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Lo stato interiore di Short Theatre 12

La dodicesima tappa di Short Theatre, che ha abitato gli spazi della Pelanda di Roma dal 7 al 17 settembre 2017, ha sollecitato Lo stato interiore delle cose. La duplice accezione politica ed emotiva della parola stato lega la condizione del singolo (come sto?) alla sua continua tendenza alla vita associata (stato giuridico, sociale, democratico…) in un doppio movimento del sé verso l’interno e verso l’esterno, in cui lo stare personale è in necessaria relazione con l’altro. Un discorso – quello di presentazione del direttore artistico Fabrizio Arcuri – che si propone di «provocare l’immaginario sulla costruzione di collettività inedite», prendendo come innesco «la nostra condizione individuale». A stimolare l’attenzione sul tema delle micro-comunità concorrono anche le diverse drammaturgie partecipative in cartellone che indagano nuove forme di collaborazione e condivisione, puntando i riflettori su chi è solito essere fuori dalla scena. Chiamato ad agire, coinvolto in prima persona, il pubblico si espone; e ci lascia la possibilità di dipanarne la composizione. Chi è questo altro?

La grande presenza di “addetti ai lavori” tra gli attori volontari di Guerrilla del gruppo (info) o la facilità con cui gli spettatori armati di chitarra di Anarchy (info) intervengono nella narrazione, scoprono spesso un’adesione da parte di artisti, maestranze e operatori. Ma come avrebbe reagito un osservatore non già allenato al linguaggio teatrale?

Se da un lato la possibilità di riconoscersi, ritrovarsi e fare rete è spesso innesco di scambi e contaminazioni creative – come dimostra la grande presenza di collaborazioni artistiche al festival – dall’altro è una pratica che rischia di modellare assetti poco estensivi, e lascia una doppia domanda: quanto spesso riusciamo a coinvolgere chi non ancora conosce? Ma anche:cosa contraddistingue il nostro essere comunità nel teatro (romano) oggi?

Con lo sguardo oltre il singolo spettacolo, nel tentativo di restituire Short Theatre nel suo insieme, nella relazione con il contesto, negli attraversamenti, negli incontri, nel lavoro, nel piacere, nell’eterogeneità, nelle scoperte, nella musica in sottofondo, nella presenza di altre lingue… abbiamo intervistato chi ha realizzato e collaborato al festival, coinvolgendolo in una riflessione sulla mancanza. Lavorando con i ritratti abbiamo inseguito la riconoscibilità di volti e parole, domandando di ciò che è vivo e tangibile – anche se assente – abbiamo cercato analogie e dissonanze che evidenziassero le striature e i bisogni. Perché comunità vuol dire anche potenzialità di problematizzare e interrogare. La risultante finale sono degli annunci di scomparsa (missing), una testimonianza ambivalente dove chi parla della propria relazione con l’esterno è contemporaneamente mancante perché parte di un microuniverso che per undici giorni ha fatto quasi mondo a sé. Per cui: cosa manca? What’s missing?