Tempo di primavera, tempo di nuove produzioni. Al Teatro Stabile del Veneto – neo-riconosciuto dal Ministero fra i 7 Teatri Nazionali – va in scena una PRIMAVERA TEATRALE tutta particolare: una nuova rassegna fra Venezia e Padova che vede protagonisti gli artisti che il Teatro produrrà nella prossima stagione. Fra incontri, prove aperte, studi e letture, Natalino Balasso, Michela Cescon, Tiziano Scarpa, Giorgio Sangati, Babilonia Teatri, Giuseppe Emiliani condividono con gli spettatori frammenti dei work in progress che condurranno alle produzioni del prossimo anno.
Sono loro infatti i protagonisti della Primavera Teatrale, che si è distinta – come nelle linee guida della progettualità dello Stabile – per l’identificazione di 5 aree tematiche: Parole Contemporanee (Natalino Balasso con La Cativissima – Epopea di Toni Sartana), Progetto Giovani (Tiziano Scarpa e Giorgio Sangati con I maggiorenni), Officina Goldoni (Giorgio Sangati con Arlecchino – Il servitore di due padroni e Giuseppe Emiliani con I Rusteghi), Incubatore Produttivo (Babilonia Teatri con David è morto) e Teatro e Spiritualità (Michela Cescon con Il testamento di Maria).
In occasione della Primavera Teatrale, Il tamburo di Kattrin dedica uno spazio speciale al progetto: ha chiesto alcune anticipazioni agli artisti, in forma di intervista scritta, per scoprire qualcosa di più del loro teatro, di come lavorano e sulle nuove produzioni, su cosa si stanno concentrando in questo momento e come si svilupperanno i progetti.
Qui sotto le 3 domande, per leggere le risposte occorre cliccare sul nome del singolo artista o gruppo.
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In tre parole: cos’è il suo/vostro teatro? E cosa non è?
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Rispetto al processo in corso con il Teatro Stabile del Veneto e all’appuntamento di “Primavera teatrale”, in questo periodo su cosa sta/state lavorando?
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Una “cartolina” dal processo creativo della nuova produzione: un’immagine e una frase al momento rappresentative del lavoro in via di creazione.
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In tre parole: cos’è il suo/vostro teatro? E cosa non è?
Babilonia Teatri Il nostro teatro è pop, rock e punk.
Non è classico, non è interpretato, non è intrattenimento.
Natalino Balasso Il nostro è un teatro che non si definisce in tre parole. Ma sicuramente è un teatro nel quale gli attori e il pubblico stanno dalla stessa parte. Cosa non è? Non è noioso.
Giuseppe Emiliani Non so cosa caratterizzi il mio teatro da farlo apparire diverso da un altro.
Sono certo di una cosa: il mio teatro nasce da un affamato bisogno di conoscenza di una società che sta violentemente cambiando, anche nei meccanismi comunicativi e nei paradigmi estetici (per non parlar dell’etica).
Amo usare il teatro come strumento conoscitivo, sia nei confronti di un testo, sia nei confronti della realtà alla quale questo testo si riferisce.
Ogni testo, per me, è uno spiraglio che apre altri mondi.
Ogni testo lo affronto con grande curiosità.
L’arte del teatro è l’arte della curiosità, della irrequietezza e del rischio. Chi fa teatro non riesce a stare semplicemente con la terra sotto i piedi bensì ogni luogo invita all’oltrepassamento.
Ogni esperienza è la testimonianza del desiderio che porta oltre l’esperienza.
Fare teatro, per me, è una esperienza di navigazione avendo gli attori come compagni di viaggio. Non è solo interpretare, progettare, dirigere, coordinare. Fare regia, fare teatro, è una “attività” e una “ricerca”: abbandonare ogni volta ogni facile patria, lasciarsi alle spalle certezze, credenze, pregiudizi, per decidersi ad andare. Andare anzitutto dove il rischio è maggiore, dato che al suo aumentare aumenta anche la possibilità di conoscersi. Andare alla ricerca di una strada nel luogo dove per definizione non si può camminare: il mare.
Nel momento in cui si parte non si sa cosa ci aspetta ma non si può andare in viaggio con sregolatezza. Bisogna navigare nel solco delle precedenti esperienze di viaggio. Non bisogna dimenticare o, peggio, non ri-conoscere i grandi maestri della navigazione. Deve esserci un metodo nel procedere di chi naviga. Occorre essere consapevoli che un errore può portare al naufragio. Quando si naviga c’è bisogno di qualcuno che si assuma la responsabilità del viaggio. Qualcuno che indichi la rotta nel “folle volo” oltre le Colonne d’Ercole. Credo che possono cambiare i luoghi della navigazione, possono cambiare le zattere, possono cambiare i venti… La bella speranza è che non cambi mai il mare, lo spazio metafisico dove gli amanti della ricerca cercheranno sempre, in ogni tempo, di andare avanti anche durante la bonaccia. Perché i teatranti, come le navi, non sono fatti per restare in porto, ma per attraversare il “mare della vita” nell’interrogazione.
