Sono le passioni, le forze, l’agire umano, è la “narrazione metaforica della vita” in The Goldlandbergs a inaugurare l’edizione 2013 del Romaeuropa Festival. Una prima nazionale per Emanuel Gat, che il 25 e il 26 settembre porta sul palco dell’Auditorium Conciliazione un intreccio di musiche, suoni, movimenti, un “poema sonoro” che attinge a The quiet in the land di Glenn Gould. Lirismo e arcaicità nel nuovo lavoro di Sasha Waltz, Continu, la danza stilizzata e simbolica di Rachid Ouramdane e la sua poetica della testimonianza in Sfumato. L’incontro tra Antonio Latella, Le benevole di Jonathan Littell e gli attori dello Schauspielhaus di Vienna in Die Wohlgesinnten e lo sguardo di Thomas Ostermeier sulla cattiva di Ibsen, Hedda Gabler. Il debutto italiano di The Four Seasons Restaurant della Socìetas Raffaello Sanzio, il ritorno sulle scene di The power of theatrical madness, leggendaria creazione di Jan Fabre, datata 1984. E ancora l’indagine sul tempo e la sopravvivenza di Alessandro Sciarroni, con i giocolieri di Untitled_I will be there when you die, secondo capitolo di Will you still love me Tomorrow, la riflessione sul corpo e il viaggio italiano – dal Rinascimento a oggi – di Marcos Morau e de La Veronal in Siena, il tracciato della memoria, il recinto di neon, le movenze morbide di re e regine senza scettro nel lavoro di Marco D’Agostin, Per non svegliare i draghi addormentati. La crisi greca con le quattro pensionate di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di Deflorian\Tagliarini, Piazza Tahrir nei frammenti visivi, sonori, emotivi dei Muta Imago con Pictures from Gihan. E poi i live concert e live set di Sensoralia, gli universi sonori della sperimentazione con Viva!, i paesaggi e le atmosfere liquide della quarta edizione di Digital Life. Per un’eterogeneità di proposte. Per artisti internazionali che invadono teatri e musei. Per un’arte che resiste, come ci racconta il Direttore della Fondazione Fabrizio Grifasi.
«Romaeuropa riafferma una vitalità della creazione che non è sconnessa dal momento che stiamo attraversando e un’opportunità che le pratiche artistiche possono darci in termini di chiavi di interpretazione, in termini di rapporti sensibili all’interno di un contesto che è quello del contemporaneo. Tutti noi, operatori, artisti, cittadini, siamo bombardati dalle difficoltà nell’agire quotidiano, e abbiamo la percezione che i rapporti siano diventati più complessi, tutto è più lento, non solo nelle vite professionali, ma anche nel sistema delle interrelazioni, dove si è installato un meccanismo di ansia e di incertezza rispetto al futuro. L’arte è parte del momento che stiamo attraversando».
Essere nel presente significa non dimenticare il passato. Guardare avanti coscienti di ciò che è stato. Alcuni spettacoli del festival osservano i trami, le fratture, le innovazioni del Novecento.
«È una riflessione fatta con il team di Romaeuropa a gennaio, quando ho presentato il draft – piuttosto avanzato – della nuova edizione. Molte osservazioni, in quell’occasione, hanno sottolineato questo elemento: per riuscire a capire il presente abbiamo bisogno di guardare al nostro passato più prossimo. Ci serve metabolizzare gli ultimi cento anni. Questo è pregnante anche per le tematiche e le estetiche che caratterizzano la ricerca artistica. Le pratiche performative, le pratiche legate al teatro e quelle legate al teatro musicale – quest’anno molto presente -, la stessa danza, sono in continua negoziazione con la storia recente. Il rapporto con il futuro, invece, è connesso alle nuove tecnologie, a una certa visionarietà. Alla sua quarta edizione, Digital Life rappresenta per noi il presente che si proietta nel futuro. Mi interessa molto che un festival come Romaeruopa, lasciando agli artisti la concatenazione di una struttura teorica, ponga questi interrogativi: come pensiamo il futuro? Abbiamo paura di pensare il futuro? Abbiamo bisogno di digerire e metabolizzare il nostro passato più recente? È in questo fragile equilibrio che emergono le problematiche del presente. Abbiamo scelto di portare Jan Fabre con due spettacoli storici – com’è stato lo scorso anno con Bill T. Jones e tre anni fa con Trisha Brown -, una scelta che ha a che vedere con la necessità di acquisire spettatori giovani che non hanno mai visto creazioni di questo tipo. C’è un ringiovanimento del pubblico di cui siamo molto felici, nuovi spettatori che portano nuove tipologie di sguardo e nuove richieste».
