spettacolo arsenale danza

Un tempo per respirare

Recensione a OxygenArsenale della Danza

Foto di Alvise Nicoletti

Il respiro: forse l’elemento più caro alla danza. Su questa valutazione si apre il 7. Festival Internazionale di Danza Contemporanea: Oxygen, elaborato dal Direttore Ismael Ivo assieme ai venti giovani allievi dell’Arsenale della Danza, è un gioco di respiro fisico, di relazioni nello spazio (biologico prima ancora che geometrico).

La diversa ossigenazione di un corpo lo rende di volta in volta danzatore, attore, atleta. È una clorofilla che attiva l’efficienza fisica e la controlla, allineando il ritmo interno dell’organismo al tempo esterno imposto dal coreografo. Così come il cantante, anche il danzatore solfeggia.

La frequenza e la profondità del respiro contribuiscono all’aumento o alla diminuzione nel ritmo di esecuzione di una sequenza, e in quanto tali sono un linguaggio utilizzato dai danzatori quando, non aiutati dalla musica, devono costruire un ensemble perfettamente sincronico. Si ascolta il respiro di chi è davanti a noi e si respira con lui, è l’unico modo per prevedere il ritmo dei suoi movimenti.

Ma non è solo un mezzo di uniformazione dinamica: il respiro genera il pianto, il riso, e tutte le emozioni che si affacciano al corpo. Con le parole di Ismael Ivo, «L’ossigeno è connesso alla percezione del nostro corpo. Provoca un contatto tutto interiore, che scatena sentimenti e sensazioni». Applicare il concetto alla danza al punto da imbastirvi uno spettacolo è rischioso ma necessario, perché le teorie vanno messe in pratica per coglierne i punti di forza e i lati più fragili.

Foto di Alvise Nicoletti

Oxygen è il risultato di uno studio intensivo compiuto dai danzatori dell’Arsenale della Danza insieme a Ismael Ivo, e si presenta con una struttura apparentemente vigorosa ma effettivamente passibile di qualche ingenuità. Azzerate trame o connessioni narrative, lo spettacolo gioca su un’astrazione fatta di spazi vuoti e costumi bianchi. Interessante il trucco, un alone bianco attorno agli occhi che appiattisce sorprendentemente i tratti somatici e rende i volti assonnati e vellutati, con un tocco di inquietudine.

Seducente il prologo, impersonato dalla danzatrice indiana Hema Sundari Vellaluru. Davanti all’ingresso del teatro, accompagnata da colpi di percussioni ma soprattutto da un delicato silenzio, elabora un inserto a coda di rondine tra sequenze meditative, un lento contact con il suolo e frammenti di bharata natyam. È una sorta di gong che raduna gli spettatori: quando la danzatrice lascia il suo posto e sguscia dentro l’ingresso principale, il pubblico può finalmente entrare.

Lo spettacolo è sicuramente lungo, forse un po’ troppo, e in alcuni punti affiora una certa debolezza nella perdita momentanea del focus concettuale e nella ripetitività delle sequenze, oltre al candore naïf di qualche particolare, come un cielo proiettato sul pavimento con le nuvole che vi scorrono sopra. Ma è tenace l’energia dei danzatori, allettante il loro radicamento nello spazio, e la freschezza dell’esecuzione fa vacillare qualche pecca nell’impostazione coreografica. Interessante la collaborazione con l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Maffeo Scarpis, che ha eseguito dal vivo musiche di Arvo Pärt e John Adams.

Resta la sensazione di una sperimentazione stimolante, condotta con serietà e professionalità nel metodo, ma a tratti un po’ sfocata e leggermente scucita dal suo contesto.

Visto al Teatro alle Tese, Venezia

Agnese Cesari