interviste flavio ambrosini

10 Domande a… Flavio Ambrosini

Flavio Ambrosini

Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Flavio Ambrosini, presente a Primavera dei Teatri con Goethe schiatta.

1. Come definirebbe il suo teatro?
Storicamente è un teatro post-brechtiano. Il mio cominciare a fare teatro è stato all’insegna della rivisitazione critica del brechtismo, cioè di un teatro razionale capace di spiegare le cose, non legato strettamente alla forza evocativa delle immagini ma piuttosto al ragionamento.

2. Che cos’è il teatro di ricerca?
Da un certo punto di vista è il teatro stesso. Basti ricordare Vittorio Gassman che è stato uno degli attori più irrequieti, più bisognosi di cambiare, più bisognoso di cercare strade diverse; poi l’ombra del successo ha coperto la sua ricerca, e ha fatto spettacoli che corrispondevano a ciò che la gente si aspettava e questo capita a tutti i grandi divi. La ricerca è strutturalmente connaturata al teatro, il teatro non può non essere “di ricerca” perché si adatta e anticipa le tensioni e i desideri, la percezione estetica del mondo delle persone.

3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
Gli direi le stesse cose. Gli direi che il teatro cambia ogni giorno, deve cambiare perché le persone vogliono, desiderano qualche cosa di nuovo che aderisca e che le spinga a riflettere sul nuovo. Il teatro di ricerca viene spesso identificato con l’incomprensibile, con il criptico, con il non popolare, ma dipende. Il Bread and Puppet era un teatro di ricerca popolarissimo tra i giovani, era un modo di fare festa per le strade; credo che il Living Theatre non si potesse non definire come teatro di ricerca ma era un teatro di una semplicità assoluta. Quasi tutti i grandi fatti di ricerca sono facili, comprensibili, sono belli perché qualche volta c’è la bellezza che non ha bisogno di essere spiegata. Se invece per teatro di ricerca intendiamo il laboratorio in quella fase in cui non ha ancora costruito tutti i suoi protocolli, per cui ti fa vedere cose che non hanno senso e che significano qualcosa solo per coloro che lo stanno praticando allora sì, il teatro di ricerca è difficile.

4. Goethe schiatta in una frase.
Per me, per te, per il pubblico, per chi? Per me è la vera scoperta di un grande autore. Io capisco solo le cose che faccio. Quando avevo vent’anni era molto popolare nella mia generazione un detto di Mao Tse-tung che diceva: «Per conoscere la mela bisogna mangiarla». Io penso di conoscere bene solo gli spettacoli che ho fatto. Quindi per me è l’incontro con Bernhard, ma è anche l’incontro con Renato che conosco da 30 anni. Sentivo che lui aveva davvero voglia di recitare ed è stato importante vincere la sfida di farlo recitare perché il vero pubblico è meno prevenuto, il pubblico si diverte, gode, anche laddove non capisce. Portare Renato a recitare è convincerlo prima di tutto che ha i mezzi, aiutarlo tecnicamente a imparare i fondamentali, cioè come si respira, perché parlare per un’ora con quel ritmo, con quella tensione, è faticoso. E poi aiutarlo anche a scegliere la quantità di idee che lui aveva, che è poi quello che si fa con l’attore. Tu chiedi all’attore una cosa e lui te ne propone un’altra; dopodiché la mediazione tra il progetto e la soggettività, produce il risultato. Quindi tornando alla domanda: per me, conoscere Bernhard; per noi fare un’esperienza unica a questo punto della nostra vita, della nostra professionalità; per il pubblico, divertirsi.

5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
Fino a ieri nulla, sapevo vagamente che c’era questa cosa perché me ne aveva parlato Renato, poi ho conosciuto a Milano Saverio e Dario; poi loro sono venuti a vedere il mio spettacolo. Non mi hanno neanche riconosciuto, parlavano solo con Renato; io mi sono offeso ma in maniera sportiva, diciamo.Adesso mi hanno detto che sono molto contenti di avermi conosciuto (sorride, ndr). Il festival è una situazione che mi appartiene. Penso che Primavera dei Teatri sia un’iniziativa degna, importante, ancora più importante perché nasce qui a Castrovillari, che non è Napoli, non è Palermo, non è Milano. Si scopre una dimensione che io tendo a privilegiare fortemente. L’idea che mi ha sempre affascinato, e che mi ha imposto anche delle scelte di un certo tipo, è che il teatro debba avere una realtà; io non riesco a sopportare il teatro recitato, non riesco a sopportare l’idea che il teatro sia un luogo in cui si adoperano soltanto le tecniche; allo stesso tempo non riesco a sopportare un teatro in cui c’è una focalizzazione eccessiva sul contenutismo. Il teatro può essere fatto da non-attori, può essere fatto da attori ma questi devono essere altrettanto reali dei non-attori. Il Bernhard (Il Presidente di Carlo Cerciello, ndr) è molto bello, Imma Villa è un’attrice straordinaria perché produce questo senso di realtà e tu l’ascolti e senti che sta succedendo, lei sta dicendo delle cose vere.

