Parla quasi ininterrottamente per più di un’ora. Pause ne fa poche. Ad ascoltarlo in privato, vis à vis, si assiste a ciò cui abbiamo preso parte in pubblico, seduti su una poltroncina, tante volte. Perché raccontare spettacoli è un po’ come raccontare se stessi. Così, dicendo quello che non gli piace e ciò che non gli interessa più essere, Andrea Cosentino descrive il suo percorso, dal 1998 a oggi, dall’incontro con pazienti ex manicomiali e il loro eterno presente allo scontro con Marina Abramovic e la body art. E se oggi l’artista abruzzese gira non solo con l’ultimo lavoro, Not here not now (leggi la recensione), ma anche con spettacoli ‘di repertorio’ come Angelica e L’Asino albino, la sua attenzione è rivolta soprattutto ad altri progetti, che, in questo momento gli appaiono maggiormente stimolanti. Nasce dunque come una sfida Telemomò on stage, in collaborazione con økapi, Natalia Bonanese e Tommaso Abatescianni, che lo vede impegnato per tutto il mese di maggio al Teatro di Villa Torlonia. Un’avventura che mira a coinvolgere il quartiere nomentano con incursioni nelle strade e percorsi laboratoriali, e che vede un’apertura al pubblico in tre serate finali, il 23, 24 e 25 maggio alle ore 21, per un “varietà situazionista di paratelevisione a filiera corta”, come ci racconta il suo ideatore:
«È un tentativo di allargarmi, di uscire dal lavoro da solista, all’insegna del teatro popolare. La cornice di Telemomò (guarda il video su YouTube) è talmente flessibile che mi piace usarla in progetti di coinvolgimento di fasce di popolazione diverse rispetto a quelle che si trovano a Teatri di Vetro, o a Short Theatre, ad esempio. Mi interessa incontrare il quartiere e le persone che lo abitano e che poco, o vagamente, sanno del teatro».
Qual è il pubblico che sta partecipando?
«I pazienti di un Centro di Igiene Mentale, gli ospiti di un Centro Anziani e bambini dai sei ai dieci anni. Lavoro con associazioni del territorio che organizzano gli incontri».
Come sono strutturati i laboratori?
«Faccio raccontare a fasce di popolazione per le quali ancora il piccolo schermo è una finestra quasi esclusiva sulla realtà, le loro esperienze di spettatori e la loro idea di televisione. Glielo faccio raccontare nel mio ‘schermo scemo’ e Tommaso Abatescianni li registra, costruendo materiale video. Inoltre sono previste incursioni nel quartiere, sempre con la registrazione di ciò che accade».
Come si articoleranno le tre serate finali?
«Ci saranno le mie gag, la musica con økapi, la danza con Natalia Bonanese, i video con Tommaso Abatescianni, con la restituzione di parte dei materiali registrati. Cerco di costruire un progetto che abbia la ricchezza e la povertà di un varietà televisivo. La sfida per me è coinvolgere il pubblico, mi interessa l’eterogeneità, è il motivo per cui faccio questo mestiere».
Da una parte il progetto a Villa Torlonia e dall’altra le repliche del nuovo lavoro ma anche di produzioni di vecchia data.
«Non penso a ciò che faccio come a uno spettacolo, piuttosto come a un format, un’idea da portare avanti. Inoltre, essendo un solista, non ho motivi per non replicare. Prima o poi dovrò mandare qualche spettacolo in pensione, lo so, però in fondo mi dispiace».
Non ti senti mai solo in scena?
«A volte sì, infatti Telemomò on stage vede la partecipazione di altri artisti, e a breve sarò impegnato in uno spettacolo con Roberto Castello, che debutterà a settembre. Ci siamo conosciuti, piaciuti, e inizieremo a provare a giugno, per un lavoro sull’economia. Mi stimola l’idea di collaborare con qualcuno che ha un background molto diverso dal mio, con un musicista, o un danzatore».
