Attraversare un altrove: incontro con Michele Di Stefano all’Angelo Mai

TROPICI_pieghevole_front-lightC’è chi si aggrappa a un palo sognando le Dolomiti di fronte alle Terme di Caracalla, come Cristian Chironi. Chi trasmette un codice corporeo danzando versi di Kerouac, come Marco Mazzoni di Kinkaleri. Chi, come Monica Gentile, ricerca una ‘minimal dance’ e chi, come Fabrizio Favale, allude a paesaggi arcaici. Chi ci attrae magneticamente verso un interno borghese, come Rhuena Bracci di gruppo nanou. E chi ci osserva dietro la maschera di Spiderman, come Iacopo Fulgi dei Tony Clifton Circus, avvolto in una ragnatela di nastro isolante. Ci sono danzatori, performer, artisti che hanno accolto l’invito di Michele Di Stefano a intraprendere un viaggio nella performance, attraversare un altrove, tracciare e incrociare traiettorie. A raccontarci la temperatura, le condizioni e le fruizioni di Angelo Mai Italia Tropici è il coreografo di MK, direttore artistico della manifestazione sostenuta da PAV, che ci presenta, in quest’occasione, i suoi progetti estivi, dalla partecipazione a Danza Urbana al Festival di Santarcangelo, dalle Serate di danza dell’AND alla Biennale College. Senza dimenticare alcune riflessioni sulla pratica performativa, sui compagni di viaggio e sulle possibilità del corpo. Parola chiave, “outdoor”: fuori dai luoghi e fuori dalla danza.

«La tre giorni romana nasce da un desiderio di incontro: ho sempre considerato l’Angelo Mai un luogo importante in città, non solo da un punto di vista urbanistico-atmosferico, ma anche per la programmazione culturale, perché offre condizioni di gestione e fruizione dello spazio flessibili e sregolate, pur mantenendo un’alta qualità degli oggetti performativi e il rispetto per il pubblico.
Ho risposto all’esigenza di aprire alla danza contemporanea con un progetto che ha una posizione differente rispetto al consumo del prodotto-spettacolo, e a cui si vuole dare un’occasione di periodicità, cioè la possibilità di costruire un discorso sulla performance, di sperimentare visioni e fruizioni senza confini. Lo specifico della danza è stato inteso alla mia maniera, estremamente espansa, quindi c’è tutto ciò che riguarda l’atteggiamento del corpo di fronte alla manifestazione di sé e di fronte a un pubblico».

Come hanno reagito gli spettatori? Avete avuto un buon feedback?
Sì, siamo stati molto attenti a come il pubblico ha vissuto e annusato Angelo Mai Italia Tropici. È stato colto il punto, cioè tenere una tensione alta al di là dell’apprezzamento sul singolo spettacolo; anche perché non faccio una selezione di questo tipo, mi interessa l’atteggiamento dell’artista rispetto a quello che produce.

Quindi estrema libertà sul pezzo proposto?
Hanno scelto gli artisti quando, quanto, come, e che tipo di ricerca proporre. Certo, avendo questo atteggiamento decontratto, è importante che la macchina sotterranea sia solida, perciò io, Francesca Corona, alla direzione organizzativa, e il direttore tecnico, Davide Clementi, abbiamo voluto garantire una piattaforma di base sulla quale loro potessero oscillare liberamente. Ciò che chiedo è che non venga vissuto come una rassegna. Entrare nel quadro della politica culturale romana non vuol dire sovrapporsi con uno specifico ad altri festival. Però, mi piacerebbe che ci fossero delle casse di risonanza tra questo progetto, Short Theatre, ad esempio, o i progetti Dna curati da Anna Lea Antolini.

mic_in_lawL’Angelo Mai, l’India di Perdutamente, il Museo Pigorini. C’è un senso diverso nel fare spettacoli in questi altrove?
La parola chiave è “outdoor”: stare fuori, anche in termini di danza. Per me l’attitudine del performer è quella del corpo all’aperto, con le vertebre che si pongono in una condizione molto più liquida, perché all’aperto le regole non sono certe e la scansione del tempo non è prevista.
L’Angelo Mai è stato scelto perché permette l’avvicinamento alla costruzione di un evento che ha questa qualità. Nell’avvicinamento succedono le cose più interessanti del processo, e qui c’è la flessibilità giusta perché ciò accada. Inoltre, spostare l’appuntamento fuori dai teatri apre il desiderio di condividere il tempo con lo spettatore in spazi che non lo hanno già regolamentato; riguarda il desiderio di incontrarsi con un atteggiamento più aperto, mentre il teatro ha le sue regole, ed è interessante perché ha quel cerimoniale che a volte mi piace indagare.

