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Nutrire e creare relazioni: la vocazione di un festival

Che cosa è un festival? Una vetrina per spettacoli? O piuttosto un’occasione per creare relazioni? E, più in generale, fare teatro equivale a produrre spettacoli? O piuttosto ad attivare reti, e a contaminare territori? Sono alcune delle domande che Roberto Bacci si pone nel ripercorrere le tappe del proprio percorso curatoriale, dalla prima direzione artistica a Santarcangelo all’ultima di Fabbrica Europa, passando per Volterra e Pontedera, dal 1978 al 2014. Un presente che vede connessa la figura di Bacci tanto alla Fondazione Pontedera Teatro quanto a Fabbrica Europa, legate da una collaborazione di lunga data e dalla nascita, nel 2003, del nuovo soggetto giuridico, la Fondazione Fabbrica Europa per le Arti Contemporanee (che vede anche la partecipazione dell’Associazione Music Pool e il sostegno di Regione Toscana, Provincia di Firenze e Comune di Firenze). La riflessione, e il racconto di Bacci partono, dunque, da lontano…

«Ho sempre cercato di fuggire con tutte le forze dal festival formato rassegna, sin dal primo festival che ho diretto, a Santarcangelo. Lì, nel 1978, ho inventato un grande spettacolo sulla messinscena di una città, con temi che si alternavano ogni sera; negli anni successivi ho portato il festival nei paesi intorno, e l’ho ‘rovesciato’, facendolo partire con la chiusura e finire con il debutto. Era il teatro nella città, e la città dentro il teatro. Quei primi anni, per me, sono stati un personale tentativo – devo ammetterlo – di nutrirmi, di capire cosa potesse essere l’esperienza teatrale denominata festival».

Un ritratto di Roberto Bacci

Un ritratto di Roberto Bacci

E qual è la conclusione?
«È un tema che ho sempre portato avanti, quello della ricerca su che cosa sia un festival. Otto edizioni di Santarcangelo, dieci di Volterra Teatro e i progetti di Pontedera, anche l’ultimo, L’Era delle cadute, e, più recenti, i due anni a Lari, per me sono stati ossigenanti. Certo Santarcangelo è molto diverso da Fabbrica Europa. Fabbrica ha da una parte Firenze, con i pro e con i contro, i costi di una città, che non sono i costi artigianali di Santarcangelo, o Lari, o Pontedera stessa; e dall’altra la possibilità di invitare a Firenze eccellenze e di coltivare i rapporti internazionali, Anatolij Vassiliev, Jan Fabre, l’Odin Teatret. Trovo interessante questo, ciò che trovo meno interessante e dispendioso è fare tre o quattro spettacoli necessari ad avere l’attenzione, del pubblico e della stampa. Il teatro regala possibilità attraverso le persone. È fondamentale continuare a nutrire le relazioni, umane e artistiche».

Quest’anno ne sono nate di nuove?
«Sì, la collaborazione con Tomi Janežič, che al festival ha portato in scena Il Gabbiano, e che a Pontedera farà una produzione con attori italiani. Mi interessano i rapporti personali, come quelli che ho coltivato, negli anni, con Eugenio Barba, con Peter Brook, o con Jan Fabre, anche per motivi extra-teatrali. Questo è essenziale per me: ciò che il teatro può essere al di là dello spettacolo. Spettacoli e teatro non corrispondono: si possono fare tanti spettacoli senza fare teatro».

Prima parlava di differenze fra diversi luoghi, come Lari, Pontedera, Volterra. Firenze non lo è? Non c’è un vero dialogo tra la città e il festival?
«La domanda è: perché Pontedera è nata a Pontedera? Semplice, perché non è Firenze, perché non è Milano, perché non è Roma. Perché è possibile costruire un isolamento, un nutrimento che in una città non hai. In quei luoghi le persone si incontrano automaticamente, a Firenze no, bisogna rivolgersi agli operatori, a un pubblico teatralizzato… lo capisco ma non mi basta. Firenze è una città che divora se stessa, una macchina che deve produrre – turismo, cultura, consenso. Il luogo di Fabbrica Europa non è Firenze, è la Stazione Leopolda».

In Italia, c’è, in questo momento una rifioritura della cultura di gruppo. Com’è cambiata negli anni?
«Faccio solo un esempio. Molti anni fa abbiamo organizzato una sorta di “università viaggiante” del teatro, in cui si tenevano lezioni e conferenze, si organizzavano seminari e si proiettavano film, insieme ai più grandi studiosi di teatro. C’era un rapporto organico con gli intellettuali, con la storia del teatro – Ferdinando Taviani, Claudio Meldolesi, Fabrizio Cruciani, Franco Ruffini. Qualcosa che oggi manca».

Non c’è, oggi, un’attenzione comune nel costruire la propria storia, nell’interrogare la propria geneaologia?
«No, credo che non ci sia la coscienza della propria storia. Maggiori abilità linguistiche portano a dare attenzione alla forma e alimentano tentativi di differenziarsi attraverso i linguaggi; spesso sono tentativi che mancano, però, di una consapevolezza interiore. Ho l’impressione che tante forme teatrali non parlino, non dialoghino con se stesse, non si pongano interrogativi. La domanda fondamentale non è “come lo faccio?”, ma “perché lo faccio?”; e questo interrogativo non lo trovo spesso dentro il teatro. Perché le domande più importanti con le quali interrogare il teatro nascono fuori da esso, come le grandi rivoluzioni».

E allora dove nascono le domande del teatro?
«Sono le domande sulla conoscenza di sé, ovvero: chi sono? perché ci sono? qual è il mio funzionamento? come mi pongo nei confronti del termine ultimo? È il teatro che mi obbliga a pormi certe domande. Già trent’anni fa avevo diretto Il giardino dei ciliegi di Cechov, e l’ho rifatto quest’anno, in Romania, in un teatro da mille posti che si riempie tutte le sere, con venti tecnici, musicisti, dodici attori meravigliosi; ho lavorato proiettando le mie domande su un testo come quello, e ho scoperto che tutti quei personaggi mi appartengono. Io sono tutti quei personaggi, anche minori, come Epichodov, il contabile, che vive passando di disgrazia in disgrazia senza battere ciglio. Io sono Epichodov? Assolutamente sì, perché ogni giorno ci sono disgrazie in cui inciampo. Sono Lopachin? Assolutamente sì, perché, se non fossi Lopachin, Pontedera non ci sarebbe. Sono Ljuba Andreevna? Sono totalmente Ljuba Andreevna».

Il teatro è uno strumento che dà l’opportunità fisica, biologica, di riflettere costantemente sulle relazioni umane. cosa significa fare un viaggio attraverso lo spettacolo?
«Attraverso il teatro inciampo in cose che mi tengono sveglio. È un ostacolo permanente, se lo sai usare. Dumas diceva “se potessi inventare la penna che ogni volta che scrivi si rompe e ti macchia di inchiostro per ricordarti che stai scrivendo”. Per me il teatro è la penna che si rompe e ti sporca. Chi scrive? Cosa scrive? E perché?»

Intervista a cura di
Roberta Ferraresi e Rossella Porcheddu