6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Io

7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
Dovrei dire sicuramente il primo spettacolo che ho fatto (La grande paura-Torino 1921, ndr), però non è così perché il primo spettacolo che ho fatto, che era uno spettacolo politico di cui posso dire che la responsabilità della regia era mia, è stato fatto nel momento di nascita del Collettivo in forma anonima (Compagnia del Collettivo di Parma, fondata nel 1969, ndr). Usava questa brutta abitudine di scrivere i nomi in ordine alfabetico; a noi sembrava una cosa di avanzatissima visione democratica… Era una grandissima stupidata, era un sottrarsi alle responsabilità. Direi che lo spettacolo che mi ha cambiato veramente la vita è stato Don Giovanni di Mozar che ho fatto però cinque anni dopo il mio primo spettacolo; mi ha cambiato la vita perché mi ha fatto percepire la dimensione musicale del teatro come reale.

8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Shakespeare. Mi piacerebbe molto dirgli: «Senti, perché non mi scrivi una cosa sul potere, oggi?» e lui mi risponderebbe: «ma no, l’ho già scritta, pigliati un Enrico IV, un Enrico V …».

9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Ho vissuto intensamente tutte e due le esperienze. Mi sono battuto sempre per avere la sede, mi sono battuto perché quando abbiamo fatto la Compagnia del Collettivo la prima idea è stata quella di avere un teatro. Per anni abbiamo recitato dove capitava però, progressivamente, abbiamo voluto conquistare uno spazio esclusivo. La Piccola Commenda di Milano nella quale ho lavorato per 10 anni, dove ho potuto mettere in scena Müller e altri autori di oggi, era piccola e difficile da far vivere, però era una casa. I dieci anni più sereni dal punto di vista proprio della progettualità sono stati quelli del Teatro Stabile di Torino. Io sono stato a Torino dal ’73 all’ 83… C’erano tutti i problemi che ci sono in una struttura nella quale devi convincere persone, devi chiedere, non dipende tutto da te; ho fatto una serie di spettacoli più piccoli legati al territorio, spettacoli che sono serviti a entrare in contatto con le realtà territoriali, con la periferia. La stabilità consente tante cose; ad esempio, Primavera dei Teatri se non ci fosse Scena Verticale, che ha un radicamento forte qui, forse non avrebbe la vitalità che ha, ci sarebbe, ma sarebbe una cosa diversa.

10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
Una volta si diceva che il teatro è l’unica performing art che si fonda sul principio del tempo reale, della compresenza dell’attore e dello spettatore; questa è la ragione della sua vita. Oggi la tecnologia è in grado di fare delle cose che il teatro non si immagina neanche; tra poco riusciremo a fare il teatro virtuale, a creare attraverso sistemi di tipo elettronico una intercomunicazione, un’interrelazione tra le persone, basata sulla tecnologia. Tuttavia quello che stiamo facendo noi è difficile da sostituire ma l’idea propria dei network che la compresenza si possa simulare arriverà alla perfezione ma sarà pur sempre simulata, è una necessità della comunicazione. Non è pensabile che questa non travalichi tutto fino a diventare parte della nostra esistenza. Il teatro continuerà a conservare del principio di realtà lo scarto, l’inatteso, quello che tu non puoi prevedere, il black-out.

Biografia di Flavio Ambrosini
È nato a Padova nel 1946. Vive a Milano. Si è laureato a Parma in Storia del Teatro con Cesare Molinari. Ha fondato con G. Novara il “Teatro Studio” di Torino e successivamente la Cooperativa Nuove Parole che metterà in scena, alla Piccola Commenda di Milano, Müller, Bataille, Tennesy Williams, Duras. È regista d’opera del Teatro di Treviso, del Regio di Torino, del Comunale di Bologna, del Regio di Parma, del Teatro Nazionale di Sofia e del Gran Teatro del Liceu di Barcellona. (Biografia gentilmente concessa dal sito primaveradeiteatri.it)