Licia Lanera e Riccardo Spagnulo hanno fondato la compagnia Fibre Parallele nel 2005. Da allora il gruppo, di base a Bari, ha proposto spettacoli molto diversi fra loro, in cui tematiche di grande attualità si innestano su situazioni profondamente archetipiche. La scrittura drammaturgica e immagini di grande impatto danno vita a un teatro umanissimo e potente. Nell’edizione 2013, tornano a Bassano del Grappa per B.Motion, festival che, negli anni, ha accolto spesso i loro lavori; questa conversazione, oltre a presentare il lavoro per l’ultimo Lo splendore dei supplizi, è anche l’occasione per raccontare la loro idea di teatro e il loro modo di lavorare.
Quelli che affrontate nei vostri spettacoli sono temi sempre di grande attualità, ma in qualche modo anche legati a situazioni e figure archetipiche, in un teatro che si muove originalmente fra tradizione e sperimentazione. Che cosa vi interessa indagare della realtà?
Licia Lanera: Trovo che il teatro, ultimamente, sia diventato molto autoreferenziale: parla e racconta di se stesso, spesso anche svelando i propri meccanismi e il processo creativo, negando, proprio sul palco, la finzione. Non credo che questo interessi molto alla gente, al limite può riguardare gli operatori, chi fa già parte di questo mondo. Secondo me – non certo soltanto per colpa del teatro, ma anche tramite tutto quello che di accattivante e affascinante c’è intorno a noi –, questo ha a che fare con una forma di alienazione in cui siamo già tutti immersi, attraverso cui si crea una distanza tremenda. Credo che un modo per tornare a dialogare con il pubblico – per noi è fondamentale, la priorità assoluta del nostro lavoro, non tanto per cercare di compiacere lo spettatore, ma bisogna tenere presente che non si può prescinderne – sia quello di parlare della realtà, ossia di qualcosa che rende partecipe anche una persona che non fa questo mestiere. L’idea – potrà sembrare banale – è di far inghiottire dentro il tuo mondo quello che ci sta davanti.
Dunque, per noi, sicuramente è fondamentale raccontare il reale, poi, ognuno naturalmente sceglie la forma che gli è più vicina; noi viviamo al sud – abbiamo deciso di continuare a vivere a Bari, anche se lavoriamo prevalentemente altrove –, una realtà ancora legata a tradizioni che forse in altre città si sono perdute… E poi siamo sempre alla ricerca di quartieri popolari, di posti in cui quello che è più antico ancora può sopravvivere. Credo sia un rischio molto grande raccontare il presente attraverso il linguaggio del presente, un rischio che non riusciamo e – sinceramente – non vogliamo assumere, perché c’è la possibilità di diventare una sorta di replica e, così, attraverso la critica di un linguaggio – quello televisivo o altro –, finire per amplificarlo e dargli ancora più importanza. Quindi, torniamo indietro-indietro-indietro, alla ricerca di qualcosa di archetipico per poter raccontare il presente: quando parli dell’uomo in quanto essere umano, le sue pulsioni e i suoi istinti sono assoluti, non hanno tempo né spazio. Lavoriamo molto per un teatro fatto di pulsioni, di carne, di emozioni; partiamo da quello di cui ci interessa parlare – è una cosa su cui ragioniamo molto – e poi andiamo a cercarlo soprattutto in qualcosa di antico. Ci sembra una via giusta per non rimanere ingabbiati e schiacciati dal linguaggio contemporaneo, che a volte diventa veramente faticoso da gestire.
Riccardo Spagnulo: Molte volte si dice che la realtà supera l’immaginazione. Penso al nostro interesse e al nostro rapporto con la cronaca: quando leggi i titoli dei giornali spesso pensi che non sia possibile, perché succedono cose contrarie a qualsiasi previsione, che sono veramente dei colpi che ti folgorano, su cui poi inizi a rimuginare. Ma c’è una cosa da aggiungere, che emerge in particolare con Lo splendore dei supplizi: uno spirito critico-creativo non può riuscire a decodificare la realtà senza l’immaginazione. Questo è lo sforzo che abbiamo cercato di fare con questo spettacolo: ci siamo innamorati di alcune storie reali, però poi occorre dar loro una forma e dei codici, per trovare un modo di farle arrivare, attraverso l’imbuto del palcoscenico, a un pubblico.
L.L.: Un elemento che caratterizza i nostri lavori è una dimensione surreale, in cui si racconta la realtà senza preoccuparsi di utilizzare trucchi, parrucche, il baffo finto – tutte cose che io amo moltissimo, perché rimandano a un teatro antico, da capocomico, un mondo per me meraviglioso. In realtà credo che il teatro sia proprio questo. C’è un’autenticità che lo rende più forte di altre forme d’arte: con qualsiasi cosa, anche di molto piccolo, si possono creare mondi infiniti.
