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Lavorare sul rischio culturale: la sfida del Teatro di Sardegna

Quella del Teatro di Sardegna è una storia atipica. Nata negli anni ’60 a Cagliari dall’esperienza del Centro Teatrale Universitario, la compagnia si costituisce come cooperativa nel 1973 e nel 1980 dà vita, in collaborazione con l’ETI e con gli enti locali, al Circuito Teatrale Regionale Sardo.
Nel 2004 arriva il riconoscimento come Teatro Stabile e nel 2009 la gestione del Teatro Massimo, restituito alla città dopo ventisette anni di chiusura. Oggi, con il riconoscimento come Teatro di Rilevante Interesse Culturale, e con la nomina di Massimo Mancini a Direttore Generale, il Teatro di Sardegna si avvia a una nuova fase, assumendo il nome di Sardegna Teatro. Fase che prevede un importante percorso di rinnovamento, già in essere, la creazione di una rete, ovvero il confluire artistico di realtà isolane, prima fra tutte Is Mascareddas, e la gestione del Teatro Massimo di Cagliari e dello spazio MoMoti di Monserrato – sede della compagnia Is Mascareddas – che diviene centro produttivo e di residenza.
Nove le direttrici sulle quali si muove il progetto, da Language Factory, che prevede una “residenza d’autore”, a Giovani idee, che mette in moto una rete di realtà culturali per il sostegno degli emergenti sardi, dal dialogo tra territorio e comunità promosso da Paesaggio, agli eventi per il centenario della Grande Guerra, racchiusi sotto il titolo di Cento, dal teatro che incide sulla realtà, Atto politico, a quello per i più giovani, Il grande teatro dei piccoli, per arrivare al Festival di filosofia, in programma dal 15 al 17 maggio, e a Mediterraneo, eventi di affiancamento al festival. Un progetto che mostra una necessaria spinta innovatrice e una forte aderenza alla città, come ci racconta con entusiasmo Massimo Mancini:

Massimo Mancini - foto di Alessandro Cani

Massimo Mancini – foto di Alessandro Cani

«Nel presentare il progetto per il TRIC ci siamo domandati cos’è Cagliari oggi, qual è la sua dimensione geografica, quale il rapporto con la contemporaneità. E cosa significa diventare Teatro di Rilevante Interesse Culturale per una struttura che ha una storia diversa da tutte le altre. Il riconoscimento da parte del Mibact è soprattutto un riconoscimento al territorio. È un progetto che vuole rispondere alle domande imposte dai cambiamenti. La sfida è colta in maniera idealista, si sta lavorando sul rischio culturale».

Una sfida che, a guardare il cartellone 2015/16 chiama in causa innanzitutto la programmazione: Romeo Castellucci, Emma Dante, Motus, nomi che in Sardegna non si vedevano da tempo.
«Vengo dalla candidatura di Cagliari come Capitale Europea della Cultura, quindi ho pensato a una stagione per una capitale europea. È necessario recuperare un po’ di gap, portare quel teatro contemporaneo che manca da anni. Ma ciò che ci interessa non è solo la presenza di spettacolo, è anche l’incontro con il territorio. Gli artisti che verranno staranno per un tempo lungo, si confronteranno con la città».

Una città, e un’isola, al centro di un disegno che coinvolge diverse realtà.
«La casa del Teatro di Sardegna si allarga alla complessità degli sguardi e ad alcune realtà importanti, che ho incontrato sia nel mio percorso di teatrante che nel percorso di Cagliari2019. Parliamo, ad esempio, di Is Mascareddas, compagnia che tiene alto il nome della tradizione del teatro di figura, con vere e proprie sculture animate, che ricalcano incontri fatti nel mio percorso, da William Kendridge e Handspring Puppet Company al Bread & Puppet di Peter Schumann. La collaborazione con Is Mascareddas, inoltre, permette di fare un lavoro sulla periferia, perché lo spazio MoMoti sta a Monserrato, zona che ha una sua autonomia, ma anche zona dormitorio. Dunque si lavora sul tema dell’area metropolitana, su cosa significa essere un teatro di cintura. Inoltre c’è una coproduzione, che è la sintesi del percorso produttivo di quest’anno, ovvero Cento, con la regia dell’austriaca Karin Korrell, le figure animate di Is Mascareddas su testo commissionato a Michela Murgia».

Michela Murgia che è il primo scrittore residente di Language Factory?
«Sì, ci siamo immaginati una sorta di residenza d’artista, non con un regista, come spesso accade, ma per uno scrittore. La Murgia inaugura, e poi ci sarà un passaggio di testimone, sarà lei a scegliere il successivo scrittore residente, quello per la prossima stagione. Per Cento (in cartellone a dicembre, ndr) le è stato chiesto di scrivere solo un canovaccio; a giugno ci sarà il primo incontro con la regia, e lei seguirà tutte le fasi del lavoro, confrontandosi con una scrittura scenica».