A questo proposito, Monique Veaute in un’intervista di qualche mese fa a InsideArt ha parlato di una differenza tra il pubblico della danza e quello del teatro di ricerca.
«Abbiamo una radice storica di danza e di musica contemporanea, quindi ci portiamo appresso un background molto forte in questi ambiti. Credo che lo scarto di cui parla Monique esista ma in questo momento sia meno evidente. Diamo al pubblico l’opportunità di percorrere e incontrare artisti di generi e con pratiche differenti, pratiche che risentono già dell’ibridazione delle discipline. Semmai il gap che mi sento di notare, e che riguarda anche gli operatori del settore, è nel rapporto con le arti visive. Stiamo facendo da quattro anni un lavoro in questo settore, e in particolare ragionando sul rapporto con le nuove tecnologie, che per noi rappresenta una nuova frontiera. Ma come traghettare il pubblico e gli operatori, insisto, che a volte sono molto legati allo spettacolo dal vivo? Faccio un esempio: abbiamo seguito per molti anni i Santasangre, e a loro abbiamo fatto una commissione per Digital Life; credo che una percentuale minima degli operatori che hanno seguito con costanza questa compagnia sia andata a vedere l’installazione. Trovo questo elemento interessante, trovo che sia un limite, dobbiamo renderci conto che i terreni e i territori sono molto porosi pur considerando le singole specificità e quindi gli strumenti di analisi, la visione più larga non può che essere coerente con un tentativo di interpretazione».
Vitale per Romaeuropa resta la multidisciplinarietà?
«Essenziale. Sono gli artisti stessi che ci conducono verso forme molto diverse. Faccio l’esempio dei Santasangre perché è un gruppo che è nato in questi anni e si è connotato con un’identità molto precisa. Sono stato molto felice dell’invito fatto loro dalla Sagra Malatestiana e della proposta di lavorare su Harawi, che non ha nulla a che vedere con le pratiche musicali che i Santasangre hanno sviluppato, e sono molto curioso di vedere la reazione del pubblico dei Santasangre di fronte a questo progetto. Seguire gli artisti significa accompagnare il pubblico ma anche chiedere agli operatori e alla critica una maggiore duttilità nel comprendere questi slittamenti. Le pratiche teatrali, anche quelle più di rottura se hanno bisogno di momenti di comunitarismo per trovare un’identità, non possono non confrontarsi con un universo della creazione artistica che è più ampio, che è vitale, che è nutriente. Spostarsi su altri territori ci fa bene, ne abbiamo bisogno, perché la realtà ha una complessità che non riusciamo a cogliere. Il festival vuole raccontare questo, nella diversità e nell’integrazione».
Grandi artisti internazionali, giovani danzautori, estetiche differenti e spazi molto diversi fra loro. Per un festival che restituisce la molteplicità del contemporaneo.
«Non abbiamo mai voluto essere monoestetici, abbiamo voluto creare uno spettro generale, ma per noi è necessario mettere insieme traiettorie diverse. Romaeuropa è un festival della città di Roma, che riflette sulle questioni urbane di una grande città e cerca di collaborare con tutti quegli spazi dove è possibile tessere dei rapporti, considerando sempre i progetti degli artisti. Mettiamo in vendita 35mila posti, ai quali aggiungiamo gli ingressi alle mostre, e vogliamo dare l’opportunità di seguire tempi diversi. Articolarsi è essenziale. Com’è importante accompagnare artisti, pubblico e operatori, vogliamo anche accompagnare la dilatazione del tempo e degli spazi».
Intervista a cura di Rossella Porcheddu