“Quello che si cerca è la sensazione di penetrazione fisica che confonde il proprio corpo con quello rappresentato, al punto da da trasformare la relazione tra spettatore e attore in corpo a corpo. Non è un atto di voyeurismo ma di partecipazione e di collaborazione alla costruzione dell’identità del personaggio, perché penso che l’impossibilità latente di una interpretazione razionale di ciò che accade è lo spazio che fa nascere il desiderio che permette al personaggio di esistere.” Fabrizio Arcuri
Andrea Porcheddu, critico e direttore artistico del Festival Teatri delle Mura di Padova, conduce l’incontro con Accademia Degli Artefatti, dopo lo spettacolo My Arm al Teatro Fondamenta Nuove.
« L’Accademia Degli Artefatti di Roma, che lavora da circa un ventennio, è una compagnia ancora giovane con una grande forza di rinnovarsi e presentare sempre delle strade nuove in Italia. Porta in scena Tim Crouch, autore che è esploso sulla scena contemporanea proprio con questo testo, My Arm, un monologo dalla forza dirompente, una grande vivacità di scrittura e originalità. Fabrizio Arcuri, regista e fondatore del gruppo, come sei incappato in questi testi? Come sei arrivato a Crouch, a Ravenil, autori in cui la parola e il linguaggio tornano prevalenti sulla scena e dove la presenza scenica dell’attore e l’essenzialità tornarono protagonisti.»
Fabrizio Arcuri: «La questione è sempre stata la stessa: il teatro è fatto di elementi fondamentali, l’attore, la scena, il testo. Quest’ultimo nei secoli si è declinato fino a sparire e a ricomparire in altre forme; è stato maltrattato, ridotto all’osso, è diventato scrittura scenica. Di fatto non ci si riesce a staccare da questi elementi fondamentali. Qualche anno fa siamo arrivati ad un punto del nostro percorso in cui siamo entrati in crisi perché il teatro fatto fino a quel momento dimostrava una certa sterilità. In quel periodo ho visto un documentario su Stanislavskij, dove lui metteva in discussione il suo metodo, dichiarando che non poteva essere un metodo, perché quell’atteggiamento attoriale e quella costruzione introspettiva psicologica che lui applicava ai suoi attori, gli scaturivano dai testi di Cechov; tant’è che se lui applicava quel modello a Cechov gli restituiva una verità, ma se lo applicava ad altri testi, ad esempio l’Otello, non funzionava allo stesso modo. Questo evidentemente accadeva perché Cechov essendo un uomo del tempo di Stanislavskij aveva lo stesso bisogno, la stessa necessità e lo stesso linguaggio. Allora ho pensato che fosse necessario cercare quale poteva essere l’atteggiamento corretto di un attore contemporaneo che decide di mettere in scena testi contemporanei. Quindi abbiamo semplicemente iniziato una ricerca, e ci siamo imbattuti in testi come questo, come Martin Crimp, Peter Handke, che sono dei testi non di drammaturgia tradizionale, qualcuno li definisce dei post-drama: perché sono testi cha hanno bisogno d’essere agiti per essere capiti. Ed è nell’azione che si crea, che noi cerchiamo di costruire una rete di relazioni, che nel nostro caso significa anche tentare di rispondere alle domande: che significa oggi essere un attore e interpretare un personaggio, lasciandosi alle spalle la tradizione».
Quindi, Matteo Angius, qual’è il rapporto che hai con questo testo, questo personaggio non personaggio…
Matteo Angius: «Credo che la parola che spiega un po’ quello che abbiamo fatto sia legittimità, una questione di leggibilità. Cosa mi legittima a fare uno spettacolo; con quale legittimità assumersi un personaggio, assumersi una credibilità. E lavorando abbiamo trovato una forma che fosse quella di credere a delle piccole relazioni, che possono essere costruite sul palco, ma per essere vere e credibili devono partire prima di tutto dalla persona, prima che dall’attore o dal personaggio. Questi sono i tre livelli su cui lavoriamo, persona, attore personaggio, e uno quando viene a teatro non può vedere solo la persona o solo il personaggio. Ed è da qui che parte il lavoro sull’attualità della replica, che è un paradosso, ma è proprio questa l’idea, far sì che la replica sia sempre attuale e non vada a riprodurre semplicemente una regia, un’interpretazione o un testo, ma lo metta in crisi ogni sera. La realtà è che quello che abbiamo lavorato, ogni volta lo mettiamo lì in crisi e a nudo di fronte allo spettatore, è a partire da qui che si stabilisce la relazione di partecipazione. E ogni volta lo spettacolo è diverso».
Una percezione sempre diversa quindi anche da parte del pubblico. Il teatro ormai lavora sempre più sulla percezione, è una delle frontiere che si sta attraversando…
Fabrizio Arcuri: « Il termine che userei non è percezione, nel senso che ci sono due cose fondamentali, una di queste è che gli spettacoli sono per gli spettatori. Quindi, quando noi facciamo teatro, lo facciamo per degli spettatori, è uno scarto che ci è accaduto nel corso degli anni. L’altro punto è l’importanza dell’inversione di rapporto di potere. Questo tipo di lavoro, pretende che lo spettatore parta da zero, e anche l’attore che sta in scena parte da zero, quindi la storia la costruiscono insieme. Normalmente a teatro siamo abituati a vedere delle persone che sanno delle cose e ce le rovesciano addosso, qui non è così. Questo è il ribaltamento totale, è la decisione di consegnare il potere in mano allo spettatore. Un’apertura, una frantumazione dell’opera fondamentale. Perché se l’attore che sta in scena non fa in modo che il pubblico pensi con lui, ma possa anticiparlo, allora lo spettacolo non sta in piedi. La questione principale è partire da zero e costruire un pensiero comune che sostiene il testo, che è basato quindi, sulle relazioni che si vengono a creare, ogni sera diverse, ogni sera come la prima.»
a cura di Camilla Toso