Un tardo pomeriggio di fine agosto, incontriamo Andrea Fagarazzi e I-Chen Zuffellato per un aperitivo a pochi giorni dalla presentazione di Kitchen of the future, al tempo il loro ultimo lavoro. Il duo, che si è fatto conoscere dalle scene italiane con un minuzioso lavoro sulla sostanza della performatività fatto di esplorazioni fuori e dentro il teatro, è a B.Motion con un progetto particolare, sviluppato con il Centro di riabilitazione psico-sociale “Arcobaleno” di Arzignano e che coinvolge in scena 36 fra operatori e utenti.
Mentre la giornata sfuma nella terza serata di festival, il gruppo ci racconta e si racconta, discutendone anche con Roberto Rinaldi, direttore della webzine Rumor(s)cena, e con Carlo Mangolini, co-direttore di Operaestate Festival Veneto. Quello che ne viene fuori è il ritratto, mosso e vivido, di un percorso di grande determinazione, dove non è il mezzo o una cifra particolare a distinguere il processo di lavoro, quanto piuttosto la pressione dei contenuti: il progetto performativo si sviluppa, di volta in volta, a partire dall’individuazione di una serie di urgenze, il cui trattamento si esprime poi attraverso una propria irriducibile forma, sia essa fotografica o video, teatrale o installativa. Forse, al fondo di questa vivace trasversalità che carezza i limiti dell’espressione transmediale e si mantiene aperta a possibilità di collaborazione trasversali, c’è un’ampia estetica dell’ascolto (dell’arte e del teatro, certo, ma anche e soprattutto della società e del mondo in cui agiscono); si potrebbe dire, un orientamento civile di spessore, magari addirittura un approccio del tutto attuale alle possibilità del teatro politico, continuamente rilanciato oltre i confini di scena e platea.
FAGARAZZI & ZUFFELLATO: CHI SONO, DA DOVE VENGONO E PERCHÉ IL TEATRO
Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): Cominciamo da voi. Come avete iniziato a lavorare insieme?
Andrea Fagarazzi: Ero studente all’Accademia di Belle Arti di Brera, nei miei lavori c’è sempre stato l’utilizzo di diversi linguaggi, dal video alla foto alla danza. Io e I-Chen ci conosciamo da molti anni. Ci siamo rincontrati ad Amsterdam per coincidenze professionali.
I-Chen Zuffellato: Io lavoravo e facevo l’università ad Amsterdam, arti performative.
Andrea Fagarazzi: In un periodo in cui entrambi eravamo in Italia le ho chiesto se aveva voglia di collaborare per alcuni miei lavori. Poi nel 2007 alcune foto della serie vita_mina sono state acquisite da OperaEstate, che le ha utilizzate come immagini promozionali e poi ce ne ha commissionate altre, nuove, per B.Motion. Sin dall’inizio abbiamo visto che assieme riuscivamo a indagare degli aspetti che ci interessavano all’interno di uno spazio diverso, e che non avevamo avuto opportunità di fare nei progetti con altre persone. Così abbiamo deciso di continuare a lavorare insieme, nonostante ognuno sviluppi anche progetti e collaborazioni individuali. Questo è stato un po’ l’inizio.
Spesso ancora adesso partiamo da punti di vista molto diversi: piano piano, si trova un filo conduttore, un canale comune dove far interagire i diversi segni e prospettive. Negli anni si sta costruendo sempre di più un humus e si definisce il linguaggio proprio del gruppo, anche se in realtà non amiamo definire se facciamo arte visiva, teatro o performance… Arrivavamo principalmente dal mondo della danza contemporanea e siamo stati assorbiti in ambito teatrale forse perché in Italia – il panorama europeo è molto diverso – era quello che aveva maggiormente apertura.
Fagarazzi & Zuffellato vita_mina
UN VIAGGIO NEL PERCORSO DEL GRUPPO: DAI PRIMI LAVORI A OGGI
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Com’è avvenuto il passaggio dalla bidimensionalità – quindi dalla fotografia o dal video – alla performance, quindi all’arte dal vivo?
I-Chen Zuffellato: Abbiamo sviluppato in parallelo i percorsi della danza e delle arti visive.
