Recensione a Soprattutto l’anguria – di Armando Pirozzi, regia Massimiliano Civica
Uno non proferisce parola, l’altro si perde in chiacchiere. Uno ha un’espressione seria, quasi grave, l’altro sempre un accenno di sorriso imbarazzato. Uno rifugge il contatto, l’altro tenta timidi approcci affettivi. Uno irrompe nella vita dell’altro per uscire dov’era entrato, per non cambiare niente, per rimescolare tutto. È la relazione tra due fratelli quella messa in scena da Massimiliano Civica sul palco dell’Argentina nell’ambito del Romaeuropa Festival. Uno spettacolo – in prima nazionale – visivamente composto, esteticamente essenziale, che trova nel testo scritto da Armando Pirozzi forza immaginifica e potenza drammaturgica.
L’insolita descrizione di un divano a forma di seno, che apre la pièce, ci trasporta subito in un universo surreale, fatto di igloo e deserti, “trance metapsichiche” e giungle sconfinate. Un mondo che non vediamo, che non è ricostruito scenograficamente, ma soltanto evocato. Un mondo che l’inconscio del fratello parlante (Luca Zacchini) ha vestito di colori, suoni, profumi, per nascondere strappi familiari, sconfitte adolescenziali, verità dolorose e memorie difficili da riesumare. Mentre il fratello muto, interpretato da Diego Sepe, pigiama, ciabatte, libro fra le mani e whisky nel bicchiere, si lascia trascinare malvolentieri nei ricordi, palesando un disagio, il maggiore lo conduce in un viaggio a ritroso, necessario, urgente, perché «le cose a cui non vuoi pensare le hai sempre davanti agli occhi».
Quella che appare una famiglia sopra le righe, dispersa ai quattro angoli del pianeta, in cerca di estasi, vocazioni, pace, solitudine, si rivela un nucleo distrutto, disgregato, per errori che a fatica vengono ammessi, sbagli che sono volutamente taciuti. Autore e regista, quest’ultimo nella veste di “guardiano di una relazione” che si nutre di parole e silenzi, non svelano la verità, lasciano allo spettatore un margine di manovra. Indeciso se fermarsi alla superficie, e credere a un padre caduto in trance sotto un albero in India (e rimpatriato dentro un frigorifero), o percorrere un cammino più intimo e toccante, che implica una terribile colpa.
Ma niente è come sembra nel nuovo spettacolo di Civica, che dopo Shakespeare e Becque, si confronta con una drammaturgia contemporanea. Rispettando lo sguardo di Pirozzi, che “scompare dietro i suoi personaggi”, il regista reatino non prende una posizione, non patteggia per un fratello e condanna l’altro, non sceglie un vincitore o un vinto. Racconta solo una storia, che cambia al cambiare dei punti di vista. Come la lampada rossa, quella che non viene mai accesa, che assolve a diverse funzioni – ma non a quella per cui è stata realizzata – divenendo prima volante di un’auto e poi albero, al quale sostenersi o sotto il quale morire.
Visto al Teatro Argentina nell’ambito di Romaeuropa Festival
Rossella Porcheddu