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Lasciarsi guardare: Pippo Delbono racconta Orchidee

Comincia sostituendosi alla voce dell’annunciatrice, ironizzando sul pubblico degli abbonati e sul teatro come intrattenimento. Poi sale in scena per danzare, cappello calato sulla testa, e di nuovo scende in platea, per seguire dalla regia, microfono alla mano, i suoi attori, i suoi compagni di viaggio. È cerimoniere, Pippo Delbono, di uno spettacolo che accoglie i Deep Purple e Georg Büchner, Jack Kerouac e Enzo Avitabile. Lavoro che cerca di fermare un tempo che sfugge, quello pubblico, dell’Italia e del teatro di oggi, e quello privato, della compagnia, delle persone. È fatto di quadri Orchidee, che ha debuttato a VIE a Modena lo scorso giugno, e sarà fino al 19 gennaio sul palco romano dell’Argentina. Immagini e suoni che compongono una dimensione poetica, mescolando le parole di grandi drammaturghi con la crudeltà della morte e la realtà della vita. Si nutre di contrasti, dal bianco della neve al rosso del fuoco, dal freddo al caldo, dal pieno al vuoto, dalla plastica alla carne. Una composizione cubista, come descritta dallo stesso Delbono in camerino, dopo gli applausi e i saluti, in un momento quasi rubato che cerchiamo di fermare in un’intervista che si compone, come Orchidee, di pensieri, di bagliori, di ricordi…
«…le gradazioni si armonizzano, s’incastrano, si completano, si oppongono in qualche momento, ma non in maniera schizofrenica. C’è una frammentazione che diventa narrazione, c’è circolarità. Ma anche un’inversione di sguardi, se all’inizio sono gli spettatori a essere processati, poi sono io senza difese, mi lascio guardare».

Foto di Mario Brenta e Karine de Villers

Foto di Mario Brenta e Karine de Villers

E sogna un pubblico che danzi durante lo spettacolo…
«Metto in gioco un’impotenza nostra, io stesso mi metto in prima fila, perché fra il pubblico farei fatica a muovermi. Non è uno sguardo giudicante il mio, ma un prendere coscienza di un teatro che ha perso il corpo».

È un problema tutto italiano?
«Molto italiano. Lavoro tanto in Sudamerica, ho fatto spettacoli in Africa, e c’è un altro rapporto col corpo. In teatro non bisogna trovare conferme, è necessario perdersi, vivere un’esperienza senza necessariamente catalogarla. Orchidee ti porta a stare nel buio ascoltando una voce».

Come all’inizio dello spettacolo
«Sì, c’è nervosismo, ci si chiede perché non comincia. Una volta a Parigi sono andato a vedere un film di Marina Abramovic. Dopo tre minuti che si stava in sala ad attendere l’inizio, nel pubblico cominciava a crescere imbarazzo. Forse ho preso qualche spunto da quell’esperienza. Questo per me è arte, ma è anche Brecht, è Pirandello. Noi siamo figli di grandi maestri, io sono brechtiano nell’osso anche se non faccio Brecht».

Ritornano, però, in Orchidee, rielaborati, i grandi classici, Shakespeare, Cechov…
«Sì, c’è Ofelia, c’è il Giardino dei Ciliegi, ci sono le parole dei grandi maestri cui rubiamo l’anima, che decontestualizzate assumono significati differenti, diventano parole forti, vere, pulsanti».

Ci sono le parole, e ci sono i corpi. Corpi imperfetti che mostrano un mistero più grande?
«Nel corpo c’è poesia, c’è bellezza, ed è quello che cerco, non un’estetica. Quando vedo Bobò con le sue manine che balla su questa seggiola, io trovo qualcosa di assolutamente poetico. Così come quando vedo Gianluca (Ballarè, ndr). Questi corpi anonimi paradossalmente hanno un rapporto maggiore con la realtà, e con la bellezza che non riesco a trovare in una fisicità perfetta, che è abusata, strumentalizzata. Io, ad esempio, preferisco il mio corpo adesso rispetto a quando ero magro, la mia pancia mi mette un’altra lotta nel danzare. E Bobò ha una grande fortuna, si permette un piccolo gesto e c’è già libertà».
Foto di Mario Brenta e Karine de Villers

Foto di Mario Brenta e Karine de Villers

C’è in Orchidee l’abbraccio di Pepe e Gianluca, di due uomini, di due corpi nudi. E quella corsa senza veli di un uomo e una donna, quasi Adamo ed Eva in fuga dall’Eden. Come lavora con gli attori sulla nudità?
«Sono molto pudico, non chiederei mai a un attore di spogliarsi a meno che non sia lui a propormelo. C’è sempre una delicatezza, forse mia mamma mi ha condizionato in questo. Quando Pepe (Robledo, ndr) abbraccia Gianluca, in quel gesto, in quell’abbraccio, c’è qualcosa di più dell’omosessualità, del dibattito sulle coppie aperte, c’è qualcosa che supera le categorie sessuali, ci sono due corpi che si uniscono».

Come lo spettacolo nasce dal vissuto, così le scene nascono dall’improvvisazione
«Per me è importante che gli attori propongano quello che sentono di fare. Io all’inizio guardo molto, scrivo tanto, sono molto femminile nello sguardo, come Pina Bausch».

È questo che ricorda maggiormente di lei, lo sguardo?
«Lo sguardo, gli occhi, la concentrazione. E come guardava Bobò, amava Bobò e lo guardava come si guarda qualcuno di straordinario».

Parla di bellezza e di poesia, ma all’inizio dello spettacolo, citando Kerouac, dice anche che questo mondo a volte le fa schifo. Il disgusto si combatte portando in scena il nostro tempo?
«Non voglio andare via da questo mondo, voglio stare qui, provando a non farmi contaminare. Non voglio morire da vivo, il peso dell’artista, in questo momento più che mai, è di cercare di stare lucido, attento, e di cercare la felicità. Anche se c’è provocazione, ciò che conta è l’incontro, uno spettacolo è sempre un atto d’amore. Ma l’amore porta con sé anche la durezza e il dolore ti mette in contatto con la realtà, con la verità, con la vita. Diceva una canzone di Fabrizio De Andrè: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».

Intervista a cura di Rossella Porcheddu