Il mare di Francis Bacon

Recensione a Francis Bacon a Ostia Lido – regia di Gianluca Bottoni

Francis Bacon a Ostia Lido

Francis Bacon è noto tra i banchi di scuola per aver fatto la linguaccia a Velàsquez con il suo Innocenzo X, il papa che stride sul trono come su una sedia elettrica. Uno dei diaframmi visivi su cui si gioca la “lotta con l’oggetto” tanto cara a Bacon è la rappresentazione del corpo come carne, scotennato dal pennello, ghignante e sfatto. Nel 1954 il pittore irlandese viene invitato dalla Biennale di Venezia in rappresentanza della Gran Bretagna, ma una volta in Italia decide di andare a soggiornare sul litorale laziale. Da qui fa capolino lo spettacolo della compagnia romana G. B. Studio, presentato giovedì 29 ottobre al Centro Culturale Candiani di Mestre: Francis Bacon a Ostia Lido. L’aggancio sembra sicuro, obliterato da fatti e data. E invece è una falsa partenza. Anziché punto di avvio, Bacon diventa un «brusio di sottofondo» da cui si staccano tre quadri che sono come tre urla: di disagio larvale, di candore deluso, di disincanto.

Tre i quadri, tre gli interpreti: un danzatore, una ginnasta e un attore. Un piccolo circo variegato, che potrebbe promettere interessanti confluenze, eppure ognuno lavora per sé e su di sé. Forse la situazione più stimolante è regalata dall’ipnotismo della prima parte: un uomo a torso nudo che si muove per lo più a quattro zampe e a testa china, a incarnare lo stato di inerzia amebica che il regista Gianluca Bottoni identifica, forse un po’ didascalicamente, con l’etichetta «Nascita». Un colpetto d’intesa alle figure sformate di Bacon. Il secondo quadro è annunciato da un irritante faro rosso, che mette a dura prova la retina ben disposta dello spettatore spazzolando sulle teste a mo’ di radar, ed è dedicato alla «Copula». Ovvero alla ginnasta, che esegue le sue evoluzioni narrando nel frattempo la sua autobiografia: dall’emigrazione in Italia alle violenze subite dal proprietario del circo in cui lavora. Un gioco di abilità che va a perdersi nello stereotipo, condotto con una vocina proto-slava e monocorde che ricorda un po’ troppo la servetta Prissy di Via col Vento. L’ultimo quadro è la caduta, un tonfo sordo in una spiaggia presa d’assalto come un formicaio. Al margine del formicaio sta un povero disgraziato (“alienato”, come troppo spesso si dice) che osserva i riti umani che si incrociano sotto il sole e li commenta con occhio spento, con disgusto: la «Morte». Un piccolo trittico dalle premesse interessanti ma eseguito a compartimenti stagni, con un filo narrativo forse non sufficientemente stabile per reggere il peso della frammentazione, ma con qualche interessante concatenazione verbale che a tratti buca l’opacità dell’esposizione. Troppa carne al fuoco, verrebbe da dire, ripensando a Bacon: alle sue figure crude, al suo disagio mordace, alla sua pulizia di visione nonostante lo sbeffeggiamento delle forme.

Visto al Centro Culturale Candiani, Mestre

Agnese Cesari

 

 

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