intervista maurizia settembri

Una “casa” per gli artisti di tutta Europa

Fabbrica Europa è una realtà particolare all’interno del panorama italiano dei festival. Attivo a Firenze dal 1994, il progetto è stato ideato da Maurizia Settembri, che negli anni ha coinvolto una serie di figure diverse, fino a farne oggi uno dei punti di riferimento per le arti performative.
Ha un centro importante e pulsante, la bellissima Stazione Leopolda, ma agisce anche attraverso una rete di spazi gestiti da diversi artisti della città; invita giovani coreografi e artisti affermati; ospita spettacoli italiani, europei, internazionali. In questa conversazione con Maurizia Settembri, alla Direzione danza, multimedia e progetti internazionali, andiamo a scoprire il terreno da cui si è originata Fabbrica Europa, le sue linee culturali, le scelte di progetto iniziali e le trasformazioni che hanno attraversato, negli anni, questo “cantiere aperto”.

Un ritratto di Maurizia Settembri

Un ritratto di Maurizia Settembri

Il nostro paese è popolato di moltissimi festival, di diverse dimensioni, poetiche, intenti. Qual è la specificità di Fabbrica Europa all’interno di questo scenario? Lo ha definito un festival “in ascolto”…
Intanto, bisogna dire che Fabbrica Europa non nasce come festival: nasce a Firenze nel 1994 come progetto di formazione, a partire da una richiesta locale di otto giovani coreografi. Era un momento di “deserto” : dopo Firenze Capitale Europea della Cultura, si era conclusa l’esperienza del Teatro Regionale Toscano, organismo di produzione, ed era finita da qualche anno la Rassegna dei Teatri Stabili. Nel frattempo, a livello cittadino, si era sviluppata molto la danza, a partire dall’esperienza del Teatro Comunale, Maggio Danza, il Progetto Martha Graham che avrebbe dovuto concludersi con la nascita di una scuola, mai realizzata. Erano presenti alcune importanti scuole come il Centro Danza diretto da Cristina Bozzolini e Rosanna Brocanello. Molti teatri storici erano chiusi per restauro (Affratellamento, Goldoni, Niccolini). Così una città che era stata piena di teatri, se ne trovava priva. Ma c’erano molti palazzi con sale che si prestavano facilmente ad essere trasformate in scuole e spazi per la danza. Così, è venuta l’idea di proporre un grande progetto, che potesse coinvolgere artisti della danza e anche di altre discipline, dalle arti visive alla musica, al teatro.
Dopo un’esperienza di lavoro al Centro per la Ricerca e la Sperimentazione Teatrale di Pontedera, avevo iniziato un’attività indipendente: curavo tournée di compagnie internazionali e giravo molto. Quando sono ritornata a Firenze avevo voglia di lavorare su uno spazio che non fosse un teatro – in Belgio ero rimasta affascinata dagli spazi di archeologia industriale utilizzati ai fini culturali – e durante una visita alla alla Sovrintendenza di Firenze, alla ricerca di spazi, una persona mi parlò della Stazione Leopolda, che nessuno conosceva a Firenze.

Uno spazio in disuso?
Era una stazione del 1850, adibita a magazzino degli oggetti smarriti, di proprietà delle Ferrovie dello Stato. La Sovrintendenza alle Belle Arti la stava registrando fra i beni di interesse artistico da tutelare. Quando ha preso avvio l’idea di lavorare con gli otto giovani coreografi, sono tornata a vedere lo spazio insieme ad Andrés Morte (fondatore della Fura dels Baus e direttore del Mercat des Flors), che ho voluto subito coinvolgere, non avendo io esperienza su questi spazi. Alessandro Certini, poi, che veniva da un’esperienza di lavoro a Berlino con Charlotte Zerbey, propose di intitolare il progetto al “disordine delle arti” perché condiviso da artisti diversi. E, all’inizio, partì come progetto di formazione con due finanziamenti europei (il festival non si chiama “Fabbrica Europa” per caso). Ai dirigenti delle Ferrovie dello Stato – che gestivano lo spazio – l’idea piacque molto. E ci hanno subito appoggiato. Ma c’era una certa resistenza da parte del Comune e altri enti. Ritenevano questo progetto impossibile. Non c’erano soldi; pensavano che la nostra idea fosse un bluff. Ma a Firenze c’erano invece molti operatori che avevano voglia di fare qualcosa di nuovo: il progetto nasceva dalla città, dalle persone che ci lavoravano e da quelle se n’erano andate, e che poi sono tornate. Erano soprattutto artisti, tecnici, danzatori, musicisti.

