Indagini, ricerche, ricostruzioni che portano in superficie tutte le contraddizioni e le avversità di alcuni personaggi storici – nel bene e nel male – fondamentali per il nostro Paese… Questo è il teatro di Daniele Timpano che, dopo l’ultimo lavoro Aldo Morto, pubblicherà a settembre la raccolta di testi, a cura di Graziano Graziani, Storia cadaverica d’Italia (Titivillus) e che abbiamo intervistato per il Tamburo: una spinta verso un teatro politico che politico non sembra, un narratore che non narra ma anzi prende le parti di tutti i protagonisti di queste vicende… Insieme abbiamo cercato di indagare su questo fare teatro che viaggia sul filo del rasoio tra critica e ironia…
Con Aldo Morto, Dux in scatola, Risorgimento Pop, vai a scavare nella storia d’Italia, nei suoi fantasmi più popolari, metti il dito nelle piaghe. Ma il tuo non è un teatro civile, non ricostruisce, non racconta e non denuncia… Come definiresti questo tuo viaggio teatrale? Da cosa è nata la spinta verso questo passato?
Non è teatro civile? Cosa ne sappiamo? Magari sì. Intanto – e senz’altro – ricostruisce, racconta e denuncia moltissime cose. Non è civile nel senso di Paolini o di Baliani, certo, ma è politico. Non è né didattico, né ideologico, né militante ma è politico. Non assomiglia per niente a una controinchiesta, a un libro di Kaos edizioni, agli spettacoli ideologicamente impastoiati di Dario Fo o ai bei programmi della Gabanelli, ma nemmeno alle salottate radical-chic o fricchettone della Dandini o della Guzzanti – per fortuna – o ai discorsi che si fanno dal palco al Concertone del Primo maggio, che sono quasi sempre demagogici, retorici, idioti. In quel senso là, nel senso “loro”, a esser “civile”, non ci provo nemmeno. Non ne sarei capace, né artigianalmente, né soprattutto intellettualmente. Mi sentirei disonesto a propormi come alfiere della parte buona, progressista, “di sinistra” del Paese, a trasformarmi in quello che a me sembrerebbe un prodotto buono per la prima o seconda serata di una rete televisiva nazionale.
Parlo di questo perché, in qualche modo, insomma, quel che fanno – come quello che fan tanti altri che non condividono una situazione tanto marginale e insignificante come è in fondo la mia – mi par che si presti a esser rotellina, sia pure progressista, dell’ingranaggio del sistema culturale consolatorio italiano, a sfruttarne i meccanismi. Se non fossi critico verso una serie di cose e se quello che facessi non avvenisse ancora con una certa dose di “purezza” – che è un privilegio che tento da anni di permettermi – che differenza ci sarebbe tra me e un Beppe Grillo?
Uno dei sensi del far le cose dal vivo, fosse anche per quattro gatti, è che quei quattro gatti li incontri, e soprattutto se non sei famoso, o non abbastanza famoso, qualunque cosa gli fai davanti è un rischio di esser travisati o respinti, non il riconoscimento di un brand che già conosciamo. A me interessa mettere gli spettatori dei miei spettacoli davanti a delle contraddizioni non consolatorie, a traumi, fratture, disagi, rimossi. Cosa c’è di più rimosso o – peggio ancora – falsificato, della storia del nostro Paese e – nel caso di Aldo Morto – della nostra stessa memoria personale? Io no, chi è ancora più giovane nemmeno, ma molti degli spettatori di Aldo Morto erano presenti all’epoca dei fatti e io, in scena, gli racconto, in una maniera che per loro non può che essere irritante, quello che per me non è niente (non emotivamente) ma per loro è un’esperienza personale, con tutto il peso di un trentennio di ricordi, riflessioni, aggiustamenti, rimozioni. Una cosa viva, a volte dolorosa.
Il mio interesse per il passato… per la storia… È cominciato tutto da quando, qualche anno fa, mi sono messo in testa di fare uno spettacolo sul cadavere di Mussolini (Dux in scatola, nel 2006). È stato allora che ho cominciato a sviluppare in maniera più organica, potenzialmente sistematica, un certo interesse per la storia (o meglio per l’immaginario legato alla storia) del nostro Paese. Non sono uno storico, nemmeno dilettante, e per fortuna non sono un giornalista. Non ho il dono della leggerezza superficiale di questi ultimi (che so, di un Montanelli o di un Petacco) e non ho la competenza vera e la dimestichezza coi materiali documentari che hanno gli storici seri (che so, un Isnenghi, un Gotor o un Luzzatto). Cerco però di lavorare il più seriamente che posso sulle fonti, di mettere insieme – nel tentativo di far nascere pensieri o associazioni di idee non scontati – cose anche molto diverse tra loro… spesso a quanto mi dicono “urticanti”. Questa modalità un po’ irritante mi è costata a volte: per esempio proprio per Dux in scatola, insulti, minacce, accuse di filo-fascismo o qualunquismo ma anche, contraddittoriamente, di filo-comunismo… Ciascuno ha le sue macerie identitarie da difendere.
In Aldo Morto, l’io narrante (chissà se tu o il tuo personaggio) ne ha da dire su tutto e su tutti, critica e deride, rivelando il positivo e il negativo di ogni figura o organizzazione, ma non sembra mai schierarsi… una scelta volontaria?