Una collaborazione continuativa è quella con Andrea Virginio, l’occhio esterno…
«Sì, è lui che firma la regia dei miei spettacoli. Alla genesi dei lavori c’è un momento di ideazione, in seguito il racconto delle idee ad Andrea, e poi le prove, a casa».
Non hai bisogno di un luogo altro?
«No, lo spazio dei miei spettacoli non è uno spazio fisico, è uno spazio mentale, di gioco, di relazione».
Una relazione tra diversi elementi, perché i tuoi spettacoli intrecciano più storie, o meglio seguono più direttrici.
«È difficile che si focalizzino solo su un argomento. Angelica prende spunto dal fatto che affittavo casa per girare uno sceneggiato televisivo, ma è uno spettacolo sulla morte, su Pasolini, che non si lega, almeno apparentemente, con il resto. Il mio primo lavoro, quello con cui ho partecipato al Premio Scenario, La tartaruga in bicicletta in discesa va veloce, nasceva dal servizio civile in una casa famiglia. Volevo lavorare con pazienti affetti da malattia mentale, ex manicomiali, perché Artaud, e Shakeaspeare, e Re Lear, e il matto e il folle…Ma volevo farlo per un mio bisogno di identificazione, per capire chi sono io».
Quindi era la tua storia, non la loro?
«Dopo un anno di servizio civile ero io a uscire trasformato, non loro, loro vivono in un eterno presente di piccole gioie, di piccoli dolori, di annichilimento. Non avevo niente da narrare, se non la mia trasformazione, la trasformazione del protagonista. Lo spettacolo si articolava in sketch, era non-narrazione».
Perciò, a dispetto di chi ti colloca tra i narratori di seconda generazione, tu non ti senti tale?
«Non credo di essere mai stato un narratore, anche se sono un solista, e uno che parla tanto. Dieci anni fa mi incattivivo, perché dovevo trovare uno spazio all’interno della critica. Adesso m’interessa di meno. Nei miei spettacoli non c’è quasi mai una storia, c’è una bolla di niente. Ho inventato una drammaturgia sul niente, artifici, il teatro nel teatro, il metateatro. È il mio modo di rendere fruibile teatralmente qualcosa che altrimenti non potrebbe esserlo. È il limite per cui una volta dicevo: “non faccio spettacoli, racconto spettacoli”. Primi passi sulla luna è il più compiuto da questo punto di vista, non c’è quasi più il teatro, ci sono solo io che parlo. Lo spettatore non vede uno spettacolo, vede me che lo racconto. Il narratore è qualcuno che dice “io ti rappresento, segui me e ti dico come stanno le cose”. Io invece dico: “sono il clown, non mi seguire, sono inaffidabile”. La base del mio teatro è l’inaffidabilità, il resto è poesia, il resto è comicità, il resto è intrattenimento, e uso questo termine provocatoriamente».
A proposito della televisione, e dei tuoi personaggi, in un’intervista di qualche anno fa (leggi qui) parlavi di una deriva sociale e culturale di cui, però, dicevi di far parte. È ancora così? Non c’è critica senza autocritica?
«Non giudico qualcosa al di fuori di me. È come se il teatro, quello nostro, quello piccolo, fosse stretto tra la sperimentazione (di chi crede di fare cose che nessuno ha mai fatto) e l’etica forte di chi, puro e duro, critica il mondo. Dobbiamo avere il coraggio di passare dentro le cose, perché da fuori sono tutte criticabili. Peter Brook ha detto che la bellezza di Shakespeare sta nel fatto che è in tutti i suoi personaggi, da Iago a Otello a Desdemona, e di tutti porta le ragioni. Nel teatro solista è diverso, e io faccio apparentemente solo macchiette, però anche io sono in tutti i miei personaggi ma, al contrario, canzono tutti, me compreso. Se non prendo in giro per primo me stesso, come faccio a prendere in giro Marina Abramovic?»
Intervista a cura di Rossella Porcheddu