Giorgio Sangati Il mio teatro è fatto di parole, spazio e attori. Parole come testo da sviscerare; spazio come microcosmo da inventare; e attori come corpi per dare vita al testo nello spazio. Di questi tre elementi l’ultimo, gli attori, è il più importante. Una volta andati in scena per me lo spettacolo è loro: uno spettacolo bello per me è uno spettacolo rischioso. Mi piace pensare agli attori come funamboli che ad ogni passo rischiano di cadere ma che, alla fine non cadono grazie alla loro bravura, al loro coraggio davanti agli occhi ammirati del pubblico.
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Rispetto al processo in corso con il Teatro Stabile del Veneto e all’appuntamento di “Primavera Teatrale”, in questo periodo su cosa sta/state lavorando?
Babilonia Teatri Per la “Primavera Teatrale” abbiamo presentato al Teatro Verdi di Padova lo spettacolo a cui stiamo lavorando in questo periodo. David è morto, sarà prodotto da Teatro Stabile del Veneto ed Emilia Romagna Teatro Fondazione e debutterà a novembre. David è morto sarà uno spettacolo che, giocando sul filo del paradosso, porterà all’estremo le dinamiche della nostra società costruendo una vicenda al limite del verosimile per dipingere il ritratto di una generazione allo sbando.
David è morto è un progetto originale.
È la volontà di raccontare una storia.
È la volontà di lavorare con degli attori.
È la volontà di scardinare ancora una volta la nostra dinamica di lavoro e di messa in scena. Ci piace e ci affascina l’idea di sperimentare e mettere alla prova la nostra poetica e la nostra estetica in contesti e forme continuamente diversi.
Resta fermo il nostro bisogno di fare i conti con le nostre contraddizioni e con quelle del mondo in cui viviamo. Da qui la scelta di scrivere un testo e uno spettacolo che raccontino una vicenda surreale che spinga fino alle estreme conseguenze le storture del nostro tempo.
È il racconto di una provincia lasciata a se stessa dove si corre per non sapere quel che è stato lasciato alle spalle, per non vedere quel che ci circonda, per continuare a sognare un traguardo che non c’è.
È una narrazione scanzonata e leggera di una realtà profondamente drammatica.
La vicenda parte dalla realtà per costruire un’iperbole che per noi è l’unica possibilità per raccontare con efficacia un mondo in cui spesso il reale supera la fantasia.
Natalino Balasso Ad aprile abbiamo presentato la commedia La Cativìssima, l’epopea di una sorta di Ubu veneto che si chiama Toni Sartana, un personaggio crudele e infantile. La commedia è scritta da Natalino Balasso e recitata, oltre che da lui, da altri due attori e tre attrici. Fa parte di una trilogia della quale le altre due commedie dovrebbero andare in scena nei prossimi anni.
Giuseppe Emiliani Come regista resto ancorato a una “utopia umanistica”. Continuo ad amare lo studio ostinato del testo. E del sotto-testo che amo costruire lentamente, con precauzione. A volte con rabbia. Interrogando ogni frase, ogni parola. Ogni suono.
In questo periodo sto studiando e fantasticando su possibili letture registiche del testo. Mi sto attrezzando per dare tutte le informazioni all’attore quando, finalmente, inizieranno le prove.
A tutti quelli che mi chiedono perché io ami così tanto Goldoni rispondo che lo amo perché ogni volta che allestisco un suo testo ho l’impressione che Goldoni non sia stato ancora, fino in fondo, capito.
Sono convinto che Goldoni abbia ancora bisogno di essere riletto, interrogato, rappresentato.
Anche la commedia I Rusteghi, indubbiamente il suo capolavoro, offre continui nuovi spunti di riflessione. Quando la scrive, nel 1760, Goldoni è un intellettuale sempre più lucido, aperto alle esperienze e alla cultura europea (nel 1760 avverrà il famoso contatto epistolare con Voltaire), più filosofo insomma, nel senso settecentesco del termine.
I Rusteghi nascono anche da questa attenzione ai “lumi” che vengono dall’Europa, e permettono un giudizio più ampio sulla società veneziana.
