deposito atr forlì

Cartoline da Ipercorpo 2012 – atto 3

Della gravità: la vita tra il peso e le mani

An afternoon love – foto di Annalisa Patuelli

Ci vogliono mani dello stesso marmo, per trasportare due lastre e penetrare una città. Cinque uomini e le braccia tese, con un viso neutro senza espressione, attraversano con un’opera le strade dove operano i cittadini ignari, declamano in silenzio il peso connaturato all’uomo in viaggio, all’uomo che semplicemente vive. Una staffetta senza clamori, senza fiaccole o notizie di guerra, ha più a che vedere con la sottile esistenza clandestina di una bottiglia che galleggia le acque dei tempi e degli spazi interminati, compitando in sé l’eredità imprevista di un messaggio minuto. Ci vuole serietà per trasportare questo peso, dieci chilogrammi per marmo, uno spazio per le mani che non basta a non sentirlo scivolare, ma bisogna tenerlo, bisogna farsi coscienza di un trasporto che siamo noi attraverso il mondo. In queste lastre e nel puntiglio dell’uso c’è l’opera di Italo Zuffi, artista imolese che ha assoldato i cinque schierati in un lento cammino della gravità, fino a raggiungere l’Ex-Deposito ATR di Forlì e lasciare l’opera nell’operoso capannone in cui si anima un festival come Ipercorpo, in cui vibra l’energia – riunita in convegno – del lavoro culturale.

Ci vogliono mani sapienti capaci di plasmare e sgrossare, tenersi e lasciar andare, perché sia dolce condurre ciò che sfugge e si trasforma, trasformando anche noi nella fatica di inventare di continuo un nuovo senso di relazione. Ci vuole coraggio e saggezza, perché ci si possa permettere la vertigine di una storia d’amore. Con le stesse mani un giocatore di basket accarezza e tiene a sé la palla che ama, ogni movimento lo fa sudare ma conquista il suo governo e si rinnova; attraversa il silenzio An afternoon love di Pathosformel, misura la sala di rimbalzi e passi interrotti per redimerli e assecondarli insieme, convogliare l’energia per la missione umana di abitare legami con serietà e passione. Calibrare il peso delle mani, con la leggerezza di una palla che rimbalza. E che si afferra, per il tempo che basta a doverla di nuovo riconquistare.

Simone Nebbia

Dal lavoro nei campi all’Articolo 1

Le mondine di Porporana – foto di Annalisa Patuelli

Cantano del lavoro nei campi, di quando stavano con i piedi scalzi in mezzo al fango per otto ore al giorno e per pranzo e cena mangiavano riso e fagioli, fagioli e riso; giornate che si concludevano alle 10 di sera rigorosamente a letto, neanche fossero in prigione.
Le mondine di Porporana hanno gli occhi lucidi, fieri e pieni di orgoglio, di chi ha vissuto molto e vuole raccontare la propria fatica, affinché il passato non si perda. Le otto donne col cappello di paglia legato al collo riempiono l’Ex-Deposito ATR di Forlì con le loro melodie, dedicate al lavoro agricolo e al tempo passato in risaia; tutti si fermano ad ascoltarle, in devoto silenzio, come volessero trattenere ogni loro sillaba, in un religioso rispetto verso chi ha lottato per i propri diritti, scioperando e rischiando, passando un’intera vita con la schiena piegata sulle risaie e i piedi gonfi.

Dopo aver intonato diversi canti le donne si fermano, tentando di guardare negli occhi, uno per uno, gli spettatori: ci si commuove ed entusiasma a vicenda, imbattendosi in sguardi così intensi da riuscire a comunicare senza bisogno di parole o di spiegazioni ulteriori. Le mondine ringraziano il pubblico definendolo «fantastico, perché composto da giovani in ascolto, interessati a quelle loro storie legate a un mondo che non c’è più». Storie di ieri che si riflettono però in una quotidianità, creando una forte empatia quando le mondine intonano il canto sulle morti bianche o sull’emigrazione verso le Americhe: cinquant’anni fa, come oggi. E uno dei versi che più rimane impresso nella memoria canta di una «libertà» che «può nascere solo dall’unità». Oggi, come ieri.
Dopo un’intera giornata passata a una tavola rotonda, dove il lavoro artistico cercava di definire se stesso in quanto tale, il Festival che quest’anno Città di Ebla ha dedicato all’Articolo 1 ha trovato nelle Mondine venute da Porporana e nella loro dignità tutto il suo motivo di esistere.