Andrea Fagarazzi: Non c’è mai stato un vero e proprio passaggio. Diciamo che il gruppo ha iniziato a lavorare dal vivo nel 2007, in coincidenza di un bando di residenza e coproduzione del festival di Terni: questa è stata la nostra prima performance come co-autori e fin dall’inizio abbiamo cercato di importare metodi e tempistiche drammaturgiche appartenenti all’arte visiva.
I-Chen Zuffellato: Ci diamo la possibilità di scegliere, a seconda della tematica che si vuole trattare, quale sia il medium migliore: prima viene il contenuto e poi, a seconda, decidiamo il mezzo.
Andrea Fagarazzi: Non siamo molto per la distinzione dei generi. Ovviamente riconosciamo che esistono dei generi a cui ognuno si dedica come vuole, però ci piace vederla così: qualcosa dove non cambia niente. Io posso essere performativo nella scrittura o nei metodi di approccio o nell’interazione…
Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): Possiamo chiedervi qualche esempio, attingendo ai vostri lavori precedenti?
I-Chen Zuffellato: Per esempio Enimirc è un meccanismo performativo che utilizza il video come azione per manipolare l’atto performativo stesso e la percezione della realtà.
Andrea Fagarazzi: In Io lusso, la produzione precedente, c’è un momento in cui ci muoviamo indossando delle buste dorate, quindi c’è una dimensione di movimento e interazione in cui non possiamo vedere né l’altro performer né lo spazio: quando ci si copre la vista, c’è tutta una dimensione che si apre e viene amplificata; ci chiedevamo come potesse lo spettatore percepire tutto questo mondo vissuto unicamente dal performer. È un grande dilemma. C’è chi considera l’azione del performer come un qualcosa che può vivere soltanto lui. Questa è una delle ragioni per cui in Enimirc abbiamo voluto porre lo spettatore in quella stessa condizione, però va sottolineato che non è un percorso sensoriale.
I-Chen Zuffellato: Da un certo punto di vista, per noi era importante che lo spettatore venisse coinvolto totalmente, anche fino alla mimesi, complice come testimone, carnefice o vittima dello stesso “crimine”: da una parte c’è lo spettatore mascherato che agisce/subisce, dall’altra lo spettatore che guarda altri spettatori compiere/subire azioni – un tipo di partecipazione completamente diversa, dal momento che stai vedendo spettatori come te in scena e il coinvolgimento emotivo, il livello di empatia, si acuisce. Contemporaneamente ci interessava lavorare sulle manipolazioni – per altro in quel periodo molto eclatanti – dei media rispetto alla cronaca, alla politica e altro: abbiamo deciso di utilizzare il video per poter dimostrare quanto la realtà possa essere vista da diverse prospettive e come tutte le stratificazioni dei media possano in qualche modo segmentarla.
Andrea Fagarazzi: …come non ci sia una realtà univoca, ma che varia a seconda del punto di vista da cui la guarda. Non era un atto con ambizioni scientifiche, però era un modo per stimolare lo spettatore e dargli altre chiavi di lettura.
IL RUOLO DELLO SPETTATORE FRA SCENA E REALTÀ
Elena Conti (Il tamburo di Kattrin): Enimirc è l’unico lavoro in cui avete coinvolto il pubblico?
Andrea Fagarazzi: In maniera così forte e diretta, sì. Già in Io lusso c’è un momento in cui le telecamere che in scena riprendono noi performer, a un certo punto, ruotano verso gli spettatori e li inquadrano…
I-Chen Zuffellato: Quindi anche in quel caso lo spettatore rivede se stesso su degli schermi in scena.
Andrea Fagarazzi: E c’è un distacco, un cambiamento di percezione.
I-Chen Zuffellato: Poi c’è un altro lavoro Lezione di MoshPit, un video girato al Garage Nardini. Il MoshPit è la zona dove avviene il pogo nei concerti. L’abbiamo presentato alla galleria Xing di Bologna con una performance in cui indossiamo un’armatura in gommapiuma con su scritto “Mosh On Me” e invitiamo il pubblico a pogare su di noi.
Andrea Fagarazzi: Ci sono tutta una serie di pratiche performative in cui lo spettatore è direttamente partecipe all’evento, come nel caso del concerto rock. Ci interrogavamo sul fatto che un certo teatro sperimentale ricerca così tanto la partecipazione, mentre in altri contesti avviene già radicalmente e in maniera del tutto “organica”.