Una commedia di rara felicità espressiva, di straordinaria abilità scenica, di grande sapienza linguistica.
Una esplosione gioiosa d’inventiva ad ogni gesto e battuta.
Una commedia in cui l’autore affonda il bisturi sulla città che lo circonda, utilizzando con consumata maestria tutte le risorse del suo laboratorio drammaturgico e della sua lingua straordinaria.
Goldoni costruisce il suo componimento con un rigore raramente eguagliato in altri testi, concentrando l’azione in un lasso di tempo minimo (una mezza giornata) che subisce una accelerazione impercettibile ma costante fino alla frenesia della gran scena finale.
L’azione si svolge tutta in interni, gli unici spazi possibili per i quattro rusteghi, quattro uomini alle prese con un eros inquieto e perturbante, con famiglie difficili da governare e con affari ancora prosperi ma già minacciati di crisi.
Ambiguità, insicurezza, irresolutezza, nevrosi caratterizzano questi despoti improbabili, arroccati nella difesa a oltranza del passato contro ogni minaccia di novità.
Netta è la polemica di Goldoni con il conservatorismo ormai rozzo della classe cui appartiene e in cui ha per molto tempo ciecamente creduto. Il mercante lucido e avveduto, che per lunghi anni, nei panni di Pantalone, aveva impersonato il prototipo di un individuo socialmente responsabile, consapevole dell’interesse proprio e altrui, aperto e illuminato, si è ormai svilito a una caricatura di se stesso. Chiuso nella propria casa, gelosamente attaccato al proprio meschino tornaconto, si rifiuta di concedere a chi gli è sottomesso (le donne e i figli) qualunque autonomia di comportamento.
Se i rusteghi tendono a chiudersi dentro le loro case come in una fortezza impenetrabile, le donne guardano alla vita, all’esterno, ai contatti sociali, ai doveri dell’amicizia e della parentela, ai diritti del sentimento. I rusteghi no. Si sentono minacciati dai grandi rivolgimenti che stanno per toccare Venezia e riescono a esistere soltanto nel chiuso delle loro mura domestiche, dove agiscono con prepotenza insopportabile vietando visite, divertimenti, sprechi e frivolezze e ogni minima forma di ozio, soprattutto il teatro.
Il teatro è aborrito e temuto dai rusteghi: lo considerano luogo di corruzione e di spreco, come il carnevale che c’è fuori e a cui è vietato partecipare. Il carnevale negato, tuttavia, alla fine irrompe lo stesso nelle stanze serrate e austere dei rusteghi, con tutta la sua carica di comicità trasgressiva.
Il conte Riccardo, un avventuriero onorato, accompagnerà nella casa-fortezza di Lunardo, il giovane promesso sposo Felippetto mascherato da donna, contento di verificare il gusto tutto veneziano di fondere gioco ed esistenza, felice di “godere della più bella commedia di questo mondo”.
I Rusteghi non sono soltanto uno spaccato di interno borghese, ma la messa in evidenza di un rapporto continuo tra questo interno e una città che penetra in esso nonostante l’ideale di claustrazione che domina i rusteghi.
Il teatro penetra nel chiuso mondo domestico, sommuovendolo dall’interno, smascherandone le contraddizioni: per affermare, insomma, il proprio potere demiurgico.
Goldoni riesce a costruire, nel modo insieme più naturale e raffinato, una struttura comica omogenea e pur fondata su sottili differenze (sociali, familiari, di sesso e di generazioni).
Lunardo si presenta con due donne giovani in casa (la figlia e la seconda moglie), fin troppo “desmesteghe” per lui.
Maurizio, vedovo, presenta, per opposizione, un mondo senza donne. È il rustego apparentemente più favorito, il più silenzioso, austero.
Simon costituisce con Marina una coppia solitaria, legata da una lunga consuetudine di reciproca aggressività.
Canciano, infine, costituisce con donna Felice la coppia più civile, proprio perché il rapporto tende a rovesciarsi, rendendo Canciano il rustego più velleitario e represso.
Il gioco mutevole dei personaggi e tra i personaggi è affidato soprattutto al linguaggio, alla grande energia verbale. Non c’è nei Rusteghi una sola battuta sbagliata.
Famosa è “la renga” finale di siora Felice, quasi portavoce dell’autore: bella, elegante, più ricca delle altre donne per retaggio famigliare, sa parlare con proprietà ed è abile a dominare il marito e i suoi temibili compari. La sua forza sta nel possesso pieno dello strumento della retorica.
