recensione questo buio feroce

Cosa resta di Questo buio feroce?

Recensione di Questo buio feroce – Compagnia Pippo Delbono
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Solitamente dopo uno spettacolo, uscendo da teatro, abbiamo quasi tutti una sensazione abbastanza definita di ciò che ci ha comunicato. Forse è un messaggio dai contorni sfocati, a volte informe e poco definibile a parole (soprattutto a chi, seduto accanto a noi, ci chiede commenti a caldo), ma percepiamo se ci è piaciuto o meno.

Quando, invece, rimaniamo insolitamente colpiti da ciò che abbiamo visto e ne riconosciamo l’innegabile fascino, ma allo stesso tempo non riusciamo a toglierci di dosso una sensazione di distacco e incredulità, forse incomprensione, allora non è possibile – o forse sensato – fare un bilancio di ciò che si è visto. E ammetto che, forse, il sentirsi combattuti, ma misteriosamente toccati da uno spettacolo, è probabilmente la sensazione tra le più auspicabili che il teatro può lasciarci dentro.

Pippo Delbono con Questo buio feroce parla di morte, dell’attesa consapevole di una morte inarrestabile. È la malattia a rendere diretto e inevitabile lo sguardo verso il buio. Ma la scena presentata, invece, è piena di una luce e di un vuoto accecanti, è uno spazio bianco dall’atmosfera fredda e asettica, una dimensione – curata da Claude Santerre – dalla quale vengono sprigionate visioni: di corpi, spettri, incubi. È la voce registrata di Delbono a spiegare che lo spettacolo nasce dalla lettura di un libro trovato per caso: Questo buio feroce, testo autobiografico di Harold Brodkey del 1996, nel quale l’autore americano, malato di Aids, descrive il suo consapevole avvicinarsi alla morte.

Non è una storia quella che viene presentata, ma quadri, che ci parlano di sofferenza e attesa, di diversità e solitudini (sia nei malati che vivono isolati e relegati, sia di chi vive nell’incomprensione); ma ci parlano anche di semplicità e grazia rare da incontrare e riconoscere. Emerge la diversità, la singolarità delle stranezze umane: un ragazzo down (Gianluca Ballaré), un piccolo microcefalo sordomuto – il noto Bobò – , uomini altissimi o molto piccoli, magrissimi o grassi, travestiti, corpi nudi o mutilati. C’è un susseguirsi ricco e costante di immagini costruite ad arte: corpi sofferenti, creature inquietanti, identità mostruose; un valzer di personaggi e atmosfere fuse ad una musica che cattura e incanta.

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Se i personaggi non cantano, si confessano al pubblico seduti su una poltrona che ricorda un confessionale, sempre utilizzando un microfono (che riporta ad una dimensione relazionale di esibizione mediatica), oppure rimangono silenziosi a lasciare che il proprio corpo, la propria identità e fisicità, comunichino senza bisogno di parole. Delbono lavora di contrasti, spiazzanti, aggressivi, che lasciano interdetti: come ad esempio un corpo misero e fragile, nudo e vulnerabile che sfodera una voce poderosa e calda cantando My way, con portamento da showman americano e accompagnato da un’elegante valletta che saluta ad ampi gesti e sorrisi il pubblico. Scene e corpi disperati sui quali ironizza. L’attore e regista punta all’emotività del pubblico. Arrivandoci. Teatro di qualità che affascina e turba, che non vuole forzatamente spiegarsi, lasciando al pubblico un ricordo suggestivo e misterioso.

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Pochi spettatori – evidentemente insofferenti – abbandonano precocemente la sala, ma l’intero pubblico volente o nolente rimane segnato, coinvolto. Molti si alzano in piedi nell’applaudire ed è un entusiasmo condiviso che dilaga nel ringraziare di cuore quell’insolita e bizzarra compagnia che tenendosi per mano si avvicina al proscenio a prendersi gli applausi. Ricordiamo, oltre allo stesso Delbono e i già citati Bobò e Ballarè, gli altri membri del cast: Dolly Albertin, Raffaela Banchelli, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Gustavo Giacosa, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Julia Morawietz, Gianni Parenti e Pepe Robledo.

È sorprendente notare che dopo le sofferenze esibite, le visionarie sfilate di personaggi ispirati ad una Venezia decadente, di umanità inquietanti e di spettri, ciò che rimane impresso nella memoria è un sorriso, dolce e innocente, che si affaccia da una quinta in costume da Arlecchino.

Visto al Teatro Toniolo, Mestre.

Agnese Bellato