Per quanto riguarda gli emergenti? Quali sono le Giovani idee?
«In questo territorio c’è bisogno di un ricambio generazionale, che non si fa dall’oggi al domani. E ho elaborato un progetto che vada in questo senso. Non mi interessava chiamare un regista e fare una compagnia di giovani, non vengo da quel modello. Vengo da quel teatro che crede nell’autorialità, che non distingue più cos’è autore e cos’è attore. Quindi, facendo un mix tra i vari modelli nordamericani, sudcoreani, sudamericani, ho costruito una ‘finestra’ che si chiama “Pitch contest”. Gli artisti hanno a disposizione quindici minuti per fare ciò che vogliono, e l’uso che si fa della propria libertà è la prima valutazione. È necessario vedere chi c’è dietro un’idea».

Ha funzionato?
«In alcuni casi sì, in altri no. Renderemo noti a brevi i cinque nomi scelti, tra i quaranta che si sono presentati, ma intanto diciamo che uno dei partecipanti al Pitch contest, Marco Sanna di Meridiano Zero (Sassari) è stato scelto come regista per Soglie di Is Mascareddas, tratto da Le via del pepe di Massimo Carlotto, in scena al Teatro Massimo fino al 24 maggio».

La prima fase delle Giovani idee è conclusa quindi?
«Sì, i progetti sono stati scelti insieme al Circuito Teatrale Regionale Sardo, Akroama, altro soggetto del territorio, e a una rete di spazi indipendenti sardi. E poi il Pitch diventa un meccanismo fisso, per altri possibili progetti da inserire, perché la produzione è il nostro obiettivo. In questo modo mi auspico un ricambio generazionale, forse è un metodo più lento del provino, ma favorisce sicuramente l’autorialità e l’unicità».

Lo sguardo ai giovani non si limita solo agli artisti, ma anche al pubblico. Si sta facendo un’operazione importante per coinvolgere gli studenti dell’ateneo cagliaritano.
«Vorrei tutti i ventisettemila studenti a teatro con noi. Abbiamo convinto il presidente dell’Ersu (Ente Regionale per il Diritto allo Studio Universitario) a pre-acquistarci duecento tessere, da mettere in vendita a solo un euro. Abbiamo chiesto un aiuto per lavorare sulla domanda latente di teatro, per portare gli studenti in platea almeno una volta, poi è responsabilità nostra farli tornare. Le duecento tessere sono andate a ruba, si è sentita l’appartenenza di un teatro a una comunità. Ne venderemo altre a dieci euro, e poi abbiamo inventato un sistema di upgrade secondo il quale si può acquistare un abbonamento per cinque spettacoli in galleria, e si possono migliorare la quantità di spettacoli e la qualità dei posti, sia pagando che dando vita ad alcune attività che fanno conquistare punti».

Ad esempio?
«Ad esempio invitare gli amici di facebook a vedere lo spettacolo, fare un turno di maschera, distribuire il materiale, scrivere le recensioni degli spettacoli, twittare, suggerire un altro modo per fare punti».

Promuovere nuove idee, conquistare il pubblico giovane, ma anche stabilire uno scarto rispetto al sistema costituito?
«Ovviamente. Il sistema sardo non funziona, bisogna ammetterlo, e non funziona perché le grandi strutture hanno fatto da tappo, e quando ci sono i tappi ci sono le compensazioni, di tipo economico, perché la Regione cerca di compensare sovvenzionando i soggetti. Alcuni rifiutano il meccanismo del finanziamento pubblico, ma hanno bisogno di uno spazio per affermare la propria artisticità. Quindi si è generato un sistema di spazi autonomi, finanziati e non, che producono se stessi. È un sistema chiuso, perché tutto l’emergente che c’è in regione non cresce. Sardegna Teatro sta spostando gli equilibri, producendo, producendo l’emergente, portando operatori internazionali. Così si rompono gli schemi. Così si pone l’accento su Cagliari, una città in ascesa. Così si parte dalla Sardegna, come territorio in evoluzione».

È questa l’immagine che hai dell’isola?
«Sono un uomo che non ha molte radici ma tanti rami. Non sentendo un’appartenenza a un altro luogo, non ho fascinazione da turista, e in Sardegna la potenza del primo livello è enorme. Ho molto girato, molto camminato, individuato ciò che è elemento di forza, come la scrittura. Credo che si debba trovare l’equilibrio tra rapporto con la propria comunità e dimensione internazionale. Il cosmopolitismo di oggi è diverso dal globalismo. Il cosmopolitismo necessita della naturalezza con cui riesce a scegliere i valori del territorio, senza condizionamento. Non credo all’identità perché è un concetto in costante divenire. Ma credo che il coraggio stia nell’investire sul territorio, guardando al meccanismo delle rete, ai mondi paralleli, alle nuove economie, alle nuove condivisioni, al rapporto con la lingua, perché bilinguismo significa multiculturalismo, oltre che non paura del diverso. E l’isolamento, oltre che un limite, può essere una possibilità, perché ci sono culture, come erbe, che esistono solo qui. Appunto, si parte dalla Sardegna, come territorio in evoluzione, per la posizione geografica, perché è un ponte per il Mediterraneo, perché può porsi al centro della riflessione su altri mondi. Perché è un territorio da cui far nascere contenuto, valore, senso. Proviamo a capire come la Sardegna può raccontarsi».

Intervista a cura di Rossella Porcheddu