in quel “contratto” che può essere il teatro, qualsiasi cosa tu stia dicendo, anche la storia più intima si trasforma in un linguaggio con un codice proprio, in cui l’attore viene ascoltato da un pubblico che crede o non crede a quello che sta dicendo; vero o non vero che sia, comunque c’è questo passaggio, questo filtro. Questo non è “teatro-verità” e non vogliamo fare “teatro-verità”. Ossia non vogliamo mettere il freak sul palco, dove è lui stesso con il suo corpo e le sue parole che porta in scena un pezzo di realtà. Vorremmo comunicare con delle parole vere, ma portare tutto questo in un codice che sia allo stesso tempo “teatrale”, che comunque rimanga all’interno di questa finzione.

La biografia de La MaMa è attraversata dal bisogno di costruire una family, una comunità. Come si declina questa volontà di condivisione nella vostra compagnia da un lato, e nei confronti del pubblico dall’altro?

D.N.: Innanzitutto per quel che riguarda il discorso della partecipazione dello spettatore, fisicamente e in vari modi – uso un po’ il passato – ci ha interessato per molto tempo, però sempre con dei dubbi. Non mi piacciono gli spettacoli che coinvolgono in modo forzato o che fanno sentire a disagio. Poi con MDLSX è avvenuto uno scarto: nonostante non ci sia il minimo coinvolgimento delle persone, o rottura della cosiddetta quarta parete, il lavoro ha avuto delle risposte incredibili dal pubblico in tutto il mondo da Napoli a Rio de Janeiro, da Taipei a Wrocław. Proprio in Polonia la gente durante gli applausi è andata sul palco ad abbracciare  Silvia,  perché  data  la  particolare  situazione  politica  lì,  con  la  destra  che  cresce vertiginosamente, MDLSX ha dato forza, invitando tutti a reagire… Quindi alla fine mi sto anche dicendo che forse non è così necessario coinvolgere fisicamente gli spettatori, l’importante è che il lavoro sia incisivo, a livello emotivo e concettuale. Se lo è, arriva comunque: per me è importante questo, smuovere qualcosa nello spettatore, fargli fare delle domande, fargli pensare e scoprire qualcosa di diverso che poi questo implica anche un movimento fisico.

E.C.: Per quel che riguarda l’altra domanda, sulla costruzione di una famiglia, bisogna ricordare anche il fatto che La MaMa si chiama “Family”. Quello che emerge dalla realtà newyorkese – quando c’era una figura forte come Ellen Stewart o Julian Beck e Judith Malina per il Living Theatre – è che si tratta di grandi comunità che vengono da un trascorso anni ’70, cioè un momento storico che richiedeva e permetteva un senso della comunità più forte. Attorno a queste figure trainanti e carismatiche si è formato un nucleo di persone che – ancora oggi nel caso de La MaMa – continuano a frequentare e sostenere, e a essere sostenute da questa realtà, anche perché La MaMa è un luogo fisico, anzi un teatro meraviglioso.
Però ora con la mancanza di Ellen quindi della “mamma”, se lo si vuol vedere in senso verticalistico della famiglia c’è una reiterazione di questo senso di famiglia ma senza qualcosa oltre al ricordo – che la lega. Io credo quindi che sia un momento di passaggio anche per questa comunità, ma lo è in generale. Cosa significa comunità? Mi interrogo molto perché sento che è sempre più difficile condividere-crederci così appassionatamente come poteva avvenire in altri momenti storici.

D.N.: Parlare di comunità in questo modo per noi non ha più senso, il concetto è molto, molto cambiato. Abbiamo degli amici più giovani che parlano delle loro comunità digitali, in cui puoi comunicare e creare coesione a distanza, ed essere in connessione, ma sono due cose molto diverse.

A proposito del vostro nomadismo: Motus è una compagnia che spesso lavora attraversando spazi e Paesi, ma dove e quando è stata l’ultima volta che vi siete sentiti a casa?

