antonio latella ah

Intervista ad Antonio Latella

Antonio Latella (foto Andrea Pizzalis)

Antonio Latella (foto Andrea Pizzalis)

Abbiamo incontrato Antonio Latella a MEIN HERZ, festival di Centrale Fies all’interno del quale presentava, assieme alla sua compagnia stabilemobile, A.H., un lavoro interpretato da Francesco Manetti che si muove intorno alla figura di Adolf Hitler, affrontando le tragedie che hanno segnato l’Europa nel secolo scorso e le ragioni che ne hanno permesso la concretizzazione. A.H., con la sua partitura travolgente, si muove fra performance e un universo testuale ricchissimo, portando in scena una riflessione sul male che non lascia scampo: pur valorizzando i rapporti fra estetica e politica, fra teatro e memoria, facendosi esplicitamente carico di guardare con lucida precisione le vicende che hanno segnato l’Occidente novecentesco, è una materia capace anche di prescindere dalle coordinate spazio-temporali per aprirsi ad affondi umanissimi, che evocano qualità di una dimensione tragica che attraversa epoche, vicende, storie.

L’incontro con Antonio Latella racconta del processo creativo che ha dato vita allo spettacolo, delle scelte autoriali e dei riferimenti che ne compongono la tessitura, ma diventa anche un’occasione di discussione più ampia: sui rapporti fra testo, attore e regia, sull’approccio alla scena e alla cultura, sul possibile ruolo, infine, che, oggi, può avere il teatro.

Come è nato A.H. e come si colloca all’interno della sua ricerca?
Quello che faccio di solito – anche di più da quando c’è stabilemobile – è darci un tema e, su questo, sviluppare più lavori. In questo modo, lo spettacolo non viene vissuto ogni volta come una prova, ma diventa uno dei tanti appuntamenti intorno a un tema, diventa parte di un processo.
A.H. ha origine dal bisogno di confrontarsi sul tema della menzogna, percorso di cui fanno parte Die Wohlgesinnten, spettacolo dalle Benevole di Jonathan Littell, anch’esso sul nazionalsocialismo, che debutta nell’ambito di Romaeuropa Festival e un lavoro su Peer Gynt, il testo classico per eccellenza che tratta la menzogna; in questo percorso si colloca anche la creazione del Servitore di due padroni. Ci sono più appuntamenti, uno diverso dall’altro, ma riuniti tutti all’interno dello stesso tema: per me, è come fare un unico grande spettacolo.

"A.H.", Francesco Manetti (foto Brunella Giolivo)

“A.H.”, Francesco Manetti (foto Brunella Giolivo)

Francesco Manetti lavora da moltissimo tempo con me – come coach, trainer, assistente alla regia… fa moltissime cose – e credo sia oggi la persona che più possa tradurmi in scena. È più di un attore, nel senso che è una persona che mette la sua arte a servizio di un progetto. Sono un regista che lavora sull’attore e sull’autore – queste sono le mie tematiche, le mie ossessioni, quello su cui mi piace lavorare e su cui oggi, ancora di più, cerco di focalizzare lo studio della regia. Aggiungo che non penso mai a me stesso come a un regista, ma piuttosto come a qualcuno che studia la regia; questo porta non solo a evitare di ripercorrere sempre gli stessi linguaggi, ma anche alla possibilità di scardinarli. Infatti, diverse volte, c’è difficoltà a etichettare il mio lavoro: passo da uno spettacolo da stabile a uno off, da un lavoro di ricerca a uno solo di movimento. È quello che, in assoluto, oggi mi interessa di più di questo lavoro: dimostrare – anche per questo per me è interessantissimo stare qui a Fies – che il teatro oggi non ha più limiti di categoria, nonostante si provi ancora ad etichettarlo. Continuare in questo tentativo è una giustificazione, ed è anche consolatorio, perché, riconoscendosi in un genere, sai che lì puoi “stare a casa tua”. Il teatro è teatro. Punto. Quello che mi interessa, e che è più difficile, è di non restare a casa propria, per vedere cosa succede – a te stesso e agli altri.