Carlotta Tringali

 Questo contenuto fa parte di Situazione Critica in collaborazione con Teatro e Critica

Cartoline da Ipercorpo 2012 – atto 2

Nella cenere: l’invasione sottile della memoria

foto di Annalisa Patuelli

Ritornano nella seconda giornata del Festival Ipercorpo 2012 dei residui, delle tracce di intonaco disseminate negli spazi dell’Ex-Deposito ATR di Forlì. Sulle pareti, sul soffitto che cede, sul pavimento, ma anche all’interno delle performance: un’invasione sottile e silenziosa che si insinua distrattamente nello sguardo di chi attraversa questi luoghi parlanti e malinconici, che raccontano involontariamente il loro vissuto. Le scorie a volte riescono a narrare più della carne vivida, sono dei lasciti difficili da eliminare. C’è chi tenta di liberarsi di questi residui come succede nell’installazione Il mio curatore è il mio dottore del gruppo Mandra: dietro una stanza – creata con dei separé e internamente illuminata – alcune figure spazzano il pavimento, ammucchiando polvere e saggina appena fuori dai confini di questo cubo; una pulizia che potrebbe continuare all’infinito, a graffiare il cemento alla base che creerà continuamente pulviscolo. E poi, dove finiscono le scorie? Sono state spostate lì vicino, poco più oltre, impossibili da non notare, come impossibili sono state da eliminare, diventando anzi protagoniste in questo caso di un’installazione che altrimenti non avrebbe niente da raccontare.

E delle scorie non riesce a liberarsi neanche Ivan Fantini che nel suo spettacolo Narrare l’agnizione è bloccato con i piedi sotterrati nella cenere. A tratti tenta di liberarsene, ritraendo le gambe ma poi inesorabilmente vi ritorna, immergendo di nuovo i suoi arti nel cumulo di polvere grigia, esplicativo di una sterilità e un malessere da cui non potrà rinascere la vita, la sua felicità. Impossibile liberarsi dai residui, di ciò che è stato. Le tracce sono indelebili.

Carlotta Tringali

Dalla cenere: il seme di Darwin e l’estinzione delle arti

foto di Annalisa Patuelli

Se invece che dell’origine e dell’evoluzione della specie si fosse occupato di registrare le parabole delle esperienze artistiche e l’estinzione dei luoghi dell’arte, cosa avrebbe pensato Charles Darwin di questa ennesima decadenza? Torna in mente il Darwin del Teatro Sotterraneo, rivisto ne L’origine della specie il secondo giorno di Ipercorpo 2012, la sua maschera accigliata che scruta il mutamento del pensiero dopo di lui e insieme gli spettatori ignari del divenire e divertiti dall’esuberanza del gruppo fiorentino. Sotto i suoi occhi si va trasformando l’umanità attraverso l’estinzione della necessità artistica, si va perdendo il gusto e si arena la capacità di discernimento, la crescita degli individui che dovranno sviluppare i semi di una civiltà finita in secca.

Ma questo luogo ha accettato la sfida. Ipercorpo segue i passaggi di stato di questa comunità e se ne fa responsabile, penetra un capannone abbandonato e lo ravviva col gesto artistico, come fa l’acqua che irrora una pianta rinsecchita. Una pianta. Alla fine de L’origine della specie un uomo – l’ultimo – lascia un seme sotto la terra e azzera il timer della vita. Aspetta in silenzio, a braccia conserte che il timer riparta. E con esso che nasca qualcosa. Da quella terra Ivan Fantini comincia a Narrare l’agnizione, con lo stelo eretto della sua invettiva morale difende la Natura diventando egli stesso un suo prodotto, contro la falsità della contraffazione, contro il tradimento della missione umana. Mani dietro la schiena, la sua voce irrompe lenta e misurata per denunciare la manipolazione della materia senza amore per la creazione. È quello il momento in cui si tradisce la Natura e non arte, si genera, ma imitazione, falsità. Poi qualcuno ha detto che era cenere. E magari è vero. Così come la sua invettiva prende altre strade fumose e poco incisive. Ma una sensazione di nascita anche oggi ha colto questo vecchio deposito, anche oggi l’arte s’è impossessata della dimenticanza e ne ha fatto memoria, dalle ceneri di una civiltà.

Simone Nebbia

Questo contenuto fa parte di Situazione Critica in collaborazione con Teatro e Critica