E.C.: Io uso sempre questa metafora: noi ci sentiamo moltissimo una linea in connessione con una serie di punti e di realtà, di snodi che a volte sono anche coincidenti con dei punti fisici. Uno tra questi è sicuramente La MaMa, uno è in Svizzera, una volta era il Valle [Occupato, ndr] quando esisteva, l’Angelo Mai a Roma… sono per noi dei punti in cui riusciamo in qualche modo a portare le nostre esperienze e la nostra diversità di persone sempre in movimento. Se devo dire in questo momento quali sono questi luoghi, uno è sicuramente l’East Village che frequentiamo dal ‘98 – non possiamo dire New York – e qui ci sentiamo proprio a casa perché oramai ne capiamo la dinamica, perché abbiamo un dialogo molto forte con tante persone, perché conosciamo e ci riconosciamo in questo luogo, così old style e così moderno al tempo stesso. L’altro per me è Losanna in Svizzera, dove sono un po’ di anni che frequentiamo una scuola di teatro (La Manufacture), in cui “insegniamo”. In realtà non è un vero insegnamento, siamo degli intervenants: interveniamo in questa percorso, e il termine ci pare più appropriato.

D.N.: Poi c’è naturalmente Santarcangelo, che è proprio casa nostra; ma anche uno di quei luoghi in cui ogni anno si materializzano delle comunità che si sono trasformate nel tempo anche in base alle scelte artistiche dei curatori – con cui ogni volta però riusciamo ad entrare in contatto. Ad esempio quest’anno Santarcangelo ha visto arrivare tante persone da Milano, Roma e Bologna, con Macao, l’Angelo Mai e Atlantide, tante…  non so se chiamarle comunità, meglio “zone” – importanti luoghi collettivi italiani di cui conosci bene le dinamiche – che sono confluiti tutti lì. Per noi è stata una situazione di ritrovo, come quando vai dai parenti, la stessa situazione famigliare che noi odiamo in realtà [ride, ndr]. Sono luoghi con cui abbiamo condiviso delle esperienze intense, che vanno bene al di là dell’aspetto lavorativo-teatrale, e incontrarsi in un festival di teatro che accoglie e dà voce a queste pluralità non è così usuale in Italia! Anche qui a La MaMa ci dicono «voi siete parte della family!»… Proprio noi, che abbiamo fatto un laboratorio che si intitolava Noi non siamo una famiglia!

E.C.: Ripeto quello che ho detto prima come inciso: io la famiglia la vedo sempre come una verticalizzazione, ci piace parlare più di fratellanza e sorellanza, quindi di un qualcosa di orizzontale in cui si è più fratelli e cugini, che figli e genitori.

D.N.: Quando arriviamo qui a La MaMa abbracciamo e baciamo quaranta persone… C’è un legame molto affettivo-affettuoso indelebile: può passare un anno o più ma ormai si è stabilito fra noi qualcosa di speciale.

Il vostro dinamismo è legato a ragioni economiche o è di arricchimento drammaturgico? In altre parole: viaggiate per necessità o perché questo rende il vostro lavoro “migliore”?

E.C.: Per noi la risposta è semplice e complessa. C’è una data precisa che è il 2005, un momento proprio spartiacque per il nostro fare teatro, perché Motus fino al 2000-5 è stata una vera comunità, nel senso forte della parola. Una comunità autarchica – che abbiamo fondato con David Zamagni degli attuali Zapruder, nei primi anni ‘90 – che funzionava 24 ore su 24, con un coinvolgimento totale su tutti i fronti, su tutti gli argomenti. Avevamo dei luoghi, all’inizio decadenti sempre senza riscaldamento, o spazi occupati, in cui ci invitavano temporaneamente… Poi abbiamo affittato un capannone industriale all’inizio del ‘99-2000 che abbiamo tenuto per 4-5 anni: era molto bello, con all’interno il laboratorio di scenografia, la cucina e gli uffici… Nel 2004 io e Daniela, e quelle che in quel momento erano le persone che ci circondavano, abbiamo un po’ perso il senso di comunità, questa dimensione totale; si iniziava a lavorare sempre più con delle persone “esterne”, con delle competenze specifiche. E ci siamo resi conto che avere un spazio era diventato quasi una prigione, dove sì, sviluppavamo, provavamo, stavamo a nostro agio… però non c’era ricambio di ossigeno. Quindi abbiamo deciso di abbandonarlo, di non avere più niente, e abbiamo iniziato le nostre residenze in giro per il mondo, prima in Francia e poi da lì non abbiamo più avuto un luogo fisico, anche se ci è stato riproposto.
Certo è che questa fase ha coinciso con l’inizio dei nostri progetti fuori dalle sale teatrali, e proprio in quell’anno lì abbiamo avviato il nostro primo lavoro su Pasolini, siamo andati a Roma e Napoli affittando un camper, dove abbiamo anche vissuto, per filmare le periferie pasoliniane. E poi ICS in cui è entrata anche Silvia Calderoni, dove abbiamo cominciato sempre dal di fuori, dall’esterno – che poi è diventato importante e problematico capire come tradurlo all’interno. Però c’è stato uno slancio forte verso il fuori, verso l’esterno, verso lo sconosciuto, se vuoi… verso lo straniero.