E dopo questo primo momento?
Il primo anno è stato veramente un grande laboratorio, di incontri e formazione. Avevamo i finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, con il progetto regionale Arte e Cultura che ha permesso di organizzare un corso di formazione triennale per 20 giovani operatori, ogni anno, coinvolgendo professionisti internazionali e grandi artisti. C’era inoltre il Progetto Europeo Caleidoscopio attraverso il quale è stato possibile realizzare delle produzioni invitando a lavorare insieme una trentina di artisti italiani e stranieri. A questi si aggiungevano un grande numero di altri artisti locali e volontari. Dopo il primo anno ci siamo subito posti il problema di come trovare risorse e coinvolgere altri attori della realtà culturale fiorentina, mantenendo il tratto distintivo di Fabbrica Europa: essere un porto franco. Un luogo di creazione e formazione: non era importante che lo spettacolo fosse bello o brutto, bisognava rischiare nuovi processi. Questa la linea culturale: fare alla Stazione Leopolda per un mese, durante il festival, una casa per artisti di tutta Europa.

La Stazione Leopolda

La Stazione Leopolda

La Stazione Leopolda è rimasta un luogo di riferimento per il festival in tutti questi anni. Come si è intervenuti sullo spazio, è stata restaurata?
Non è mai stata ristrutturata, nel senso stretto del termine: è stata ripulita e messa in sicurezza. E si è lavorato sulla facciata, recuperandola con un intervento di Gae Aulenti. Nonostante fosse così centrale, a pochi metri dalla Stazione di Santa Maria Novella, era piuttosto abbandonata. Abbiamo cominciato noi, poi è arrivata la moda, Pitti Immagine, con cui abbiamo collaborato su obiettivi comuni. Né loro né noi volevamo un restauro interno che ne stravolgesse le possibilità infinite di uso. A noi piacerebbe tantissimo farne uno spazio di creazione permanente, un luogo stabile di produzione per gli artisti indipendenti, soprattutto adesso che ha alle sue spalle il grande teatro dell’Opera di Firenze.

L’idea è sempre stata quella di un luogo di rischio? O ci sono state diverse fasi, negli anni?
L’idea è che sia un luogo d’incrocio: di culture e discipline. E di portare la creazione contemporanea a confronto con una città come Firenze, dove ogni anno si inaugura un nuovo Museo. Anche se ora l’apertura del festival alla città vuol dire anche occupare luoghi diversi, e anche spazi del Polo Museale. L’anno scorso, il convegno “Emergenze”, è stato organizzato al Rondò di Bacco, teatrino storico di Palazzo Pitti che negli anni passati ha ospitato Bob Wilson e Meredith Monk. È stato bellissimo, anche dal punto di vista della memoria storica.

Piano piano anche in Italia si sta affermando la figura del curatore per le arti performative: non è un regista, che porta avanti le proprie scelte artistiche e poetiche, ma nemmeno soltanto un organizzatore con competenze gestionali. Quali sono, a suo avviso, le qualità che dovrebbe e non dovrebbe avere un curatore?
Per me è facile rispondere, perché è quello che facciamo da vent’anni: la figura è quella del direttore artistico-esecutivo. Penso che potrebbe essere anche un coreografo o un regista, ma la prima regola dovrebbe essere quella di non presentare i propri lavori quando si ricopre questo ruolo. E poi deve essere una persona capace di creare un ambiente di lavoro continuativo, un’équipe efficiente e autonoma. Vi sono altre figure importanti: penso, ad esempio, al ruolo di presidenza che a Fabbrica Europa è svolto da Luca Dini, una persona che ascolta e che lascia libertà d’azione. Il curatore deve poter essere indipendente nelle sue scelte, non deve sentirsi condizionato e deve portare avanti il suo progetto senza troppi compromessi. Dunque, le qualità fondamentali sono l’indipendenza e la continuità di lavoro. Poi deve essere una persona disponibile, avere il tempo di viaggiare, incontrare persone e vedere tanto, tantissimo. E deve avere una grande capacità di ascolto verso i suoi collaboratori e verso il proprio territorio.