Il corpo dell’attore, il corpo del personaggio e il tuo corpo ognuno con le proprie particolarità, come si incontrano in scena? Farli conciliare è un’arte che stai apprendendo spettacolo dopo spettacolo?

Si è da poco conclusa la rassegna che organizzi insieme al consorzio Ubusettete: quali sono state le linee guida di quest’anno?
UBU REX è un rito identitario che ha, per me, per noi (il Consorzio, di cui faccio parte) e anche un po’ per la città, un’importanza fondamentale. Noi siamo quelli che per anni hanno organizzato una rassegna-festival totalmente indipendente, Ubusettete. Fiera di Alterità teatrali (sei edizioni dal 2003 al 2007), in collaborazione col fu Rialto Santambrogio. Questa rassegna, che era allargata a tutta la scena indipendente, romana e nazionale, e che veniva realizzata a bando, abbiamo deciso di non farla più: non c’erano soldi e abbiam deciso che di più, in quelle condizioni non era possibile, né giusto (nei nostri confronti e verso quelli delle compagnie che ospitavamo), continuare a fare. La rassegna attuale è una vetrina del lavoro delle compagnie del Consorzio, gruppi che condividono un dialogo e una collaborazione da diversi anni: oltre a me, Olivieri_Ravelli Teatro, Elvira Frosini / Kataklisma, Teatro Forsennato (che comprende sia il lavoro di Dario Aggioli che quello di Andrea Cosentino).
Ogni anno cambiamo spazio teatrale, sempre a Roma. Attivando collaborazioni e spalleggiamenti ciascuna volta con quegli spazi che ci sembrano star tentando, in una situazione così devastata e disperante come quella romana, di fare qualcosa di nuovo, fertile, onesto. Siamo alla terza edizione, al Teatro dell’Orologio, gloriosa e storica cantina romana attualmente, grazie soprattutto al lavoro del giovanissimo Fabio Morgan, uno degli spazi che sta cercando appunto di attuare in città una politica nuova, fertile, onesta. L’unico debutto, in questa edizione, è stato quello di Elvira Frosini con Digerseltz, oltre alla presentazione dello studio per XXX Pasolini Petrolio (già finalista al Premio Dante Cappelletti) di Olivieri_Ravelli Teatro. Io ci ho riproposto un mio cavalluccio da battaglia assente da un po’ nella capitale, Ecce robot, e così han fatto gli altri, in primis Andrea Cosentino col suo bellissimo L’asino albino.
Quali sono i prossimi passi, nuovi spettacoli in cantiere? Continuerai questo viaggio nella storia o cambierai direzione?
Penso che questa direzione di lavoro potrà, sia pur con qualche scarto, farmi compagnia ancora a lungo. Gli argomenti potenzialmente spettacolabili che rientrano nel mio raggio di interesse (molti di questi legati alla storia o meglio all’identità nazionale del mio Paese) sono tantissimi. Si tratta non solo di sceglierne uno tra tanti (o di collegarne più d’uno) ma di capire cosa sia interessante, vitale, urgente (almeno per me) rispetto al presente. Uno spettacolo, anzi, qualunque cosa – a maggior ragione se affronta argomenti storici o ha ambientazioni “storiche” – parla sempre del presente di chi guarda, è sempre all’interno della relazione tra scena e platea. Questa relazione – se si crea – si crea o si può creare solo attorno a quel che di vivo c’è nel mondo in cui sia l’attore in scena che gli spettatori vivono in quel momento. Riesco a parlare del passato, quando mi pare che si riescano a toccare dei nervi vivi nel presente. Ad ogni modo, nuovi spettacoli in cantiere al momento non ce ne sono, solo spunti, idee, progetti.
Senz’altro, dopo Sì l’ammore no del 2009, vorrei realizzare un altro spettacolo in collaborazione con Elvira Frosini / Kataklisma. 
In generale, forse mi interessa avvicinarmi al presente. Esplicitamente. O al contrario allontanarmi nel passato. Un lavoro su Dante, per esempio. Banalmente Dante. Un terreno di scontro/incontro con tutta la tradizione trombona e borghese della lettura danctis che sarebbe rischiosissima e a forte rischio di sconfitta. Per questo stimolante. Sarebbe interessante, non leggere dei canti del poema ma attraversare il periodo storico, così lontano e morto ma anche così familiare a molti, pur se sempre orecchiato e non approfondito. Tentare addirittura una (presuntuosa, fallimentare, impossibile e dunque stimolante) riscrittura del poema. Una voce recitante, quella dell’autore-attore (Dante stesso), protagonista della sua stessa opera. Una riscrittura non potrebbe che partire da questo. Dall’identità di chi sta parlando dalla scena. La mia dunque. Un secondo Dante, sulla scia di Dante. Bello. Più ne parlo più me ne entusiasmo. C’è di tutto dentro. L’identità italiana. La perdita di identità italiana. L’orgoglio nazionale. La lingua italiana, il ricordo di com’era. La funzione dell’intellettuale in relazione al presente. E ovviamente la morte. Poi di progetti vagheggiati ne ho perlomeno altri 15. Ma non lo so ancora. Non son le idee il problema. O non ancora. Francamente, il problema vero è ora perpetuare in vita gli spettacoli in repertorio e portare in giro quello nuovo. Da questo dipende, capisci bene, la mia sopravvivenza: il pane, la pasta, qualche fetta di prosciutto, l’affitto, le bollette eccetera…
Intervista a cura di Camilla Toso