Roberto Rinaldi (Rumorscena): Andate in qualche modo sempre a contestualizzare la dualità fra spettatore passivo e attivo, che può diventare anche interprete. Le tematiche che scegliete indagano, oltre l’ambito performativo, anche quello delle reazioni che si innescano nella psicologia dello spettatore partecipe e della manipolazione che ne consegue?
I-Chen Zuffellato: Più che per cercare di analizzare le varie reazioni, è un modo per scardinare lo sguardo. E in parte sì, volevamo far capire – magari in modo radicale – che comunque sia, nell’evento che si va a vedere, si è in qualche modo tutti partecipi, complici. Ma non è tanto il cercare una reazione particolare quanto piuttosto porre in bilico la nostra visione della realtà, o per questionare ciò che sembra. Alla fine la partecipazione del pubblico diventa un pretesto per parlare d’altro, Enimirc è un microcosmo che rappresenta la società anche al di fuori delle mura del teatro.
Roberto Rinaldi (Rumorscena): Quindi si tratta di un piano, fra virgolette, “democratico”?
I-Chen Zuffellato: È una condizione di dipendenza tra il pubblico e il performer.
Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): Per rendere consapevole il pubblico dell’importanza della sua presenza?
I-Chen Zuffellato: Sì, e per mostrare che è possibile essere partecipi anche senza essere “attivi”. Volevamo sottolineare i sentimenti contrapposti e contraddittori all’interno di ognuno singolarmente.
Andrea Fagarazzi: Un punto importante è quello di non voler compiacere lo spettatore. Spesso lo usiamo appositamente. Se ci rendiamo conto che qualcosa potrebbe andare a compiacere un gusto dello spettatore, cerchiamo di sottrarla. Ovviamente questo è un grande rischio, perché può succedere…
I-Chen Zuffellato: …che non piaccia a nessuno.
Andrea Fagarazzi: Ma finché c’è la possibilità di farlo, continuiamo a sperimentare questa dimensione che mira a attivare altri punti di vista, a mostrare altre modalità di partecipazione.
I-Chen Zuffellato: Volevo però specificare un aspetto: non ci piace abbandonare e sfruttare il pubblico nella condizione di improvvisare, ma preferiamo dargli delle indicazioni precise all’interno delle quali lo spettatore si possa sentire più sicuro, tranquillo e per questo più libero di agire. In Enimirc la condizione del buio rendeva ogni gesto più fragile e le nostre indicazioni erano il più oggettive possibili anche perché cercavamo una crudezza del gesto spoglio da emotività e intenzione attoriale.
Andrea Fagarazzi: Quando, come in Enimirc, hai una persona bendata, questa è sotto il tuo controllo, in tuo potere: sarebbe troppo facile sfruttare lo spettatore. Invece si tratta anche di riuscire a stabilire un rapporto di fiducia: dare delle indicazioni in modo che accetti di farsi guidare – e non, ad esempio, togliersi la maschera e scappare via…
I-Chen Zuffellato: …che poi anche quella era una delle opzioni possibili!
CHE SUCCEDE CON “KITCHEN OF THE FUTURE”
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Il filone della partecipazione del pubblico, avete detto, vi ha accompagnato fino a Enimirc. E invece adesso cosa sta succedendo?
I-Chen Zuffellato: Era da tempo che volevamo fare uno spettacolo solamente come registi e non essere affatto in scena. Un giorno una giovane psicologa, che lavora nel Centro di riabilitazione psico-sociale “Arcobaleno” di Arzignano, ha visto Enimirc e ne è rimasta molto colpita, così ci ha fatto la proposta di occuparci della regia del loro spettacolo annuale. Si è finalmente presentata l’occasione di fare una prima regia da esterni ma non ci aspettavamo di dover mettere in scena 36 persone!
Elena Conti (Il tamburo di Kattrin): Da quanto tempo è iniziato questo nuovo progetto?
I-Chen Zuffellato: Abbiamo iniziato a giugno del 2011.
