festival loro del reno

In-Stallo e in attesa

Stallo - studio per un'anticamera -

Recensione a Stallo – studio per un’anticamera – / Korekané ed Elisabetta Gambi

Quattro paia di piedi nudi sporgono da bianche lenzuola. Due donne, un uomo e un uomo che si crede un cane, in un luogo vuoto e indefinito, passano il loro tempo restando in silenzio, senza curiosità né confronto, o tra passatempi sterili, violenti sfoghi e la rabbia incontenibile dell’inquietante uomo-cane. Persone dai profililievemente accennati, personaggi che non toccano lo spettatore, a volte incuriosiscono, ma come privi di mistero. Uomini e donne disincantati e frustrati il cui condividere forzatamente uno spazio è un arido dimostrare distacco, violenza, insofferenza per la diversità  e soprattutto la non volontà (o incapacità) di relazionarsi.

Il non-luogo in cui le quattro presenze si destano è un obitorio, o forse proprio un inferno che gli stessi personaggi autonomamente determinano, consapevolmente o meno.  Proprio come nella descrizione infernale narrata da uno di loro, infatti, incarnano perfettamente i condannati  per l’eternità ad una tavola imbandita che, incapaci di “imboccarsi” a vicenda con i lunghi cucchiai di cui sono provvisti, si condannano ad appassire e divorarsi vicendevolmente.

Stallo - studio per un'anticamera -

Lasciando aperte interpretazioni ed enigmi, lo spettacolo trova una sua conclusione. Ma al termine di Stallo ci si ritrova sorpresi ad aver già finito un viaggio non ancora davvero affrontato. Chiara Cicognani ed Elisabetta Gambi (insieme nella regia) costruiscono una riuscita dimensione spazio-temporale claustrofobica dal carattere inevitabile quanto concreto, ma il disegno drammaturgico appare incorporeo e fragile nonostante i richiami a Bergman e a Sartre (che rientrano nelle loro dichiarate suggestioni). Le registerischiano di affidarsi a meccanici cambiamenti di linguaggio senza aver prima fatto scivolare con convinzione lo spettatore nel “limbo”, in particolare nel tentativo di creare scene d’inquietudine e smarrimento e nel proporre ciclicamente l’attesa al temuto appello (giudizio) finale.  L’attesa di senso e la vacuità volontariamente evocate tengono fin troppo a distanza il pubblico. I nudi piedi, scoperti ad inizio spettacolo, e la loro silenziosa immobilità rimangono, inaspettatamente, la sensazione maggior pregna di senso.

A lungo i quattro corpi ricoperti da lenzuola candide, illuminati da una luce fredda e fioca, attendono. Mortalmente immobili. Attendono il proprio risveglio, indispensabile per fare del primo e crudo contatto l’inizio verso una dimensione nuova, oltre la vita.

Visto al teatro PiM Spazio Scenico, Milano

Agnese Bellato