A ottobre, durante uno degli incontri Waiting for Dna all’Opificio insieme ad Alessandro Sciarroni, si è aperta una riflessione sulla pratica performativa e si sono raccontati i diversi processi creativi. Come si svolge il lavoro per i performer di MK?
Quando c’è una richiesta specifica è dichiarato che si tratta della superficie delle cose, cioè ci sono dei pattern di movimento che vengono proposti perché vengano dimenticati; il performer deve eseguirli in automatico per occuparsi di altro, della questione del tempo, ad esempio, o dell’incidente tra una cosa e un’altra. In generale, io creo una condizione, che è molto rigorosa, perché non si parla di improvvisazione ma di una temperatura specifica che il corpo deve raggiungere e che, quando manca, può far crollare lo spettacolo. E il rischio è continuo, perché non c’è una scrittura che può essere letta come idea: se non c’è il corpo, non c’è lo spettacolo e questa è una presa di posizione chiara.

Questo vale anche quando c’è il coinvolgimento del pubblico, com’è stato per Clima a Perdutamente?
Al pubblico chiedo esattamente la stessa calibratura che chiedo a Biagio Caravano: tutti sono nella stessa condizione, nella stessa difficoltà. È una gestione di sé, della propria partitura fisica in tempo reale in uno spazio visto per la prima volta. All’India era quasi sempre lo stesso, a Santarcangelo, dove Clima accompagnerà l’intera durata del festival, sarà ogni giorno differente. A settembre saremo a Bologna per Danza Urbana, dove vorremmo usare una visione quasi esclusivamente da lontano, nell’orizzonte. E poi Clima sarà anche a Short Theatre. L’idea è di creare una comunità di agenti segreti, che portino avanti il processo, perché hanno un bagaglio alfabetico di sequenze che possono continuare a utilizzare nel tempo.

Michele Di Stefano in "Speak Spanish" - foto di Amedeo Novelli

Michele Di Stefano in “Speak Spanish” – foto di Amedeo Novelli

Tra i progetti estivi, c’è la partecipazione di MK a Biennale College. Come si articolerà Invenzioni?
Costruirò con i performer una durata, fatta di creazione, di studio, di ricerca. Non li utilizzerò come interpreti di un progetto già prefissato, ci muoveremo insieme. Ho delle idee, ovviamente, ma rispondo anche alla situazione che mi trovo davanti. Inoltre, Virgilio Sieni, con il quale ho un ottimo dialogo, ha chiesto di presentare anche il lavoro specifico di MK, perciò vorrei far incontrare Impression d’Afrique (visto da poco a Roma, al Museo Pigorini, ndr) con il progetto Invenzioni. Ho invitato anche Lucia Amara a parlare di Raymond Russel, che è una delle piste che stiamo seguendo per Impression d’Afrique, e Margherita Morgantin farà un intervento sul clima di quella situazione nella Sala Loggione alla Fenice, dove si svolgerà il laboratorio, sempre in pomeridiana, con la luce naturale e le finestre aperte.

Una coreografia per l’Accademia di Danza su musiche di Wagner, Joseph_kids con Alessandro Sciarroni e la presenza nel cartellone 2013\2014 del Teatro di Roma. Un’estate di impegni e una nuova stagione intensa?
Il lavoro di Sciarroni mi interessa molto, e ho accolto volentieri il suo invito. Il progetto con l’Accademia Nazionale di Danza, con la quale c’è un dialogo dallo scorso anno, mi ha regalato molte sorprese: è un ambito che non mi aspettavo così fecondo, gli allievi sono super alfabetizzati, hanno una disponibilità alta, e quando annusano che qualcosa cambia nella loro possibilità di espressione corporea, leggi nei loro occhi il cambiamento, ed è magnifico. E poi ci sarà la produzione all’Argentina a febbraio, dove concluderemo il ciclo sul viaggio, sull’altrove, con Robinson.

Progetti, collaborazioni, incontri, e la presenza costante dei compagni di viaggio, Philippe Barbut, Biagio Caravano, Laura Scarpini. Qual è il segreto di un rapporto così duraturo?
Il desiderio di lavorare ancora insieme, un’apertura costante verso altre persone. Ma soprattutto la capacità di spostarsi in continuazione. Spostandoci ogni volta, quello che ci troviamo davanti è alla stessa distanza da tutti, e quindi siamo di nuovo insieme.

Intervista a cura di Rossella Porcheddu

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