Andrea Fagarazzi: Poi a dicembre c’è stata una prima presentazione per gli studenti delle scuole superiori, quindi il progetto si è sviluppato nell’arco di sei mesi. Facciamo una premessa. Loro avrebbero voluto fare un musical, sul modello di X-Factor: gli operatori avrebbero rappresentato la giuria e i ragazzi i concorrenti-cantanti. Invece noi abbiamo realizzato Kitchen of the Future: gli abbiamo detto che se desideravano il nostro intervento non è che dovessero lasciarci carta bianca, però…
I-Chen Zuffellato: Il nostro lavoro è partito proprio dall’idea di scardinare alcune gerarchie, che in parte sono comprensibilmente presenti nel centro. Ma per la nostra indagine era importante che sia operatori che utenti fossero posti sullo stesso piano.
Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Perché in scena ci sono tutti e due.
Andrea Fagarazzi: Sì, abbiamo cercato di creare un’orizzontalità. Il progetto, per come ci era stato commissionato, aveva lo scopo di abbassare il pregiudizio sulla malattia mentale: abbiamo preso in considerazione questa domanda interessante che ci era stata proposta, ma inizialmente l’abbiamo accantonata perché avvertivamo il rischio di cadere nel compassionevole. Ci siamo focalizzati su di loro e su quello che poteva essere sviluppato, in modo che il lavoro non servisse soltanto per una serata o uno spettacolo, ma potesse essere utile a loro come processo.
I-Chen Zuffellato: Una delle questioni emerse durante il processo di ricerca è stato “normale o anormale”. Per noi era assurdo dare una risposta. Abbiamo quindi lavorato sulla specificità, sulla particolarità del singolo. Il che diventa universale: ognuno è diverso e vive i propri disagi – e a conoscerli, succede che ci si rende conto che alcuni possono essere gli stessi che affrontiamo anche noi e questo ci accomuna, poi nella vita entrano in gioco molti fattori che ti possono aiutare o meno a superare o gestire situazioni difficili.
IL PROCESSO DI LAVORO NEL CENTRO ARCOBALENO
Carlotta Tringali (Il tamburo di Kattrin): Avviciniamo il processo di lavoro. Vorrei sapere come avete lavorato, fin dal primo giorno; come vi siete avvicinati a loro…
I-Chen Zuffellato: Nel centro ci sono circa 50 utenti. Abbiamo incontrato tutti individualmente, per conoscere le loro storie; all’inizio erano sempre accompagnati da un operatore, perché il centro temeva che toccando – e in qualche caso è successo – dei ricordi traumatici, qualcuno potesse avere una crisi.
Andrea Fagarazzi: Poi abbiamo chiesto degli incontri in cui non fosse presente l’operatore e hanno accettato; alcuni si sono sentiti più liberi di confidarsi, dandoci delle risposte diverse rispetto agli incontri precedenti. Però non è così facile per loro riuscire a raccontare la loro storia e i loro traumi. Alcuni proprio si sono rifiutati, un paio di persone non sono riuscite; cerchi di instaurare con ognuno di loro un dialogo.
I-Chen Zuffellato: Poi tutti assumono farmaci e questo influisce molto sul loro stato psicofisico, sulla loro energia, umore e concentrazione.
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Gli incontri avevano dei contenuti di tipo biografico?
I-Chen Zuffellato: Sì. Poi con alcuni abbiamo anche discusso dello spettacolo, perché non avevano voglia di parlare di se stessi.
Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Quindi avete anche indirizzato ognuno rispetto a stare o meno in scena: chi non se la sentiva ha potuto lavorare alle scene o ai costumi…
Elena Conti (Il tamburo di Kattrin): Quindi, oltre alle 36 in scena, ci sono anche altre persone che hanno collaborato?
Andrea Fagarazzi: Tutto il centro.
I-Chen Zuffellato: Qualcuno ha collaborato alla costruzione del fondale…
Andrea Fagarazzi: …che è costruito con le scatole dei farmaci che hanno utilizzato nell’arco di sei mesi…
I-Chen Zuffellato: …quattro metri per quattro e ottanta.
Elena Conti (Il tamburo di Kattrin): …che si costruiva man mano che lavoravate.
I-Chen Zuffellato: Poi c’era una ragazza di 26 anni laureata all’Accademia di Belle Arti di Venezia, che da nove mesi non disegnava più: con lei abbiamo provato a realizzare una video-animazione, che è presente nella performance. Era la sua prima volta, sono quasi duecento disegni.