D.N.: Ma la scelta non è stata dettata assolutamente da motivi economici, anche se, ammetto, era difficile mantenere quel luogo. Abbiamo detto: ok, liberiamoci di questo e affidiamoci alla sorte di chi ci ospita, e iniziamo una nuova fase. Che è stata alla fine molto faticosa ma anche molto produttiva per noi, con degli alti e bassi.
Abbiamo sempre avuto molte persone con cui condividere le scelte, sempre un attore con cui aprire un dialogo più approfondito. Un terzo, diciamo, che prima era Dany Greggio, poi David Zamagni di Zapruder per molti anni, e ora Silvia. Quindi questi spostamenti-scelte in realtà li abbiamo sempre decisi a tre, per poi coinvolgere tante altre persone. Per noi (che siamo una coppia) è molto importante avere una triangolazione, un terzo polo con cui incontrarci/scontrarci, perché aumenta il dinamismo dei pensieri. Qui a New York abbiamo una speciale assistente/attrice/drammaturga che ci affianca, Lola Giouse.

Panorama, come si legge nella presentazione, è una parola legata alla possibilità di «vedere il più possibile», senza barriere o limiti all’orizzonte delle opportunità. Contestualizzata nella cultura americana – da una parte la land of freedom e dall’altra l’attuale epoca trumpiana – la visione panoramica appare fortemente legata o alla “scalata sociale” o al privilegio. Quanto e come ha inciso questo contesto nel lavoro? E come avete affrontato l’essere stranieri in terra straniera e contemporaneamente visitatori privilegiati?