Fabbrica Europa attraversa tutto il mese di maggio. Ma cosa succede durante l’anno? Come si muove un curatore?
Vi sono molti progetti che vanno oltre il mese di maggio: ad esempio, quest’anno, Era delle Cadute, che si realizza a Pontedera con una fase di preparazione in residenza al Teatro Era tra diversi gruppi di teatro e che viene presentato al pubblico il 13 e 14 giugno; oppure il progetto con il coreografo tibetano Sang Jijia, danzatore e assistente per molti anni di Forsythe, e la City Contemporary Dance Company di Hong Kong organizzato in collaborazione con il Maggio Musicale Fiorentino al nuovo teatro dell’Opera di Firenze dove sono previsti incontri, workshop e la presentazione in prima europea di As If To Nothing nei giorni 27 e 28 giugno.
È terminata da poco NID Platform, la piattaforma della danza italiana che è stata organizzata dal 22 al 25 maggio a Pisa e Pontedera, dove mi sono occupata in particolare, con Dominique Martin, della promozione internazionale . Questo progetto sostenuto dal Ministero, dalle Regioni su proposta dell’RTO composta da 17 strutture, festival e circuiti italiani, in collaborazione con Federdanza/Agis, comporta un sostanziale lavoro di coordinamento con strutture italiane. Ma non solo, importante per un curatore di danza è anche essere presente nei vari meeting a giro per l’Europa. Il prossimo sarà il “Focus Danse” durante la Biennale della Danza di Lione. Ve ne sono di continui ogni mese in un Paese diverso. Ricevo diversi inviti. Faccio parte dell’IETM, network internazionale sulle performing arts che nel marzo 2015 si svolgerà a Bergamo, e anche questo sarà un progetto al quale collaborerò attivamente insieme alle Rete delle Residenze Lombarde ETRE. A Febbraio vorrei tornare nuovamente al TPAM di Yokohama in Giappone, un incontro euro-asiatico di notevole interesse. Ma anche partecipare ai vari festival estivi italiani è molto importante e da giugno fino a settembre questa sarà una delle principali attività, mentre penso al programma del nuovo anno e alle produzioni da sostenere. Altra attività fondamentale di un curatore mentre progetta e costruisce il piano di lavoro dell’anno o degli anni prossimi è il fund-raising, la ricerca dei fondi attraverso tutte le vie possibili: progetti europei, bandi delle istituzioni locali e nazionali, fondazioni bancarie, fondazioni internazionali, co-produzioni a vario livello e sponsor.

Altre idee collaterali?
Cercheremo di far partire un progetto alle Murate, ex carcere di Firenze, ristrutturato recentemente. Un progetto di residenze artistiche per la danza in collaborazione con CAB 008, con Cristina Rizzo e Marina Giovannini. Vorremmo diventasse uno spazio per una nuova generazione di coreografi e danzatori italiani con base a Firenze, e dintorni, che però hanno studiato a Londra o Amsterdam e che si muovono fra Barcellona e Reykjavik, Londra, Parigi e Bruxelles. Si definiscono Attivisti della danza. Sono circa 35-40 e stanno portando avanti un discorso di spazio comune per la danza. Cercheranno di creare una Casa della Danza.
C’è una grande diversità fra questa generazione e la precedente: prima, gli artisti cercavano di creare una propria compagnia, mentre adesso l’obiettivo è l’indipendenza, soprattutto dalle pastoie burocratiche. Forse una struttura unica che si occupi di loro dal punto di vista amministrativo è un’idea sana. A Firenze, da 5 anni, nell’ambito dell’Estate Fiorentina, sviluppiamo un progetto di incontro con la musica, attualmente coordinato da Maurizio Busia. Il Festival au Désert/Presenze d’Africa apre la quinta edizione con un’anteprima con protagonisti Amadou & Mariam, ambasciatori della musica del Mali, due straordinari musicisti che hanno contagiato il mondo con i ritmi e le melodie solari della propria terra. Il Progetto prosegue a luglio a Le Murate.

Nei vent’anni di Fabbrica Europa, c’è un ricordo, un’immagine o un aneddoto che è capace di raccontare la storia del festival?
Ce n’è uno in particolare. E risale proprio all’inizio. Qualcuno ha detto che questo progetto era impossibile, che la Stazione Leopolda non esisteva; e che, se esisteva, non era utilizzabile. Di preciso, ha detto: «non è possibile che esista un posto come la Stazione Leopolda e che nessuno abbia pensato di utilizzarlo prima». C’è stato anche chi ha detto che a Firenze “non si può lavorare” e che non si può lavorare in un sistema di collaborazione fra diversi operatori. Fabbrica Europa l’ha fatto (ed è stato un esempio seguito da molti), probabilmente perché fin dall’inizio tutti si sono sentiti partecipi e protagonisti. Credo che sia questo il motivo per cui siamo riusciti a “r”esistere 20 anni.

intervista a cura di
Roberta Ferraresi e Rossella Porcheddu