Recensione a BELLAS MARIPOSAS – musica di parole per amore e per rabbia – da un racconto di Sergio Atzeni, di Egumteatro
“Farfalla” in sardo si dice come in spagnolo. Mariposa. Aleggia sulle coste mediterranee la protagonista di questo spettacolo, che è innanzitutto un racconto di Sergio Atzeni, scrittore e giornalista cagliaritano, morto in mare nel 1996. Contribuisce in parte al suo fascino, la suggestione di un uomo morto mentre nuotava nel mare che tanta parte della sua letteratura ha ispirato. Narrativa di poesia e lotte sociali, ambientata in una Sardegna storica e a volte anche nuragica, che vede il suo apice nel romanzo Passavamo sulla terra leggeri. Conosciutissimo nella sua isola, meno “in continente”, Atzeni ha il merito di aver sdoganato una lingua mèlange di dialetto e arcaismi con l’italiano corrente. La messinscena di Annalisa Bianco di Egumteatro ha aggiunto così il sardo alle lingue frequentate sui palcoscenici nazionali. Cogliendo il vezzo raro della solenne cadenza isolana, con il limite forse di esser fin troppo ripulita, fino a somigliare – in scena – alle tante lingue paradialettali del teatro di narrazione italiano. Ma non per il teatro nasce la scrittura di Atzeni, composta sempre con un metronomo in testa: semmai per la musica. Ecco perché la regista ha scelto per questa interpretazione un’attrice che è anche musicista, vocalist, sperimentatrice di jazz e di contemporanea. Monica Demuru, voce nota al pubblico di Radiotre per le collaborazioni con Stefano Bollani, Enrico Rava, Elliot Sharp, Zeena Parkins, Hector Zazou, è per il pubblico teatrale quella sagoma scura che vibrava con Claudia Castellucci e Chiara Guidi nei Cryonic Chants, progetto della Socìetas Raffaello Sanzio con il musicista Scott Gibbons, padre di tutte le colonne sonore della compagnia cesenate.
Quarantenne con volto da bambina, qui è perfetta nel ruolo della piccola Caterina, dodicenne della periferia di Castéddu (Cagliari, in sardo).
Coda di cavallo e vestitino a righe rosse da marinaio dispettoso, domina da sola per più di un’ora una scena colma di segni, in cui scale e impalcature di tubi arrugginiti formano l’idea di una casa, o di ciò che ne resta dopo un uragano. Lo scheletro della scala 47/C accoglie brandelli di tappezzeria, porte e finestre a persiana, un lavandino rovesciato e un mobile da soggiorno, bottiglie vuote e pezzi di vita. Tutto lascia intuire il degrado di periferia: tornano in mente le impalcature e periferie ancora più scarne e stilizzate del primo episodio di Ics, Racconti crudeli della giovinezza dei Motus (2007). Solo che qui siamo in Sardegna, non in Romagna, e gli abitanti del condominio di Caterina non sono nemmeno adolescenti nichilisti, ma bambini nati adulti, costretti a lavorare invece di andare a scuola, ad aspettare il padre che si chiude in bagno con i giornali porno, a scoprire la sessualità morbosa dei numerosi fratelli maggiori e delle vicine di casa, come la coetanea Samanta Corduleris, che ha già capito come arrotondare.
«Era molto tempo che Tonio lo minacciava ma credevo che scherzava che lo odia lo si vede da come lo guarda quando lo incontra e perché cerca sempre occasione di arropparlo di mala manera ma credevo che scherzava dicendo Un giorno quello lo uccido e invece il 3 agosto è stato il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio non si è mai permesso di allungare le mani se provava gliele tagliavo».
L’affresco di Caterina comincia con sgrammaticature sintattiche da capogiro, a cui ci si abituerà, percorrendo svelti un mondo che non dorme mai, che si sveglia alle 3 del mattino con le urla gracchianti della signora del piano di sopra e si addormenta col fratello che rientra dalla discoteca, più o meno alla stessa ora del giorno dopo. All’inizio, la descrizione grottesca e smaliziata di tutti i personaggi e delle loro abitudini sembra una specie di telenovela in salsa sarda, come la Bizarra di Rafael Spregelburd, epopea argentina in venti episodi teatrali. Via via, però, il racconto si stringe attorno a Caterina e alla sua migliore amica Luna. Così le “Mariposas” diventano due: tra di loro c’è un legame speciale, una tenerezza oscena quanto innocente, che si scoprirà fraterna, nello scandalo di paese. Tutto lo spettacolo è il racconto di un solo giorno di piena estate, in cui la storia del presunto ammazzamento di Gigi sarà solo la cornice di altri accadimenti, gravissimi, agli occhi di un adulto, ma raccontati con distacco sorridente dalla dodicenne protagonista. Dice cose enormi, Caterina, da scandalizzare i benpensanti, ma senza scomporsi. È solo la sua vita, quella che lei sorvola come una farfalla, sognando da grande di diventare una rockstar, osservando senza giudicare l’abitudine al degrado che ovunque si somiglia. La costruzione della scrittura ha un ritmo così vivo da tenere in piedi il racconto, da mostrare ogni volto del piccolo bollente mondo di «nebbia liquida, che faceva le case a onda». Ma il juke box d’ambientazione Anni ’80, la stilizzazione scenografica mascherata da istallazione, gli intermezzi registrati, distolgono da un’emozione che resta trattenuta, nella trappola dei modelli narrativi dei Celestini, Enia, Paolini…
Nonostante la performance potente e accorata di Monica Demeru, si avverte un senso di lontananza, nelle parole, nei gesti, nel rivolgersi a un interlocutore intimo ma sconosciuto al pubblico. E balena il dubbio che sia vero che i Sardi, fieri isolani, non vogliano svelarsi oltremodo, e che nelle loro consonanti raddoppiate ricalchino l’orgoglio di un distacco, e di un mistero. Peccato non svelarlo, almeno in scena.
Visto al Teatro Rossini, Pontasserchio di San Giuliano Terme (PI)
Fabiana Campanella