È lei il personaggio che più strettamente si lega al grande motivo metaforico che percorre la commedia: quella del teatro.
È subito avvertibile, sin dalle prime battute, che alla base della commedia ci sia una sorta di allegra e sicura provocazione del Teatro – per usare i termini notissimi dell’autore – rispetto al Mondo che tende a esorcizzarlo come un rito pericoloso e inutile.
Il pubblico, sin dall’inizio, viene coinvolto in questa provocazione: «Debotto xe fenio el carneval – osserva Lucietta – gnanca una strazza de comedia no avemo visto […]».
La commedia si avvia quindi come discorso sul teatro.
Tra le improvvisazioni di siora Felice, simbolo esplicito dell’autore in quanto regista della “commedia”, e lo spasso di Riccardo, rappresentante pure esplicito del pubblico sulla scena, si muove l’invenzione sicura di Goldoni.
Nei Rusteghi traspare la sua maggiore fiducia nelle capacità del teatro di affermare la propria funzione sociale e civile.
Un teatro moderno. Perché in questo universo domestico di rancori e ossessioni, non ci sono alla fine né cordialità né riscatti: solo l’effimera tenerezza della scena nuziale conclusiva, che non reca un vero sollievo.
La commozione finale dei quattro rusteghi, occasionalmente sconfitti, non prelude a significativi cambiamenti. Ed è questa la sottile crudeltà sottesa alla commedia. E la sua straordinaria modernità.
Giorgio Sangati Per il momento siamo alla primissima lettura: si è formata la compagnia, il testo è stato adattato e abbiamo i bozzetti dello spazio in cui ci muoveremo: una specie di soffitta senza tempo e zeppa di bauli. Dentro questi bauli ci sono vestiti impolverati, attrezzeria ammaccata, vecchi strumenti musicali, quanto basta per far vivere il testo: è sufficiente aprirli e “dare un poco d’aria agli abiti” per dirla con le parole di Goldoni. Siamo a caccia di quest’aria, di questo respiro che da secoli permette il ripetersi del miracolo di Arlecchino.
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Una “cartolina” dal processo creativo della nuova produzione: un’immagine e una frase al momento rappresentative del lavoro in via di creazione.
Babilonia Teatri
Farò un solo intervento in città. Uno solo. Unico, ma necessario.
Costruirò un teatro.
Un teatro enorme.
In grado di contenere tutto il paese sul palco. E tutte le migliaia di quotidiani visitatori in platea.
Il teatro tornerà ad essere agorà.
Tutte le sere di tutti i giorni di tutti gli anni a venire andrà in scena lo stesso spettacolo.
David è morto: il musical.
Natalino Balasso Il lavoro vero e proprio comincia questa estate, quindi non abbiamo immagini. Dal testo della commedia, vi riportiamo una battuta di Toni Sartana:
«Lo sai Benetti cosa vuol dire vivere nel’Onbra? No, tu non lo puoi sapere. Sei sempre stato ala luce. Avevi i schei di tuo padre, giravi in BMW a diciott’ani, avevi le fighe. E poi ti sei laureato che eri già padrone di una fabrica e in questi ani hai colesionàto una schiera di lecaculi pronti a eseguire i tuoi ordini. La diferenza tra te e me è che tu non conosci la sconfita».
Giuseppe Emiliani Abbiamo da pochi giorni costituito il cast di grande qualità (è davvero una “bella cartolina”):
Stefania Felicioli (che torna a recitare I Rusteghi, nella parte di siora Felice, dopo essere stata una indimenticabile Lucietta nello storico allestimento di Massimo Castri)
Giancarlo Previati, nella parte di Lunardo
Piergiorgio Fasolo, nella parte di Simon
Alessandro Albertin, nella parte di Cancian
Alberto Fasoli, nella parte di Maurizio
Cecilia La Monaca, nella parte di Margherita
Maria Grazia Mandruzzato, nella parte di Marina
Margherita Mannino, nella parte di Lucietta
Francesco Wolf, nella parte di Filippetto
Michele Maccagno, nella parte del conte Riccardo
Scenografia di Federico Cutero
Costumi di Stefano Nicolao
Musiche di Massimiliano Forza
Giorgio Sangati L’Arlecchino che immagino non è né attualizzato, né filologico è perso in qualche punto della storia in compagnia di un gruppo di attori, della loro umanità, della loro malinconia ma anche della loro voglia inesauribile di divertirsi.
«Ah, pur troppo egli è vero: in questa vita per lo più o si pena, o si spera, e poche volte si gode». Clarice da Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni.
a cura di Elena Conti e Roberta Ferraresi