Andrea Fagarazzi: Le abbiamo chiesto di fare dei disegni riferendosi alla sua crisi psicotica, poi riguardandoli assieme ne abbiamo deciso la sequenza: una drammaturgia che non fosse cronologica rispetto ai suoi ricordi, ma che seguisse un filo metamorfico e di iperassociazione onirica. Solo successivamente lei ci ha detto che, attraverso questo video e questi disegni, è riuscita a tornare a quei ricordi, dei quali aveva paura, e a guardarli con una maggiore serenità perché aveva – diciamo così – oggettivato il trauma. Ma questo risultato “terapeutico” – come altre cose – è emerso dopo, non ce l’eravamo prefissati.
Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Immagino che i risultati siano stati discontinui. A volte, lavorando sull’individualità, può accadere che quando si va in scena alcuni possano essere convincenti e altri no: avvertite un tipo di dislivello come questo o avete trovato un equilibrio?
I-Chen Zuffellato: Non so bene come rispondere. Diciamo che in generale con la maggior parte delle persone con cui abbiamo lavorato la continuità non esiste: spesso si raggiunge qualcosa oggi e domani bisogna ricominciare da capo. E anche l’equilibrio è un concetto molto precario. A volte qualcuno è molto presente, il giorno dopo invece non riesce a concentrarsi. Cose che valgono per chiunque, ma che in questo caso è tutto molto più amplificato. Il lavoro in scena li aiuta anche a imparare a gestire da soli emozioni forti e esperienze nuove, ma questo è sempre per tutti un work in progress.
Andrea Fagarazzi: Ad alcuni abbiamo dovuto insegnare come si impara a memoria un testo. Abbiamo fatto un po’ di fonetica: l’utilizzo della voce e del suono… Ci siamo scontrati con problemi neurologici. E poi ci sono i farmaci che assumono, che influiscono sul modo di parlare…
I-Chen Zuffellato: …sulla concentrazione. E poi la percezione del proprio corpo, in alcuni, è molto difficile. Anche solo il camminare o sorridere: lo sanno fare normalmente, ma quando gli si chiede di ripeterlo in scena non riescono a trovarne le coordinate.
Gestire cosi tante persone non è stato facile: ognuno aveva esigenze e disagi diversi e quindi la sfida eè diventata trovare per ciascuno l’approccio più idoneo, il metodo e le parole più adatte per aiutarlo a imparare, memorizzare, spronarlo o anche solo rassicurarlo.
Andrea Fagarazzi: In un certo ambito professionale ci sono cose che si danno per scontate. Qui, invece, oltre al fatto che questa è la nostra prima esperienza nell’ambito della riabilitazione psico-sociale, abbiamo dovuto mettere in discussione tutta una serie di informazioni e cambiare le nostre aspettative. D’altro canto, va tenuto conto che per la maggior parte di loro era la prima volta che andavano in scena, e di conseguenza gli abbiamo chiesto un grandissimo sforzo e impegno. A un certo punto, per noi è diventato interessante resettare il nostro linguaggio e la nostra metodologia di lavoro.
I-Chen Zuffellato: Come sempre c’è del lavoro invisibile. Se si vede lo spettacolo si potrebbe pensare che abbiano semplicemente imparato un testo o delle azioni, ma in verità molti di loro hanno fatto dei progressi che sembravano impossibili: dal balbettare, dal non riuscire a imparare una sola frase, dal non riuscire a ricordare una posizione, tutti alla fine, e qualcuno in particolare, sono riusciti a lavorare intensamente per restituirci una forte presenza e intensità performativa.
Elena Conti (Il tamburo di Kattrin): Avete lavorato con piccoli gruppi o con sempre tutti e 36?
I-Chen Zuffellato: Alla fine l’aspetto più difficile non è stato tanto il lavoro in sé, ma l’organizzazione delle prove, perché c’è chi lavora al mattino, chi tutto il giorno, chi solo il pomeriggio; c’è chi non lavora, c’è chi va in vacanza, c’è chi ha dei momenti di crisi…
Quindi sì, li abbiamo divisi in gruppi e abbiamo lavorato singolarmente con chi aveva un monologo. Le prove tutti insieme sono state pochissime.
