«Tahrir è la piazza delle persone» recita uno dei tweet proiettati sugli schermi. Frammento di una drammaturgia virtuale che partendo dal web ricostruisce un percorso individuale in uno scenario globale. Non è uno spettacolo politico, non intende schierarsi dalla parte dei manifestanti, né inneggiare alla rivoluzione. Multimediale, attuale, in dialogo tecnologico e tematico con l’oggi, Pictures from Gihan, ultimo lavoro dei Muta Imago presentato al Teatro Biblioteca Quarticciolo in conclusione di Romaeuropa Festival 2013 − che coproduce il progetto − punta l’obiettivo sull’uomo. Seguendo le tracce di una blogger egiziana che da piazza Tahrir posta e twitta immagini e parole, la compagnia romana restituisce − fisicamente, rumoristicamente, visivamente − uno sguardo personale sulla Primavera Araba, ponendosi e ponendo interrogativi sul nostro tempo. «Come guardare il reale e rielaborarlo artisticamente?» si chiedono Claudia Sorace e Riccardo Fazi, in questo come in precedenti lavori. Domanda chiave anche del laboratorio L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro, curato insieme a Veronica Cruciani, direttrice artistica del Teatro Biblioteca Quarticciolo (dove si svolge) e Michele Di Stefano di Mk, e in partenza, con un primo movimento, dal 20 al 22 dicembre. In occasione della replica di In Tahrir, visto lo scorso novembre all’Argentina nell’ambito del progetto Wake Up!, e riproposto il 15 dicembre al Nuovo Cinema Palazzo di Roma per il Festival 24fotogrammi, Claudia Sorace ci racconta il percorso intrapreso dalla compagnia nell’ultimo anno e mezzo, percorso che parte dal cantiere di Perdutamente e guarda all’Egitto.
«Sia In Tahrir, occasione grazie alla quale ci siamo avvicinati a questa materia, che i due progetti esterni al teatro, Una settimana nella vita, fatto a Mondaino, e Art you lost?, realizzato all’India e a Santarcangelo, ci hanno portato a Pictures from Gihan. In Tahrir è il racconto della giornata più importante della rivoluzione egiziana, quella del 2 febbraio 2011, costruito utilizzando tutti i tweet postati allora dai giovani rivoluzionari e che il web ancora conservava. Nel raccontare gli eventi di quella giornata, l’occupazione della piazza, l’intervento violento delle forze dell’ordine, la resistenza delle persone, ci siamo trovati per la prima volta di fronte alla questione più importante: dove siamo noi rispetto a tutto questo? La risposta in In Tahrir passa per l’immedesimazione, fisica e sonora: i due performer in scena restituiscono il racconto in prima persona di un ragazzo e una ragazza che cercano di incontrarsi a piazza Tahrir. La componente di fiction e il punto di vista esperienziale sono quindi preponderanti rispetto alla riflessione sul tema. La performance è realizzata come un radiodramma, l’audio è preso da internet e ricostruito dal vivo. Nel finale ci sono solo il buio e la piazza, significa che non eravamo lì, non sappiamo cosa è stato, ma questa è l’idea che ci siamo fatti del 2 febbraio».
Questo vale anche per Pictures from Gihan?
«Qui entriamo anche noi (io e Riccardo, con le nostre vite) nel quadro e riflettiamo su questioni di più ampio respiro, più vicine a noi. Pictures non è un lavoro documentaristico, non è uno spettacolo sulla rivoluzione egiziana: non esci dal teatro sapendone di più su quei fatti. Ci interessa capire quali possono essere le ragioni, i desideri e il presente di chi ha fatto una scelta così forte. Noi viviamo le nostre geografie in maniera nomade, ma c’è qualcuno che sceglie di essere davvero presente ai suoi luoghi, al suo territorio».
C’è il riferimento a un maggiore immobilismo occidentale? E a una nostra difficoltà di scendere in piazza?
«Lo spettacolo racconta il nostro avvicinamento a Gihan, le domande che faccio in scena sono le stesse che vorrei fare a lei. E preparandomi a questo percorso ho capito che prima di tutto sono io a dover rispondere. C’è, probabilmente, la sensazione di vivere in un mondo frenato. Che cosa dovrebbero togliere a noi per farci arrivare a tanto? Agli occupanti di piazza Tahrir è stato tolto qualcosa di talmente grande da spingerli a scendere in piazza, a rischiare la vita per riappropriarsi di quello che ritenevano essere loro. Non siamo pronti per la rivoluzione forse perché ancora non abbiamo risposto a quelle domande interiori, domande che la Primavera Araba, vissuta in lontananza dalla nostra generazione, ci ha sbattuto in faccia. Come vorresti che fosse il tuo paese tra vent’anni? In cosa speri davvero? Che forma avrebbe una tua rivoluzione personale? Sono i nostri coetanei egiziani, e la loro rivoluzione ci ha fatto sentire impotenti».