Come è nata e come si è sviluppata la collaborazione con Francesco Manetti?
Quando comincio un nuovo lavoro, c’è una cosa che ormai faccio quasi sempre: dare dei compiti prima dell’incontro – libri da leggere, cose da scrivere, canzoni da scegliere, video da vedere. Poi, questi “compiti” vengono condivisi e si comincia a lavorare. A.H. è uno dei casi che chiamerei di teatro di drammaturgia totale; nel senso che per me tutto, in questo caso, è drammaturgia. Questo è stato possibile perché c’è un attore come Francesco: penso che tutto diventi drammaturgia perché nasce da lui, da cose che gli chiedo e dalle sue improvvisazioni. La scena sulle armi, ad esempio, è una sequenza che potrebbe fare solo Francesco: insegna combattimento scenico in tutta Europa e per me era interessante togliergliele, per metterlo nella condizione di farci vedere la guerra, la storia della guerra attraverso la storia dell’arma. Tutto è pensato su di lui. Anche i testi sono nati, non prima, ma dopo l’incontro con lui. Quindi, non sappiamo più chi abbia scritto cosa: ci sono testi nati da Francesco, altri da Federico (Bellini, ndr), altri ancora da me: è veramente un’operazione collettiva, posso dire che è un’operazione di stabilemobile in tutto e per tutto, a 360 gradi.
È un approccio che uso anche in altri casi: per me è fondamentale la persona, non decido mai prima come farò una certa cosa, se non so chi la farà. La scelta delle persone che lavoreranno a un progetto è molto intima e lunga. È un approccio fortemente autoriale, anche quando il testo è un classico, anche quando è già scritto.

Vorremmo chiederle di raccontare qualcosa del processo di lavoro. A.H. si costituisce di un denso tessuto di estratti, citazioni, riferimenti a numerose testualità – letterarie, visive, sonore – differenti. Come sono stati selezionati e poi rielaborati nella fase di montaggio?
Il processo di lavoro è stato strano: lavorando, prima di venire qui, era diventato uno spettacolo comico; non ci dormivo la notte, mi dicevo che non era possibile: quello che vedevo mi piaceva moltissimo, ma non era quello che si poteva e si doveva fare. Dopodiché ci siamo messi nuovamente a parlare della materia. Ricordo che in quel momento avevo in mano un mandarino – ho quest’abitudine di rompere la buccia in pezzetti piccolissimi – e ho pensato che, forse, avremmo potuto ripartire proprio da quei pezzetti: dal frammento, dall’ossessione di spezzettare-spezzettare-spezzettare una vita umana, un’idea, che poi diventa maceria. Il percorso di lavoro è nato da questo: prima una drammaturgia visiva, su cui sono state poi scelte le cose da dire; la partitura fisica, così, ha compreso il testo, come se fossero delle note. Pur avendo moltissimo materiale, il testo è rimasto a servizio della partitura.
Ci sono vari riferimenti. La prima parte nasce da improvvisazioni di Francesco sul tema della menzogna; poi ci sono i comandamenti – non una scelta provocatoria, quello che mi interessava dire è che in ogni processo di creazione, fin dalle origini, c’è il dittatore, ci sono il bene e il male –, quindi siamo arrivati alla Bibbia e alla Creazione. E poi, per me, non poteva non esserci – ma questa è un’ossessione mia e di Federico – Heiner Müller, è il punto di riferimento in tutto il lavoro che facciamo e, per quanto mi riguarda, credo sia colui che ha cambiato totalmente la drammaturgia del Novecento europeo. Un omaggio a Müller si trova nella sequenza del cane: quando riscrisse l’Arturo Ui di Brecht, fece recitare Martin Wuttke – suo strepitoso attore – non commettendo l’errore banale in cui spesso si incorre, mettendogli la divisa e altri segni di questo tipo, ma facendolo comportare come un cane: aveva sempre la lingua di fuori, totalmente rossa, si capiva che era uno affamato, che voleva mangiarsi tutto quello che c’era intorno.