Nei nostri lavori ci preoccupiamo soprattutto che il sentimento che ci porta a voler raccontare una certa cosa sia autentico, il resto può anche essere fintissimo. Ad esempio, nella scena della badante e dell’anziano abbiamo scelto che facessi io il vecchio e Riccardo la ragazza – il contrario avrebbe potuto sembrare meno invasivo –, ma dopo due secondi si dimentica perché abbiamo lavorato più che altro sull’autenticità del rapporto, piuttosto che su un’autenticità di forma.
R.S.: Secondo me, l’artificio è un tranello teso al pubblico: serve per rassicurarlo, perché quello che si mostra è finto e non c’è da preoccuparsi; ma, a un certo punto, emergono come delle crepe in cui ci sono, ad esempio, il rapporto fra me e Licia, cose della vita, anche molto attaccate alla carne. È la nostra vita traslata attraverso degli artifici.
In particolare, nei vostri spettacoli, spesso succedono cose terribili – conflitti, morti, omicidi. È un taglio diretto, non molto frequente nel teatro contemporaneo.
R.S.: C’è il sacrificio – è la parola a cui girano intorno tutte queste cose. Lo splendore dei supplizi finisce con un sacrificio veramente terribile. È come se, per cambiare qualcosa, ogni volta qualcosa dovesse morire. Quando facciamo gli spettacoli, cerchiamo di raccontare un cambiamento, qualcosa che inizia in un modo e finisce in un altro. È indubbio che la morte sia uno degli elementi più forti che può indurre un cambiamento.
L.L.: Bisogna anche dire che ci sono sempre due piani che si mischiano: il nostro teatro fa parte moltissimo di quello che siamo noi due e dunque l’elemento biografico c’è sempre, se non nei fatti, almeno nelle emozioni. Quindi, per esempio, ci sono tutti i miei pensieri sulla morte. Senza contare il fatto che siamo nati e cresciuti artisticamente in un momento di grande decadenza politica e culturale, di disfacimento di tutto. Il nostro modo di raccontare la devastazione di un mondo che cade a pezzi – per tornare al discorso di prima – non è parlare di Berlusconi o dei tagli alla cultura, ma viene ricercato nel piccolo; se una famiglia proletaria barese arriva a brutalizzarsi in questa maniera, penso a Furie de Sanghe, è anche perché c’è una società intorno che li condiziona. Oppure, per esempio, in Duramadre, oltre alla dimensione matriarcale, c’era un ragionamento sul potere, dunque sulla dimensione politica del nostro Paese. Lo splendore dei supplizi, invece, è più legato alla società che cade a pezzi e il meccanismo è più chiaro. Forse questo è il nostro lavoro più divertente, ma è anche l’unico che finisce veramente male: tutti gli altri avevano, alla fine, una sorta di speranza…
R.S.: Ma perché eravamo noi speranzosi.
L.L.: Questo spettacolo, invece, finisce con la morte, anzi con due che festeggiano la morte di una persona. È senza speranza. Ed è la nostra visione di quello che stiamo vivendo in questo momento storico-politico nel nostro Paese.
Per quanto riguarda le fonti, i materiali di partenza, da dove attingete? Quali sono gli archivi, gli immaginari, i repertori? Ad esempio per questo spettacolo.
R.S.: Vita personale.
L.L.: E la cronaca. Poi, ci ha aiutato moltissimo per esempio un testo di David Foster Wallace Da una parte e dall’altra, dalla raccolta di racconti La ragazza dai capelli strani. Ci piaceva questo taglio di prospettiva…
R.S.: …di raccontare la stessa storia da due punti di vista diversi.
L.L.: In realtà avevamo già quest’idea per ragioni biografiche. Poi ho avuto una suggestione d’immagini: a Vienna, un anno fa, siamo andati all’Albertina, dove c’era una personale di Joel Stenfield che esponeva foto dell’America degli anni ’70 e ’80 di una grandissima volgarità. Non in senso pornografico: c’era l’immagine di una ragazza molto abbronzata – un’abbronzatura di quelle fucsia, forte, fortissima – che portava un top che lasciava intravedere il segno bianco delle spalline del costume, un’altra con una vecchietta dentro un bar che contava i soldi in modo molto avido. Erano di una strana volgarità. È qualcosa che mi sono portata moltissimo nella creazione delle figure di questo spettacolo.