D.N.: È una bella domanda… perché questa dimensione di estraneità la viviamo, anche ovviamente legata alla nostra condizione di nomadismo. Per quanto ci siano dei posti in cui puoi sentirti at home… in realtà rimani sempre quello che li visita, quello che se ne va, quello che viene ospitato, e quindi c’è sempre il sentirsi estranei. E anche qua, che sono molti anni che veniamo, cominciamo solo adesso a capire un po’ di più.
Ed è chiaro che il lavoro è fortemente radicato a New York – neanche alla situazione americana –, è proprio newyorkese, perché anche se [gli attori, ndr] hanno diversi background adesso sono cittadini americani e si confrontano ogni giorno con quello che significa farsi una assicurazione, trovare lavoro… L’altra sera abbiamo finito la prove e il ragazzo domenicano ci ha detto: «bene, ora io devo andare a fare le pulizie». Si era ricavato queste ultime due ore di notte per andare a fare le pulizie negli uffici, perché ovviamente quello che guadagna facendo teatro, facendo spettacoli, non gli basta per vivere qua.
E quindi è anche chiaro che noi siamo privilegiati, perché siamo ospiti, abbiamo un bellissimo appartamento – che era la casa di Ellen Stewart –  grandissimo, spoglio, semi-vuoto, non è certo ricco, però abbiamo questo loft in cui a New York ci vivrebbe un esercito… dunque è sicuramente una posizione privilegiata… Però stiamo davvero vivendo con loro questa esperienza, non a caso tutte le parole del lavoro sono degli attori. Io ad esempio, che di solito scrivo o colleziono testi, non mi sentivo di dare delle parole scritte da dire, anche se stiamo cercando di rompere l’idea di storytelling che al contempo non ci interessava… e ci stiamo lavorando con loro, lasciando molto spazio a quello che a loro preme dire.
Non si parla mai direttamente di Trump, tranne in alcuni inevitabili momenti, dato che lo vivono fortissimo sulla loro pelle, anche perché sono tutti comunque stranieri. Al tempo stesso però c’è la musicista, e questo è molto bello, che è l’unica bianca, bionda, del Michigan – che ha visto il primo nero a diciotto anni – che si sente straniera nel gruppo.
E con il fatto che noi siamo italiani, siamo sempre – ancora – considerati un po’ stranieri-migranti… e per questo hanno anche un particolare senso di fratellanza nei nostri confronti. L’immagine dell’italiano non è cambiata così tanto qua: manca poco se ti chiedono se hai la lavatrice in casa!
Quindi, per riassumere, sì noi siamo fuori però penso anche che non siamo mai stati così dentro. Abbiamo deciso di dedicare questo tempo a loro in questo modo, e ci hanno detto: «guarda, è la prima volta che nella mia vita dedico del tempo a ricostruire dei pezzi di me». Ora non è che facciamo teatro-terapia, però anche gli altri attori della Great Jones [Repertory Company, ndr], che magari hanno fatto solo l’intervista, hanno capito che era diversa, che non era un provino, era un dialogo davvero profondo. Ci hanno ringraziato, perché si sono ritrovati a parlare del proprio lavoro, dell’essere attori, prendendo dello spazio per sé.
C’è un legame di amore, di condivisione fortissimo. Al di là degli orari, sono disposti a tutto per Panorama… Ci hanno aiutato a smontare, a caricare materiali… e in un contesto americano non esiste che un attore faccia questo. Perché sentono il progetto anche proprio, con noi; e al di là delle differenze, è bello.
E ci preoccupa: abbiamo troppe responsabilità [ride, ndr].

Abbiamo parlato di movimento e vorrei concludere con una domanda che mi fa sorridere, estratta da Pasolini, autore a voi molto caro: «Dove va l’umanità?»

E.C.: Eh dove va l’umanità… esiste l’umanità? Sai che non lo capisco, è un momento in cui… forse già due o tre anni fa ti avrei risposto diversamente. Verso l’individualismo, ma è semplice dirlo. Forse l’umanità va proprio contro questa intervista che stiamo facendo, nel senso che abbiamo cominciato a parlare di comunità, di come si voglia fisicamente cercare di nuovo una coesione, uno stare insieme, un fare insieme, come questo diventi sempre più difficile. Io sono anarchico, quindi non mi fa paura l’individualismo, nel senso che i singoli possono fare tanto.
Non lo so, la farei a te questa domanda… perché mi rendo conto che nonostante abbiamo sempre un buon contatto con le nuove generazioni, davvero non riesco ad essere costruttivo come lo sono stato in altri momenti. Forse dipende anche da noi, che stiamo invecchiando.

D.N.: Anch’io posso dire, da anarchica, che continuo a credere nelle piccole comunità, nella possibilità che possano nascere delle piccole comunità sovversive, però in generale vedo un “panorama” pessimo. Mi sento davvero pessimista, anche se continuo a credere nelle alleanze di corpi – per citare l’ultimo libro di Judith Butler – e in tutte le piccole forme di raggruppamento, anche momentanee e temporanee.
Se dovessi parlare del futuro dell’umanità, se penso al clima, a questo fuckin’ paese americano… davvero vedo un pianeta che va verso la rovina… e forse la nostra estinzione non sarebbe neanche un male. Anzi ci auguriamo proprio l’estinzione… che del resto altro non è che trasformazione.

Questa intervista è stata realizzata su commissione del Vooruit Kunstencentrum di Gent (B) che ne pubblica in contemporanea la traduzione fiamminga in cartaceo e online, come approfondimento in occasione del debutto europeo dello spettacolo.

Illustrazioni di Camilla Carè da foto di Yarie Vazquez, La MaMa E.T.C. (on Twitter)Theo Cote.

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