"Die Wohlgensinnten", Thiemo Strutzenbergher (foto Ralf Hoed)

“Die Wohlgensinnten”, Thiemo Strutzenbergher (foto Ralf Hoed)

Che rapporto c’è tra teatro, arte, l’elaborazione autoriale e creativa, e la sua posizione rispetto alla storia, nel senso anche di memoria collettiva? Esiste una forma di responsabilità dell’autore a livello intra- ed extra-teatrale? Poi, in questo caso, sta trattando di Hitler, una figura per molti versi ancora tabù, legata a vicende e fatti non del tutto rimarginati e assorbiti.
È un argomento che, per me, si è chiarificato da non molto tempo. Prima pensavo che fare questo lavoro fosse una necessità; oggi, invece, posso dire che penso che sia soprattutto un dovere, rispetto a me stesso e alle generazioni che verranno: c’è bisogno che ci sia qualcuno che testimoni da tutti i punti di vista – storico, politico, artistico –, c’è bisogno di qualcuno che racconti cos’era il teatro una volta, così come che cos’è stato il male del Novecento. Anche se credo che sia difficile dare una risposta o esprimere un giudizio, ma penso che il dovere del teatro, oggi, sia più di ogni altra cosa la testimonianza e, attraverso la scelta di cosa testimoniare, probabilmente è possibile far capire cosa se ne pensa.
Il rapporto con la storia per me è incredibile. Per quanto mi riguarda, affrontare un tema come questo, oggi, è importantissimo soprattutto per il periodo storico che stiamo vivendo, un medioevo – innanzitutto culturale – terribile, un periodo storico pericolosissimo, soprattutto in Italia. Non si può non testimoniarlo, credo sia fondamentale, per me è necessario.
Questo tema è stato trattato in tantissimi modi, quello che ho cercato di fare è stato di renderlo completamente trasparente e accecante. Ho cercato di non scendere mai nel grottesco, in una qualche caratterizzazione, di non involgarirlo né di trovare la battuta facile; su temi come questo, di solito, si arriva fino a un certo punto e poi si sente il bisogno di utilizzare il grottesco per esorcizzare, perché il dolore è troppo grande e non si può andare oltre: si “mettono i baffi” – invece di toglierli –, perché si ha paura di affondare.

Per quali ragioni ha scelto il tema della menzogna?
La scelta nasce anche da un problema mio, come regista: lavorare in teatro significa avere a che fare con una materia che non resterà mai, perché, quando finisce lo spettacolo, quello che ne resta è forse il testo, forse le tracce nella memoria di qualche spettatore che lo potrà raccontare, ma poi anche coloro che l’hanno visto se ne andranno. Il teatro è un mezzo che usa l’artificio – mi piace proprio per questo motivo –, ma è il luogo in cui tutto può diventare vero, in cui tutto diventa verità perché è il luogo assoluto della menzogna – non in senso negativo –, della fantasia, del bambino che può rendere tutto vero. Mi sono chiesto come fosse possibile trasmettere quest’idea: per me, quello della menzogna è un tema teatrale – oltre che politico e culturale – e oggi mi interessa dichiarare questa consapevolezza, come a dire allo spettatore: “accetta l’inganno, ma non farti ingannare”. In questo momento, per me, è uno dei temi fondamentali, forse anche una delle motivazioni che mi ha dato il coraggio di fondare una compagnia, un luogo ideale in cui la creatività fosse totalmente non condizionata da mercati, da quello che gli altri vorrebbero che tu facessi. In questo senso, il Tram è una dichiarazione: tutto è finto.
Quando si riesce a focalizzare l’attenzione su altre prospettive, di colpo i testi – anche quelli che pensavamo morti e sepolti – diventano leggibilissimi assumendo un valore epico, ancora evocativo – il senso del tragico dell’uomo e dell’attore che Francesco consegna, che è il nodo che mi interessa.

intervista a cura di Elena Conti e Roberta Ferraresi

Prossime repliche degli spettacoli citati:

> Die Wohlgensinnten
12, 13 ottobre, Teatro Eliseo / Romaeuropa Festival
18-19 ottobre, 8-9 e 30 novembre, Schauspielhaus Wien

> A.H.
15 > 20 ottobre, Milano, Teatro OUT OFF
22 > 24 ottobre, Modena, Teatro delle Passioni
25, 26 ottobre, Firenze, Cantiere Florida
27 ottobre, Terranuova B.ni (Ar), Le Fornaci
6 novembre, Potenza, Festival Città delle 100 Scale
8 novembre, Cosenza, Teatro Morelli
14 > 17 novembre, Napoli, Teatro Nuovo

> Il servitore di due padroni
21>24 novembre, Cesena, Teatro Bonci
27 novembre> 1 dicembre, Venezia, Teatro Goldoni
3 dicembre >8 dicembre, Padova, Teatro Verdi
10>11 dicembre, Correggio, Teatro Asioli
12>18 dicembre, Modena, Teatro Storchi