Un tubo catodico a ciel sereno

No signal

Pensare per immagini ha sempre significato avere visioni interiori in grado di illuminare idee, concetti, emozioni. Ma quale ruolo gli si può riconoscere in un mondo in cui l’immagine diventa elemento grammaticale fondamentale del pensiero? Cosa accade quando, trafitti da fotogrammi e fotografie, l’immagine perde il suo carattere epifanico? no-signal, in scena il 27 e il 28 novembre al Teatro Storchi di Modena per opera della compagnia bolognese Teatrino Clandestino, cerca di rispondere a queste domande, costruendo un complesso quadro in grado di analizzare e denunciare le strutture della comunicazione nell’epoca contemporanea.

Lo spettacolo crea una dimensione che lascia lo spettatore in bilico tra l’immagine e la parola, tra la scrittura cinematografica e l’azione documentaristica. In scena, quattro personaggi aprono una finestra su quel luogo che sta oltre il significante e il significato stessi dell’immagine. Una finestra che consente di svelare il meccanismo di funzionamento dell’impressione visiva, intesa come vera e propria impronta lasciata nei solchi del nostro cervello, della nostra mente. L’elaborazione di qualsiasi visione veicolata dai nostri occhi implica una modifica sostanziale nel nostro modo di vedere le cose, di pensarle, e nella nostra capacità di decodificarla in modo personale, intimo. Attraverso uno spettacolo basato sulla forzatura del limite che si pone tra le immagini imposte dalle strutture mediatiche contemporanee e il potere evocativo della parola, in grado di ispirare quadri e fotografie, l’accostamento e la compenetrazione di una voce fuori campo che legge una sceneggiatura e l’azione teatrale danno forma ad un problema complesso che investe la società occidentale e occidentalizzata: l’incapacità di elaborare visioni personali.

Lo spettatore è costretto a fare i conti con una prova fisica e mentale nel tentativo di trovare un punto di contatto tra le due azioni che procedono parallelamente: quelle della storia narrata, deputate a stimolare immagini nella fantasia di chi le ode, e quelle dell’azione scenica. L’accostamento quasi conflittuale sconvolge, spinge il cervello al limite della dissociazione, costringendo i fruitori a divenire registi loro stessi di un montaggio che non vedranno mai concretizzarsi: per una volta, l’immagine non verrà imposta loro da un’entità superiore che li vuole destinatari passivi. Il meccanismo, rovesciato rispetto all’esperienza quotidiana, si articola ulteriormente attraverso un paradosso temporale altrettanto destabilizzante: sul palcoscenico, luogo della manipolazione o della sospensione, l’azione si fa metro del passare del tempo. La parola recitata dalla voce registrata si muove invece per balzi spaziali e temporali, tra interni ed esterni, giorni e notti, come vuole la terminologia tecnica per la scrittura di sceneggiature, smascherando le strutture di costruzione del racconto cinematografico, arte spesso associata ad una riproduzione mimetica della realtà. L’incongruenza apparente tra le due dimensioni narrative (racconto e scena) è disturbata da interferenze, piccoli gap e coincidenze narrative. I personaggi ci conducono in un viaggio che permette di smascherare i meccanismi alla base della costruzione di un sistema di simboli e simulacri condiviso: il teatro si trasforma così nel luogo in cui l’impossibilità di distinguere le categorie del reale e della finzione si manifesta in tutta la sua evidenza. Una condizione per cui l’Immaginario Collettivo ne esce inevitabilmente corrotto e deteriorato dalla sovrabbondanza di immagini mercificate, strumentalizzate al controllo e all’omologazione: una minaccia già avvertita dai tempi della nascita dei mezzi di comunicazione di massa e alla quale molti intellettuali hanno dedicato riflessioni, saggi e opere d’arte (basti pensare al capolavoro orwelliano 1984), ma che al giorno d’oggi necessita di un’azione/reazione forte, violenta e incontrollata. Distruggere tutto, ritornare ad un silenzio visivo e sonoro per poter ricostruire nuove immagini, libere da logiche di potere e tacita sottomissione: questo il messaggio rigurgitato dai personaggi sul palcoscenico alla fine dello spettacolo. Una scena che essi stessi hanno costruito materialmente sul palco di fronte agli occhi degli spettatori, accompagnati dalle parole del racconto narrato. È proprio questo spazio, questa scatola fatta di cartoni, che ricordano l’interno di un televisore, che poi si rivela essere il luogo che ospita l’ultima scena del racconto e permette di raggiungere il punto di incontro tra la realtà e la finzione: l’appartamento di un reality show.

La necessità di costruire immagini nuove si riflette anche nella struttura dello spettacolo stesso. La moltiplicazione dei piani della narrazione si articola ulteriormente grazie all’inserimento di intermezzi musicali a cui fa eco la voce di un personaggio apparentemente marginale: il Barbone. Insinuatosi sul palcoscenico sin dall’inizio dello spettacolo, dopo aver occupato invisibilmente i gradini esterni del teatro mentre la gente, entrando, gli lanciava sguardi indiscreti, tra il compassionevole e il disgustato, si rivela come il personaggio sin dall’inizio possieda una coscienza e una consapevolezza della realtà più profonda, che i personaggi acquisiscono gradualmente nel corso dello spettacolo. Esattamente come la figura del Matto nelle carte dei Tarocchi,il Barbone rappresenterebbe la follia pura, ciò che gli consente di affacciarsi alla vita di nuovo per ricrearla dal principio. È lui a denunciare crudamente attraverso le parole delle canzoni l’ “Impero delle Immagini”. Un canto solitario, al quale solo alla fine si aggiungono le voci dei quattro personaggi. Una speranza di rinascita, di rigenerazione, distrutta pochi attimi dopo dall’ingresso di una figura estranea alla storia, che invita i sovvertisti ad abbandonare il palco. I personaggi escono di scena, silenziosi, sottomessi, mentre nella testa degli spettatori ancora riecheggiano gli ultimi versi: “Volendo noi, potremmo insiem gridare Adesso basta! Quel giorno poi noi torneremo ad essere liberi. Liberté, égalité, fraternité”. Ancora una volta il Grande Fratello interviene per ristabilire l’Ordine necessario perché il Sistema non imploda. Lo spettacolo lascia però agli spettatori una traccia dell’esperienza appena vissuta: la possibilità di rileggere quelle parole di protesta e rivolta che hanno inondato la platea durante lo spettacolo, nell’auspicio che l’esperienza teatrale si protragga nella vita, contaminando l’Immaginario Collettivo nella direzione opposta rispetto a quella dei mass media.

Visto al Teatro Storchi, Modena

Giulia Tirelli

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