Poi il Mein Kampf, che è stata per me un’illuminazione. Quello della badante è il quadro più delicato, perché è un argomento così vivo e presente che, se lo replichi, rischia di sgonfiarsi. Allora abbiamo deciso, prima di tutto, di fuggire dalla ripetizione della realtà: abbiamo invertito i ruoli; e, poi, cercavamo l’essenza di questo rapporto. Ricordavo di aver letto tanti anni fa il Mein Kampf, quando l’ho ripreso è stato riaprire un mondo, perché è un testo terribile, ma, per affermare la sua tesi, utilizza elementi talmente surreali che prima fanno ridere e poi agghiacciano. Questa è stata la chiave per trovare la via della scena della badante. Poi Riccardo legge molta filosofia…
R.S.: Io amo molto René Girard, poi abbiamo letto Foucault che è stato illuminante ed è diventato il collante di questo spettacolo, come a dare corpo a un pensiero intorno a queste situazioni di cronaca.
L.L.: …e poi musica, tanta musica, infinita musica – quello sempre. Per me è proprio fondamentale per lavorare.
Fibre Parallele nasce nel 2005, sono quasi dieci anni di lavoro insieme. Quali sono le tappe importanti o i punti di svolta di questo percorso fra incontri, esperienze, riferimenti, maestri, spettacoli visti e spettacoli fatti?
L.L.: Dico per me. L’incontro con Massimo Verdastro, penso a suoi spettacoli come l’Ambleto con Lombardi Tiezzi, che mi ha folgorato, un capolavoro assoluto. È stato importante l’incontro con Daniele Timpano durante il Premio Scenario: eravamo demoralizzati perché non arrivammo in finale – appena nato, era già tutto finito –, ma a Daniele piacquero i venti minuti di Mangiami l’anima e poi sputala, così ci portò a Ubusettete, la rassegna che organizzava a Roma.
Poi il bando dell’Eti, Nuove Creatività, che ci ha permesso di fare Furie de Sanghe, un’esperienza di produzione vera: la prima con dei soldi, con altri attori, con i tempi produttivi giusti. E poi anche quando siamo andati a Parigi: non è stata una svolta, ma è stata la cosa più bella del mondo.
Io direi anche Duramadre, che, non in senso positivo, è stato per me un punto importantissimo. L’altro giorno, quando siamo arrivati, guardavo questo spazio e ho pensato a quanto ero diversa l’ultima volta che sono venuta a Bassano, due anni fa: dal 31 agosto 2011 sono cambiate molte cose di come vedo il teatro quando lo faccio, di come mi relaziono alle persone con cui lavoro, di come mi rapporto al teatro e forse anche alla vita. Anche se è stata un’esperienza negativa, la metterei fra i punti di svolta: è stato importante perché, se prima non ci fosse stato Duramadre, non avremmo potuto fare oggi questo spettacolo, mai in questa forma; è stata una delle tappe più importanti del mio lavoro.
R.S.: Pensando alla formazione, una delle esperienze fondamentali è stato un laboratorio con Ricci e Forte, perché, attraverso il lavoro fatto con loro, è come se avessimo rotto delle barriere.
Attraverso la produzione Eti, abbiamo incontrato Vincent Longuemare, che ha contribuito a creare l’immagine degli ultimi tre-quattro spettacoli.
L.L.: È un rapporto fondamentale: è un genio assoluto e difficilmente ne faremmo a meno.
R.S.: Ovviamente, come figure di riferimento, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari.
Fra gli spettacoli, l’ultimo stupendo che ho visto è stato Sonja di Hermanis.
Un’altra tappa fondamentale è rappresentata dai laboratori che Licia ha iniziato a fare, che hanno creato una piccola comunità, non necessariamente aspiranti attori, quanto piuttosto persone interessate a stare insieme attraverso il teatro.
L.L.: Quando invece facciamo laboratori per attori è diverso perché, oltre al piacere di fare teatro, c’è sempre giustamente una aspettativa professionale. Invece lavorare con loro è un dono, perché c’è l’entusiasmo, la voglia…
R.S.: E tra un po’ lo faremo con gli anziani. Abbiamo un progetto di laboratorio per over 65.
L.L.: Avere un nostro spazio, che si chiama Agli Antipodi, è stata una tappa fondamentale del nostro percorso.
Che cosa sperate che il pubblico si porti via dopo aver visto un vostro spettacolo?
L.L.: Potrei dire infinite cose, ma quella che mi interessa di più è che almeno una parte, uscendo dalla sala, abbia voglia di tornare a teatro. Per me è la cosa più importante.
Intervista a cura di Roberta Ferraresi e Carlotta Tringali
Prossime date di Lo splendore dei supplizi
18>20 ottobre Nuovo Teatro Abeliano – Bari
21 novembre Teatro Studio – Scandicci (FI)
22 novembre Teatro V. Da Massa Carrara – Porcari (LU)
27 novembre Teatro Comunale Lucio Dalla – Manfredonia (FG)
29 novembre Teatro Bertolt Brecht – Perugia
30 novembre Teatro Rasi – Ravenna