Osserviamo e non agiamo. L’immagine dei due personaggi che stanno davanti al pc, e dietro di loro il grande schermo con la piazza è rappresentativa.
«Siamo spettatori che hanno poche occasioni di mettersi in un percorso di conoscenza più vero e autentico. Veniamo attraversati da immagini, da novità continue, da informazioni che non mettiamo mai davvero in collegamento con noi stessi e tra di loro. Il percorso conoscitivo passa sempre per qualcosa che resta esteriore. Non è una questione solamente di consapevolezza, ma di immaginazione. Devo imparare a entrare sempre di più in una modalità di relazione che sia personale ed empatica con quello che mi arriva da lontano. Devo immaginare che quegli elicotteri passino anche davanti alla finestra di casa mia».
Il pubblico comprende questo punto di osservazione?
«Non è uno spettacolo enfatico, drammatico in senso stretto. Non c’è niente di eroico, Gihan non è una Giovanna d’Arco che salva il suo paese. Lei non ha risposte per noi. C’è chi vorrebbe più pathos, chi invece apprezza la modalità utilizzata perché racconta un’incapacità di essere attivi. Chiediamo al nostro pubblico di fare un percorso insieme a noi, di mettersi al nostro fianco, restando lucidi ma coinvolti».
L’essenzialità del tweet riprende un vostro modo di portare le parole sul palco, poche, immediate.
«Sì, sono stati il nostro copione. È un linguaggio interessante, ipersintetico, è una parola-azione priva di commento».
Nel 2009 durante un incontro a Jesi, a uno spettatore che chiedeva una descrizione del teatro dei Muta Imago, hai risposto «Immagini di guardare fuori da una finestra, dove può vedere solamente immagini senza riuscire a sentire il sonoro intorno». Vale ancora oggi?
«In questa fase per me è interessante uno sguardo che osserva il reale, in un tempo lungo, e che ha sempre per oggetto l’essere umano. In questo sta la particolarità e la bellezza del teatro, nella possibilità di mettere al centro l’uomo. Forse ciò che ci interessa maggiormente rispetto al 2009, sono i particolari, guardare più da vicino, con un cannocchiale o un microscopio, abbattere le distanze».
Guardare l’oggi ma anche preservare la memoria, quella storica e quella virtuale.
«Memoria è una parola densa di significati, come identità. Il nostro viaggio nella memoria è una ricerca d’identità. Con (a+b)3 è un punto di vista mitico, con Lev storico, con Madeleine onirico. C’è sempre una ricerca di astrazione. L’oggetto che resta, il tweet, la foto postata, l’oggetto di Art you lost? creano un immaginario meno astratto ma più contestualizzato».
Parole che restano in Pictures from Gihan, oggetti che restano in Art you lost? e Una settimana nella vita.
«Sì, Art you lost? è un’installazione creata da persone che vanno e vengono lasciando parti di sé. Dopo Perdutamente all’India, a Santarcangelo 2013 c’è stata la raccolta e a Santarcangelo 2014 sarà presentata l’opera. Una settimana nella vita, fatto a Mondaino, è stato un laboratorio. Abbiamo chiamato dodici artisti e li abbiamo fatti adottare da dodici abitanti del luogo. La convivenza ha portato alla realizzazione di un ritratto. Un laboratorio sullo sguardo che ha messo gli artisti davanti a un oggetto di lavoro animato, vivo, e che ha creato delle forti relazioni con gli abitanti. Un rapporto di vicinanza totale e di estrema fragilità, un mettersi a nudo vicendevolmente. E l’esposizione finale è stata quasi una ricostruzione del villaggio, un piccolo specchio di Mondaino».
Muta Imago si sposta dall’Italia alla Romania, e da Roma a Bruxelles. Più che un trasferimento oltralpe è un contaminarsi, vedere, conoscere altro?
«Sì, continuiamo e vogliamo continuare a lavorare in Italia, e a Bruxelles stiamo muovendo i primi passi. Ma direi che lo spostamento in Belgio è legato alla questione del vedere, stare in un un luogo circondato da stimoli, in un contesto sempre innestato di nuova linfa».
Intervista a cura di Rossella Porcheddu