Andrea Fagarazzi: Oltre alla dimensione organizzativa ci sono anche stati dei momenti di difficoltà interna; ad esempio, ci siamo confrontati con una famiglia che faticava ad accettare quello che raccontava la propria figlia sul palcoscenico, perché esponeva degli eventi che li riguardava personalmente. Si scopre come traumi e disagi abbiano a che fare con una serie di fattori – la scuola, la famiglia, la società – e ci si confronta con la dimensione della percezione di responsabilità rispetto alla malattia, che magari non si riesce ancora a elaborare o gestire. Lì però il nostro ruolo finisce…
I-Chen Zuffellato: È necessario essere consapevoli che sono comunque persone in riabilitazione e sotto la responsabilità degli psicologi. Il lavoro va riconsiderato rispetto a questo, dunque occorre porre un limite fra qual è la terapia e quale il lavoro artistico, che – per quanto il teatro per certi versi possa essere utile – si possono supportare, ma rimangono due criteri di decisione indipendenti e non possono intervenire troppo pesantemente l’uno sull’altro.
DA “KITCHEN OF THE FUTURE” IN AVANTI: ALCUNE IPOTESI PER IL FUTURO
Giulia Tirelli (Il tamburo di Kattrin): A me piacerebbe capire come avete reagito voi, non solo come persone ma a livello artistico: se quest’esperienza abbia modificato il vostro approccio, se sia andata a toccare dei nodi su cui già lavoravate, se ve ne abbia aperti altri…
Andrea Fagarazzi: Beh, è molto diverso dai lavori precedenti, questo sì: c’è una scrittura e un lavoro sul testo – ed è la prima volta in cui è così presente. Ma cercando il più possibile di non immetterlo nell’uso di un codice teatrale. Andare a sottrarre delle strutture per mantenere la crudezza nel modo di recitare ed essere in scena, indagare i concetti di identità e alterità – questo invece appartiene al nostro percorso.
I-Chen Zuffellato: Anche l’esperienza di essere totalmente fuori scena per noi è un passo molto grande: c’è la difficoltà di riuscire a comunicare il proprio pensiero, un tuo immaginario, a qualcun altro. Mentre lavorando su di noi e sul nostro corpo, c’è una sintonia acquisita per cui non c’è bisogno di spiegare ogni cosa; con gli altri devi ovviamente trovare un modo di comunicare un tuo mondo.
Elena Conti (Il tamburo di Kattrin): E ora, cosa vi verrebbe voglia di fare?
Andrea Fagarazzi: Sicuramente ci interessa, se possibile, continuare a lavorare con altre persone.
I-Chen Zuffellato: E continuare a indagare, in altri aspetti, la tematica del disagio…
Andrea Fagarazzi: Dov’è un punto nevralgico e problematico all’interno di un contesto sociale, di una comunità? Andare a individuare e intercettare la problematica. Ed esporla.
Carlo Mangolini (co-direttore Operaestate Festival): Infatti c’è già un’idea di lavorare con adolescenti immigrati di seconda generazione. La mia sensazione su quest’esperienza – che è arrivata “per caso”, non è stata cercata – è che abbia indirizzato il loro percorso verso una riflessione sulla società che non si realizza più soltanto tramite il rapporto artista-spettatore, ma si è allargata a un senso civico ancora più profondo.
Andrea Fagarazzi: Sì, faccio un esempio, anche se ancora non so se poi andremo avanti in questa direzione. A Lonigo, il paese in cui viviamo, c’è una grossa comunità di bangladesi e la piccola città della provincia vicentina ha difficoltà ad accettare l’interazione, se non attraverso i propri ragazzi, i propri figli. Qui c’è una questione da indagare, che va affrontata, anche se intercettare punti politici e di pensiero come questi, implica assumersi dei rischi. Questo ci interessa. Oppure un’altra possibilità su cui stiamo riflettendo è quella legata al tema del disagio, dell’ombra, dell’oscuro che appartiene alla dimensione del “buio” del soggetto…
I-Chen Zuffellato: …in relazione anche alla città: la città di notte…
Andrea Fagarazzi: …è un contesto fortemente presente, però è accantonato, non è esposto.
Roberta Ferraresi (Il tamburo di Kattrin): Forse alcuni germi di questa direzione erano già presenti nei lavori precedenti…
I-Chen Zuffellato: Sì sì, c’è una continuità. Noi volutamente non abbiamo e non cerchiamo uno stile – dal punto di vista estetico; questo spettacolo e, ad esempio Enimirc, sono molto diversi –, ma in tutti i nostri lavori c’è una continuità di pensiero.